Apostati: battaglia teologica contro il Daesh

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In un articolo apparso sul New York Times (8 maggio) Laurie Goldenstein offre un profilo dell’impegno di accademici musulmani e iman per rispondere, a livello teologico, alle pretese di legittimazione religiosa del Daesh. Un gruppo di essi è stato indicato come «bersaglio obbligatorio per farne un esempio» nell’ultimo numero della rivista online Dabiq – mezzo di propaganda in rete del Daesh. Le autorità statunitensi valutano come reale il pericolo che corrono le persone messe all’indice da Dabiq. Ed è soprattutto alla rete che questi rappresentanti delle comunità musulmane negli Stati Uniti, Canada, Inghilterra e Australia, hanno affidato la circolazione di una teologia alternativa a quella propugnata dal Daesh. Dando attenzione particolare alla legittimità religiosa della pretesa avanzata dal Daesh di aver dato forma a un “califfato” guidato da un successore del profeta (Maometto).

Alcuni aspetti di questa vicenda meritano di essere brevemente sottolineati. L’accusa di apostasia, mossa pubblicamente dal Daesh verso questo gruppo di persone, raccoglie ogni credente musulmano che non si riconosca nel “califfato”, e non lo confessi nella sua legittimità, all’interno del grande bacino degli infedeli in cui vengono incluse tutte le altre religioni. Questa rivendicazione, che mette insieme pretesa politica ed esclusivismo religioso, declinandola quasi in una sorta di “magistero”, permette di cogliere un problema interno all’islam contemporaneo: quello di una chiara rappresentanza nello spazio pubblico. Tratto che all’islam manca in maniera costitutiva – in merito Paolo Prodi parla dell’islam come «eresia del cristianesimo», in quanto forma della religione che rifiuta la “Chiesa”, ossia una figura istituzionale di riferimento con pretesa universalistica. Ci si potrebbe dunque chiedere se l’attrazione esercitata dal Daesh all’interno del ceto musulmano in Occidente non sia anche legata a questa inedita offerta di una rappresentanza ben determinata, che va a occupare il vuoto di un referente istituito sulla scena pubblica.

Il secondo aspetto riguarda l’assunzione dello spazio teologico, all’interno dell’islam, come ambito di risposta adeguata all’esclusivismo di rappresentanza avocato a sé dal Daesh. La reazione violenta della lista di “bersagli obbligatori” pubblicata da Dabiq sembra che in tal modo sia andato a cogliere uno snodo centrale della strategia propagandistica del Daesh. Se sta questa analisi, allora il mondo occidentale deve sviluppare una sensibilità affinata verso questi percorsi e proposte teologiche alternativi, e religiosamente critici, all’esclusivismo teologico del Daesh. Ossia bisogna fare attenzione a non chiedere a questa teologia islamica altra di rassicurare noi in primo luogo; quanto, piuttosto, si deve concederle il credito di poter costruire uno spazio religioso, delle coordinate spirituali, e un sapere della religione interno a essa, che mostrano, lasciati essere proprio così, una capacità di impatto significativo contro la forza propagandistica, e conseguentemente di reclutamento, del Daesh. Se poi questo processo teologico riuscirà a toccare realmente la questione di una qualche forma di rappresentanza dell’islam, nella sua varietà e nelle sue molte declinazioni, è possibile che il Daesh si trovi messo alle corde proprio su un tema di cui oggi può vantare una sorta di esclusiva assoluta. Solo questa concessione di credito permetterà la maturazione di una coscienza islamica intorno alla domanda: «Che cosa rappresenta l’islam, e come lo si può rappresentare, nello spazio pubblico della globalità contemporanea?».

Maturazione che potrebbe avere ricadute significative per una nuova configurazione globale della fede musulmana. Le potrebbe avere perché la questione di una rappresentanza istituita dell’islam nascerebbe, a questo punto, da una dialettica interna e non per imposizione di un modello occidentale che la prevede come necessaria per il riconoscimento pubblico di una religione.

E qui si pone un ulteriore tema che merita un breve cenno. Tema che interessa la religione nel suo complesso e non solo l’islam. Si tratta del ruolo della rete rispetto alla configurazione della rappresentanza, da un lato, e il suo divenire un vero e proprio luogo teologico – e non semplicemente l’essere una sorta di mezzo inerte che permette la circolazione delle informazioni, dall’altro. È molto probabile che le teologie siano impreparate davanti a una simile questione, e che quindi si debbano impegnare a una riflessione ulteriore sulla rete come luogo. Certo è che essa va comunque riconfigurando il modo di essere delle istituzioni religiose stesse, per quelle confessioni che le hanno. Ed è probabile che la grande domanda inevasa, e il convitato di pietra, della rete sia proprio quella di una rappresentanza comune, quella del referente individuabile per comprendere i posizionamenti dell’umano. L’istituzione che riuscirà a cogliere in maniera adeguata questa domanda, e a darsi un profilo corrispondente senza perdere la referenzialità, sarà quella che detterà i codici della rappresentanza a venire. Lo scontro in materia all’interno dell’islam merita di essere seguito con attenzione e intelligenza.

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