Rosvita di Gandersheim

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Rosvita di Gandersheim

Anno 845. Il duca di Sassonia Liudolfo e la moglie Oda intraprendono un lungo viaggio fino a Roma per chiedere a papa Sergio II il benestare alla fondazione di un nuovo monastero femminile nelle loro terre, a Gandersheim.

La Sassonia era entrata a far parte dell’impero carolingio solo pochi decenni prima, nell’804, a conclusione di un lungo processo di conquista che aveva tenuto occupato Carlo Magno per più di trent’anni, in una escalation di violenze che lo stesso Alcuino, intellettuale di spicco alla corte carolingia e consigliere del re, non aveva mancato di stigmatizzare.

L’abbazia di Gandersheim

I Sassoni, “gente di spada”, erano stati l’ultima tribù germanica a convertirsi al cristianesimo e, nel loro caso più che mai, evangelizzazione aveva significato guerra, deportazioni di massa, battesimi forzati.[1]

A quarant’anni dalla conquista, il pellegrinaggio a Roma dei duchi di Sassonia dimostrava che il processo di integrazione politica e religiosa dei Sassoni nel Sacro romano impero era ormai cosa compiuta.

A Gandersheim, come in molti altri monasteri altomedievali di fondazione regia, vivevano Virgines velatae e Ancillae Dei canonicae: le prime pronunciavano i tre voti di povertà, castità e obbedienza, mentre le canonichesse secolari, o Frauenstift, non si vincolavano al voto di povertà.

Erano soprattutto le figlie dei nobili ad abbracciare questa forma di vita religiosa: sottraendosi ai mercanteggiamenti che riducevano il corpo delle donne a merce di scambio nelle trattative matrimoniali finalizzate a stabilire o stabilizzare alleanze, le giovani aristocratiche potevano trovare nel monastero una «stanza tutta per sé» in cui regalare all’anima il respiro della libertà.

Le canonichesse erano tenute alla recita della preghiera delle ore canoniche, alla celebrazione di liturgie in suffragio della famiglia fondatrice e alla consumazione dei pasti in comune, ma disponevano di spazi privati, di libri, di una propria servitù; potevano dedicarsi allo studio e alla scrittura; non erano vincolate alle regole della stretta clausura e avevano la possibilità di ricevere ospiti e di coltivare amicizie intellettuali.

Mentre si avvicinava la fine del IX secolo, la fragile architettura dell’impero carolingio cominciava a sfaldarsi. Le lotte di successione tra i discendenti di Carlo Magno e le forze centrifughe insite nella stessa struttura feudale minavano dall’interno l’organizzazione unitaria del potere.

Estintasi la dinastia carolingia, il titolo imperiale riuscì a ritrovare piena significatività soltanto nella seconda metà del secolo successivo, quando fu proprio il duca di Sassonia e re dei Franchi orientali Ottone, che di Liudolfo era discendente diretto, ad essere incoronato imperatore.

L’abbazia di Gandersheim, a mano a mano che i discendenti di Liudolfo acquisivano prestigio all’interno dei confini del regno – fino alla salita al trono imperiale –, si vide confermare privilegi sempre più ampi; l’immediatezza imperiale[2] garantì alle badesse posizioni prestigiose di autonomia, tra cui la possibilità di battere moneta e di istituire propri tribunali.

La prima badessa di Gandersheim era stata Hathumoda, figlia primogenita di Oda e Liudolfo, seguita dalle sorelle Gerberga e Cristina. Nei secoli X e XI i nomi delle badesse indicano una vicinanza molto stretta alla corte imperiale: Gerberga II, donna di vasta e solida cultura, divenuta badessa a metà del secolo X, era figlia di un fratello di Ottone I; nell’XI secolo saranno due figlie dell’imperatore Ottone II e della principessa bizantina Teofano, sorelle di Ottone III, a reggere l’abbazia.

Il monastero di Gandersheim fu una delle istituzioni religiose e culturali più prestigiose dell’età ottoniana. E proprio a Gandersheim, nel corso del X secolo, quando era badessa Gerberga II, visse Rosvita, la prima poetessa tedesca.

Rara avis in Saxonia est?[3]

Fu il monaco Enrico Bodo, che lesse ammirato le opere di Rosvita nel secolo XV, a presentarla come una rara avis; la definizione, accolta con entusiasmo dagli umanisti tedeschi che ne curarono le prime edizioni a stampa all’inizio del Cinquecento, contribuì a far leggere i lavori della monaca di Gandersheim come prodotti unici di assoluta eccezionalità.

È, questo, un fenomeno che si verifica spesso quando ci si trova di fronte all’intellettualità femminile: celebrare la singolarità eccezionale consente, infatti, di mantenere inalterata la regola che assegna alle donne tutte, di qualsivoglia epoca storica, una standardizzata posizione di mediocritas, quando non addirittura di irredimibile minorità, nelle questioni di ordine intellettuale.

Nei secoli successivi alla riscoperta di Rosvita non mancarono i tentativi di negare la stessa realtà storica della poetessa, in linea con pratiche consolidate di silenziamento delle voci femminili; ma il lavoro critico del Novecento ha dimostrato l’incontestabilità della vicenda umana, poetica e intellettuale della monaca di Gandersheim, liberando Rosvita dalla connotazione di eccezionale rarità e restituendo la sua figura alla rete di relazioni intellettuali femminili che hanno permesso la piena maturazione della sua consapevolezza artistica.

Dallo sfondo storico dell’età ottoniana emergono numerose figure di donne. Madri, mogli, figlie, sorelle degli imperatori, attive direttamente nella gestione della vita politica in qualità di reggenti per il marito assente o per i figli o i nipoti minori, riconosciute pubblicamente nella loro autorevolezza come badesse e fondatrici di monasteri, portatrici di un’idea di santità femminile declinata in senso fortemente attivo: possiamo ricordare almeno la madre di Ottone I, Matilde di Sassonia; la moglie, Adelaide di Borgogna; la figlia Matilde, principessa-badessa di Quedlinburg; la nuora Teofano, principessa bizantina, sposa di Ottone II e madre di Ottone III.

Il significativo impegno di promozione culturale, politica e religiosa messa in atto dalle donne del casato degli Ottoni non mancò di riverberarsi sull’abbazia di Gandersheim; gli scambi e i contatti con l’ambiente intellettuale della corte ottoniana influirono notevolmente sulla formazione di Rosvita,[4] che fu autrice poliedrica, capace di spaziare dalle leggende agiografiche ai dialoghi drammatici ai poemi epico-storici, dimostrando grande perizia metrica, potenza di creatività e una formazione intellettuale di primissimo livello.

Il teatro di Rosvita

Uno degli aspetti più interessanti della produzione letteraria di Rosvita è legato alla sua operazione di riscrittura del teatro di Terenzio, il grande drammaturgo latino del II secolo a.C., lettura prediletta degli intellettuali dell’età ottoniana. I Dialoghi drammatici, concepiti per una lettura drammatizzata, più che per una vera e propria azione scenica, rappresentano uno snodo importante nella storia del teatro medievale.

Nella fase di passaggio dall’età classica all’età medievale l’esperienza teatrale si era trovata ad affrontare i veti imposti dalla Chiesa, che aveva sanzionato con giudizi pesantemente negativi questa forma di espressione artistica, impedendo ai cristiani la partecipazione agli spettacoli e la scrittura di testi teatrali.

L’opera drammaturgica della canonichessa di Gandersheim riuscì a superare le limitazioni imposte dalla Chiesa: proponendosi come occasione di meditazione spirituale che invita ad alzare lo sguardo dal piano della storia umana all’eternità, i lavori teatrali di Rosvita tracciano una sorta di ponte verso il basso medioevo, quando il teatro rinascerà nella forma delle sacre rappresentazioni.

Rosvita coglie da Terenzio lo stimolo iniziale e alcune suggestioni di carattere contenutistico, oltre che indicazioni di carattere stilistico e lessicale, e alle sei commedie scritte dal commediografo latino fa corrispondere i suoi sei Dialoghi drammatici. Ma poi il Clamor validus Gandersheimensis,[5] come lei stessa si autodefinisce, percorre la strada in autonomia, trovando vie originali per esprimere la propria creatività.

Homo sum, humani nihil a me alienum puto,[6] recitava uno dei più famosi versi terenziani, fondamento del suo ideale di humanitas. Ideale che, in Terenzio, si spingeva a presentare sotto una luce nuova anche le figure femminili, così spesso ingabbiate dalla cultura e dalla letteratura in stereotipizzazioni misogine.

Rosvita prende spunto da queste suggestioni e le spinge alle estreme conseguenze, osando fino in fondo la contrapposizione tra un personaggio maschile negativo, proiettato nella dimensione escludente del potere e dell’autorealizzazione, e un personaggio femminile positivo, che della virtù della castità e della propria integrità morale fa lo strumento potentissimo che permette di dare sconfitta alla violenza maschile.

Rosvita respinge senza mezze misure gli stereotipi misogini che avevano percorso tanta letteratura classica e cristiana; di contro all’immagine della donna come ianua diaboli, secondo la definizione di Tertulliano, la canonichessa di Gandersheim rilegge la debolezza femminile come instrumentum Dei, strumento della grazia, anticipando, con questa riflessione sul ruolo salvifico della donna, la decisiva rielaborazione di pensiero che la poesia trobadorica e il Dolce Stil Novo metteranno in atto con l’aprirsi del nuovo millennio.

Tutta un’altra storia

La biografia e la scrittura di Rosvita si sostanziano di un fecondo intreccio di relazioni femminili, coltivate in una dimensione di profonda risonanza affettiva e intellettuale: parole di affetto e di stima per la maestra Rikkarda e la badessa Gerberga accompagnano la dedica del suo primo libro; e profili di donna di grande significatività si dispiegano nelle pagine di tutte le sue opere, comprese quelle di carattere storico.

Nel poema Gesta Ottonis imperatoris, in cui vengono narrate le vicende storiche della casa di Sassonia fino all’incoronazione di Ottone I, lo sguardo dell’autrice non rimane concentrato unicamente sul protagonista maschile e sulle sue imprese di armi e di guerra, ma porta in evidenza il ruolo decisivo assunto dalle due mogli di Ottone, Edith del Wessex prima e Adelaide di Borgogna poi, rispetto allo svolgimento dell’azione politica del sovrano e alla sua possibilità di accedere alla corona imperiale.

Nei Primordia Coenobii Gandersheimensis, dedicati alla storia dell’abbazia dalla sua fondazione fino al 919, anno della morte della terza badessa figlia di Liudolfo, Cristina, la narrazione prende le mosse dal pellegrinaggio a Roma di Liudolfo e Oda per recuperare, attraverso il sogno profetico della religiosissima Aeda, madre di Oda, una prospettiva genealogica femminile che si fa strumento di legittimazione della stessa incoronazione imperiale dei discendenti di Liudolfo.

Cosa vuol dire raccontare la storia? La storia è sempre quella, ma è anche un’altra – è l’atto del racconto che modula e rimodula i fatti storici; i quali, in quanto “fatti”, non si danno che all’interno di un’operazione narrativa; la quale, a sua volta, non può che strutturarsi a partire da focalizzazioni.

Rosvita, dislocando lo sguardo e spostando il punto prospettico della narrazione, incide nella storia altre linee di lettura, che diventano possibilità “altre” di significazione. Così, volti e parole che il canone storiografico normalmente trascura e destina all’omissione o all’insignificanza, in Rosvita diventano fondamento di una ridefinizione di significatività: se la storia è stata quella che è stata, è stata anche perché c’erano le donne. Sembra banale, ma pensarlo e scriverlo – non solo nel secolo X – può essere un’impresa davvero impegnativa.

Dovranno passare otto secoli prima che in Europa maturi il tempo della rivendicazione dei diritti, prima che Olympe de Gouges scriva la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne e Mary Wollstonecraft A Vindication of the Rights of Woman.

Rosvita non osa rivendicare diritti, ma ha l’audacia di rivendicare virtù. Attraverso le fiere e volitive protagoniste delle sue storie, portatrici di virtù tradizionalmente associate solo agli uomini e considerate incompatibili con il debole sesso femminile, la poetessa di Gandersheim rivendica per tutte le donne il coraggio, l’abnegazione, la costanza e la forza d’animo. Ed è, subito, tutta un’altra storia.

Bibliografia

Rosvita, Dialoghi drammatici, a cura di Ferruccio Bertini, Garzanti 2000.
Rosvita, Leggende e drammi sacri, a cura di Anna Maria Sciacca, Castelvecchi.
Ferruccio Bertini – Franco Cardini – Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri – Claudio Leonardi, Medioevo al femminile, Laterza 2018.
Armando Bisanti, Un ventennio di studi su Rosvita di Gandersheim, Fondazione Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2005 (qui).
Carla Del Zotto, Rosvita, la poetessa degli imperatori sassoni, Jaka Book.
Peter Dronke, Donne e cultura nel Medioevo. Scrittrici medievali dal II al XIV secolo, il Saggiatore, Milano 1986.


[1] Nel 772, Carlo Magno aveva abbattuto l’Irminsul, l’albero che, secondo la religione germanica, rappresentava il Grande pilastro che sosteneva la volta del cielo, permettendo una diretta connessione tra mondo umano e realtà divina. La reazione dei Sassoni era stata immediata: cenobi e abbazie vennero distrutti, i guerrieri franchi furono uccisi a migliaia. A sua volta Carlo Magno rinnovò campagne militari e rappresaglie. L’azione più violenta si ebbe con il massacro di Verden, dell’ottobre del 782, quando in un solo giorno furono decapitati 4.500 guerrieri sassoni. A coronamento dell’opera di evangelizzazione, nei territori di nuova annessione vennero fondati sei vescovati.

[2] L’immediatezza imperiale (Reichsunmittelbarkeit) era uno status politico privilegiato che stabiliva un legame di dipendenza diretta (“immediata” nel senso di “senza intermediari”) dall’imperatore, con esclusione dell’autorità dei signori locali, laici o religiosi che fossero. La concessione dell’immediatezza implicava l’obbligo di ospitalità nei confronti dell’imperatore, come attestano le numerose visite imperiali a Gandersheim.

[3] Traduci: C’è un uccello raro, ossia una rarità, in Sassonia?

[4] L’età ottoniana fu un’epoca di straordinaria vivacità culturale, come attesta l’attività di intellettuali di spicco legati alla corte, quali Raterio da Verona, Liutprando di Cremona, lo stesso coltissimo fratello di Ottone I, Brunone, arcivescovo di Colonia.

[5] Traduci: Il grido potente di Gandersheim.

[6] Traduci: Sono uomo, nulla di ciò che è umano lo ritengo a me estraneo. (HeautontimorùmenosIl punitore di sé stesso, v. 77):

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Un commento

  1. Marco Ansalone 17 dicembre 2022

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