Celibato islamico?

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«Dunque, non ti sposi?». Gli sguardi si concentrano su di me, seduto in fondo al pullmino stipato di gente, nel traffico frenetico verso Ramallah prima della rottura del digiuno.

Persino due ragazze velate di tutto punto dietro all’autista sentono il bisogno di voltarsi per seguire la discussione, avviata dal mio giovane vicino, tra un misto di curiosità, compassione e rimprovero.

L’islam, come si sa, incoraggia vigorosamente al matrimonio, come via di perfetta castità (attraverso la soddisfazione degli impulsi sessuali) e di allargamento della Ummah.

Cerco anzitutto di spiegare che la scelta celibataria è una faccenda personale, insindacabile, che uno tiene ferma sino al giorno in cui cambia idea. Una scelta di coscienza e una questione tra te e Dio, se mai esiste.

L’importante è che il cuore sia mutma’inn, tranquillo, una categoria della vita interiore che so avere un valore discriminante per i miei interlocutori musulmani.

Poi però butto un sasso nello stagno: anche la vostra tradizione contiene germi di monachesimo, nascosti nel senso potente dell’assoluto di Dio che vi portate dentro. Si racconta così che, nella prima generazione di musulmani, qualcuno sia stato tentato persino dal ricorso alla castrazione, come via per garantirsi una dedizione senza flessioni alla causa di Dio.

celibato islamico

Rabiʿa al-’Adawiyya (Basra, 713/717 – Basra, 801) è stata una mistica araba musulmana, considerata la più famosa e venerata donna sufi.

Penso a due figure luminose della storia della spiritualità islamica: ‘Uthman b. Maʿzun (m. 625) e Rabiʿa al-’Adawiyya (m. 801). La seconda è la grande mistica di Basra, che rispose così a un maggiorente della città che l’aveva chiesta in sposa: «Tu, passionale, vatti a cercare una passionale come te!».

Del primo si narra che la moglie andò a lamentarsi direttamente con il Profeta dell’islam: «Da lui non abbiamo niente: di giorno digiuna, di notte sta in piedi a pregare». Stando alla tradizione, Muhammad l’avrebbe ammonito così: «‛Uthmān, Dio non ci ha prescritto il monachesimo!». E in un’altra narrazione: «‘Uthman, Dio benedetto eccelso non ci ha prescritto il monachesimo. Il monachesimo della mia Nazione è il jihad per la causa di Dio».

Secondo il grande orientalista Massignon, si tratterebbe di narrazioni costruite a posteriori, per arginare una tendenza celibataria pericolosa, in un momento in cui l’islam aveva bisogno di figli e di combattenti. Ma sono supposizioni di cui – lo so bene – non è possibile ragionare con i musulmani, in generale alieni a un approccio storico-critico alle proprie fonti. Che peccato!

Rimane il senso forte dell’assoluto di Dio nell’islam, che qui e là si manifesta nella forma della rinuncia al matrimonio.

Nel 2014 Islamweb, sito qatarino di provata ortodossia, tranquillizzava un musulmano imbarazzato dal caso dei “celibi dell’islam”, citandogli i casi eclatanti dello storico al-Tabari (m. 923), dell’esperto di hadith al-Nawawi (m. 1277), e del padre dell’islam salafita Ibn Taymiyya (m. 1328).

La loro scelta – si legge sul sito gestito dal ministero degli affari religiosi del Qatar – «era motivata dal desiderio di dedicarsi più liberamente alla scienza legale e di profondersi maggiormente nel culto divino».[1]

Nulla di male se altri seguono oggi il loro esempio, a patto che abbiano la forza della coerenza. È il caso di una parente materna di una cara amica siriana, che io ho soprannominato khalatuki al-qiddisa (la tua santa zia): viveva nella stanza più interna della casa, cibandosi frugalmente e pregando incessantemente. Bellissima, a quanto mi descrive, e piena di buon umore e dolcezza, ma indisponibile a una vita diversa da quella nella quale perseverò sino alla morte.

«Allah ya’tik al-’afye», grida all’autista il ragazzo seduto accanto a me: «Che Dio ti dia salute» è la frase usata per avvertire che si vuol scendere (Dio qui c’entra anche con le fermate dell’autobus). Mi sorride e gli sorrido: «E tu, ti sei sposato?». «Lissa baʿd», non ancora. «Beh, allora pensaci. Il matrimonio è una cosa bellissima, ma si può fare anche senza, senza cadere nel haram, e spendendo tutte le proprie energie per il bene della comunità, e la gloria di Dio, se mai c’è».


[1] www.islamweb.net/ar/consult/index.php?page=Details&id=2221917

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