Il futuro dell’UE e le religioni

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La Commissione Europea, nella persona del primo vicepresidente Frans Timmermans, ha promosso anche quest’anno, ai primi di ottobre, un incontro di alto livello con rappresentanti delle principali Chiese e associazioni o comunità religiose d’Europa, sul tema «Il futuro dell’Europa: affrontare le sfide con azioni concrete». Più che un resoconto, quello che mi propongo di offrire è una ricognizione delle questioni più vive di un dibattito a cui è difficile rimanere estranei, se solo si ha un poco a cuore quanto avviene nello scenario europeo in questi mesi, soprattutto nella prospettiva delle prossime elezioni.

Un dialogo «aperto, trasparente, regolare»

Se una rievocazione va fatta dell’incontro, è solo perché merita di essere sottolineato un tratto che accomuna in misura prevalente le diverse religioni e confessioni, e cioè il superamento delle preoccupazioni di parte per concentrare l’attenzione sull’Europa come bene di tutti, anche di uomini e donne credenti e delle Chiese e religioni nel loro insieme. Si è potuto constatare il comune interesse per lo stato attuale e per l’avvenire dell’Unione Europea.

Accanto a questo, o forse proprio per questo, è difficile, in una tale circostanza, restringere i temi ad alcuni ambiti soltanto, poniamo di ordine etico o istituzionale, poiché tutti gli aspetti della situazione attuale dell’Unione si propongono sul tavolo del confronto e della discussione evidenziando che tutto di essa sta a cuore a tutti. Lo stesso art. 17 TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), che è alla base del dialogo con le istituzioni religiose, è stato richiamato solo per mostrare in atto una comunicazione aperta, trasparente e regolare che rispecchia il riconoscimento del posto delle religioni nell’Europa dei popoli e delle nazioni, e del bene reciproco che rappresenta il loro rapporto con l’Unione.

Un passaggio difficile

Il fatto probabilmente più significativo di questa fase storica è rappresentato dalla coscienza che l’Unione si trova ad attraversare un passaggio molto delicato, se non propriamente critico. Guardando alle prossime elezioni, sorge la domanda se ci sarà ancora una Unione Europea. Per la prima volta è diventato pensabile che essa possa finire. I populismi sono indicati come la minaccia più grande alla sua integrità e permanenza; il loro tipo di politica non permetterebbe all’Unione di sopravvivere.

A ben vedere, la situazione appare più complessa. Se infatti ci si ferma a considerazioni di ordine elettorale, è possibile mettere in conto una tenuta anche abbastanza ampia delle formazioni politiche tradizionali. L’aspetto più critico sta invece nella disaffezione e nel disamore che si percepisce tra i cittadini europei, ben oltre i confini elettorali delle forze populiste.

C’è preoccupazione per come sta evolvendo la società; si diffonde una paura che si materializza nella figura dei migranti ma che presenta ben altre radici ed è alimentata da fenomeni di più profonda origine e di autonoma evoluzione. La paura poi si trasforma in rabbia e, via via, in odio contro qualcuno individuato nel migrante e nello straniero, e in genere nelle minoranze, portando alla fine allo scontro. La cosa più ignobile è la strumentalizzazione che i vari populismi e nazionalismi fanno di questa paura, con il rischio di ricadere nel razzismo.

Chemnitz

Non è raro che tali forze facciano appello alla tradizione cristiana, se non addirittura la rivendichino ma, nei fatti, piegandola ad altri fini. Di essa, infatti, accettano solo alcune parti e, anzi, se ne servono per escludere, e non per includere, tradendo la sua originaria vocazione e il suo spirito più autentico. Sono in tal modo evidenti i segni di un clima culturale profondamente mutato.

L’inquietudine per il futuro

C’è inquietudine e insicurezza di fronte a un futuro che viene percepito come un ignoto minaccioso; ci troviamo – dice qualcuno – come nelle sabbie mobili. Alcuni fattori oggi in modo particolare acuiscono la sensazione di smarrimento e di disorientamento che afferra molti, lasciandoli in un isolamento individualistico e in una drammatica mancanza di senso.

Innanzitutto, la questione ecologica che segnala il raggiungimento della soglia di non-ritorno nel grado di inquinamento e di degrado ambientale della terra; sempre di più si percepisce che il pianeta ha raggiunto il limite oltre il quale entra in crisi la sua vivibilità per l’essere umano e per tutti gli esseri viventi. Non a caso l’enciclica di papa Francesco Laudato si’ incontra incondizionato apprezzamento e cordiale condivisione oltre ogni confine religioso e culturale, chiamando tutti alla propria responsabilità.

Poi la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, insieme agli sviluppi della robotica e dell’intelligenza artificiale, è destinata a modificare profondamente l’organizzazione del lavoro, come pure diversi altri aspetti della vita sociale.

Infine, l’evoluzione del mondo della comunicazione con i nuovi media, unita alle conquiste tecnologiche dell’informatica, apre scenari in cui la disinformazione sembra entrare come componente ineliminabile (si può vedere al riguardo il messaggio del papa per Giornata mondiale delle comunicazioni di quest’anno e l’impegno costante della COMECE).

Tutto questo rende prepotente il bisogno di riprendere il controllo del proprio destino, ma la difficoltà dell’impresa getta in una condizione psicologica e spirituale di sconforto che richiede adeguata elaborazione culturale e sociale. Anche questo aiuta a capire l’impulsività e la reversibilità di scelte collettive anche importanti, come mostra il caso della Brexit.

Identità e contraddizioni nell’Europa di oggi

La questione dell’identità si conferma come inaggirabile, seppure si presenti in forme diverse: per i popoli dell’Europa dell’Est a muovere contro è spesso la paura di perderla; nei popoli dell’Occidente a giocare è invece la preoccupazione di dover cambiare il proprio stile e tenore di vita, senza riuscire a vedere che spesso l’ospite più inquietante è proprio il non senso e la smemoratezza rispetto alla propria storia e alle proprie radici religiose e culturali; per le minoranze immigrate a incidere è la minaccia di vedere snaturata, se non cancellata, la propria identità e cultura di origine.

Questo grumo di paure ha bisogno di essere distintamente assunto e trattato con mirata attenzione e convergente disegno. È chiaro che, in questa direzione, politica e morale devono concorrere insieme verso un obiettivo comune, perché non si può continuare a pensare l’Europa in termini di rapporti commerciali e di transazioni finanziarie; non tutto può diventare transazione. Le stesse preoccupazioni per la disoccupazione hanno bisogno di ben altre risorse oltre quelle economiche, a cominciare dal senso di comunanza di destino e dalla solidarietà.

Papa Francesco lo ricordava nel suo discorso al convegno Re-thinking Europe il 28 ottobre 2017, quando ribadiva che bisogna guardare innanzitutto alle persone in quanto parte integrante costitutivamente in una comunità, condizione per fare dell’Unione europea un luogo di dialogo e una comunità inclusiva anche delle minoranze.

Allarma che si stia perdendo di vista che, anche solo sul piano economico, è insieme che si prospera e che il rispetto delle minoranze è una sorta di originario principio ispiratore. Esso si colloca nel quadro della visione democratica e dei diritti umani entro cui nasce l’Unione, e perciò nel quadro delle motivazioni che hanno ispirato i suoi fondatori. Ora, la pratica democratica e il rispetto dei diritti umani chiedono di essere applicati a tutti, sia agli elementi interni che a quelli esterni all’Unione, se si vuole essere coerenti con quanto asserito nelle dichiarazioni e nei programmi.

La disomogeneità nell’applicazione dei diritti si rivela una contraddizione che indebolisce dall’interno il senso proprio del valore stesso della democrazia e dei diritti umani, e insidia la maturità della coscienza europea e la certezza dei principi su cui si fonda la sua storia e la sua identità molto più delle presunte minacce esterne. Siamo ad un tornante in cui gli sfidati siamo noi stessi, e precisamente dall’interno; il fenomeno migratorio e la contingenza economica sono le cause scatenanti di una crisi che nasce dentro l’orizzonte culturale e spirituale europeo.

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C’è poi un problema, ricorrente soprattutto in contesto di polemica politica, di distanza tra istituzioni e popoli europei, ed è insistente la tentazione di scaricare le responsabilità gli uni sulle altre e viceversa. È evidente che c’è qualcosa che tocca ora le une ora gli altri, e tuttavia non è scaricandosi sistematicamente delle proprie responsabilità che si perviene ad uno sblocco della situazione per farla ripartire.

In questi mesi può essere perfino un inganno mirare soltanto a ridimensionare le rappresentanze populiste nel prossimo Parlamento europeo e pensare che vederle ristrette a una minoranza sia un obiettivo soddisfacente, poiché il problema vero sta nel bisogno di un nuovo slancio della politica che faccia sentire in modo condiviso che l’Europa può essere ancora un progetto comune.

Questo è il tempo in cui far emergere il meglio delle classi politiche nazionali e delle sue rappresentanze europee, fino a rinnovare le istituzioni dell’Unione ai vari livelli, così che diventino interpreti delle attese dei popoli e mostrino il loro avere a cuore, oltre un’astratta osservanza delle regole, i destini concreti di tutti, a cominciare dai territori più periferici e dalle fasce più deboli delle nazioni e dei popoli.

Un soggetto politico internazionale

Paradossalmente, il segno di questa capacità alta della politica dovrebbe mostrarsi in una visione e in una iniziativa di respiro internazionale, che proietti l’Unione nella sua qualità di soggetto che ha una parola da dire e la forza di intervenire efficacemente nei più diversi scenari mondiali, a cominciare da quelli più conflittuali e finire a quelli potenzialmente più promettenti per sviluppo umano e sociale, come i Paesi dell’Africa, dove, in realtà, la storia dei colonialismi nazionali sembra non solo spesso alimentare i conflitti sociali prima che militari, ma, quel che è peggio, remare contro le esigenze di un’autentica politica europea internazionale.

Senza essere ad essa funzionale, la gestione della questione migratoria potrebbe ricevere un nuovo orientamento anche da quella politica verso l’esterno, non senza però aver prima impostato una politica interna di gestione equa quanto alla distribuzione dei pesi e alle collaborazioni di tutte le nazioni, per far diventare la presenza dei migranti ciò che promette di essere, una risorsa e una ricchezza umana e culturale, oltre che economica. Deve crescere a questo scopo il senso di una responsabilità collettiva, nei singoli popoli e tra tutti i cittadini europei.

Il contributo delle religioni

Le religioni e le confessioni cristiane presenti in Europa rappresentano in tale direzione una risorsa unica nel suo genere per la convinzione e la concordia della sua condivisione del progetto europeo. Senza in nulla sminuire la missione propria di ciascuna e l’autonomia della loro distinta organizzazione e azione, nonché delle loro reciproche relazioni, esse di fatto costituiscono un fattore determinante di coesione sociale perché sono convinte della bontà e della necessità del progetto di una unione tra i popoli e le nazioni europei, a cominciare da quelli nel cui seno sono nate l’idea e le figure che hanno dato la prima origine a quella che all’inizio era denominata Comunità Economica Europea.

europa-religioniQui sta il primo decisivo contributo all’Unione, al quale seguono a ruota tutti gli altri impegni che ciascuna confessione e religione può mettere in campo. Rivendicare il ruolo pubblico della religione nello spazio europeo, nella salvaguardia del diritto fondamentale alla libertà religiosa, non può essere visto dunque come una minaccia ma piuttosto come la possibilità di consentire a un movimento di impegno religioso trasversale di cooperare ad un’Europa plurale e, insieme, più unita e concorde. Attraverso l’incontro e il confronto tra e dentro le religioni e confessioni, di fatto si apprende e si esercita quel dialogo tra popoli e istituzioni che è l’anima della politica e di una ritrovata e accresciuta unità europea.

Tutti si avverte il bisogno di unire le forze, non perché nei mondi religiosi le relazioni siano idilliache, ma perché essi possiedono risorse culturali e spirituali capaci di legare le persone e i gruppi sociali, oltre i calcoli e le convenienze, con la solidità che conseguono in maniera originale la fede e la profondità dell’adesione religiosa.

Un contributo decisivo può venire dalle comunità religiose nell’ambito nevralgico dell’educazione. Le comunità religiose di fatto si trovano a svolgere un compito educativo non soltanto su temi e in ambiti strettamente religiosi, ma, per la natura stessa della fede e dell’esperienza religiosa, esse tendono a plasmare tutta la persona umana, accompagnandola in maniera particolare nella fase iniziale, e come tale determinante, della sua formazione. Che questo venga compiuto in un orizzonte di incontro interreligioso ed ecumenico e in un contesto socio-politico consapevolmente assunto di crescente unificazione europea, non può che conseguire risultati promettenti nella diffusione di una coscienza di appartenenza inseparabilmente a una nazione e alla comunità tra i popoli d’Europa.

Conoscersi e conoscere

A questo ambito è connesso, più di quanto non sembri, l’approccio alla questione migratoria. Infatti, accanto alle numerose, e già in atto, iniziative di accoglienza, soprattutto in contesto ecumenico, il contributo delle religioni può essere di grande rilevanza nel processo di integrazione. Una delle esigenze di più grande urgenza e di maggiore impatto è trovare il giusto equilibrio tra rispetto delle identità culturali e religiose ed elaborazione delle relazioni e delle condizioni di convivenza. Conoscersi e conoscere l’altro (promuovendo l’istruzione religiosa e contrastando l’analfabetismo religioso) sono simultanei e formano la garanzia che, sul lungo periodo, si imparerà a convivere crescendo insieme.

Integrazione non è assimilazione, come sicurezza non è ghettizzazione. Pertanto, la grande questione in gioco è il modello di integrazione. Colui che non si conosce fa sempre paura, anche agli occhi di chi arriva da fuori, e non solo agli occhi di chi accoglie. Bisogna imparare a conoscere cultura e sensibilità religiosa di chi arriva da noi e cercare di far conoscere e capire il nostro mondo e il nostro stile di vita e di pensiero a chi arriva da fuori dei nostri Paesi e del nostro continente. Solo così si potrà imparare a vivere e a costruire insieme.

La presenza islamica pone questioni specifiche. Bisogna uscire dalla specularità e dagli automatismi dei sospetti e dei rifiuti reciproci, perché producono solo incomprensione e ostilità. Il rispetto delle ritualità proprie dell’islam, ad esempio, è condizione per prevenire un motivo ulteriore di incoraggiamento della radicalizzazione, che, certo, deve il suo costituirsi a fenomeni complessi interni ed esterni rispetto alle condizioni di vita occidentali, ma trova alimento in tutto ciò che si configura come indebita limitazione dell’esercizio della libertà di religione.

Per un verso, c’è bisogno di risvegliare quella maggioranza silenziosa europea che possiede la forza di respingere con fermezza ogni forma di estremismo; per altro verso, la questione identitaria degli islamici viene ad essere solo rafforzata dal sentimento di rifiuto respirato pregiudizialmente in tanti ambienti dei nostri Paesi, senza per questo nascondere che la paura dell’islam è spesso la paura di essere obbligati alla conversione. La via d’uscita sembra essere prospettata dall’istanza volta alla formazione di un islam europeo.

Modello di convivenza e impegno educativo

Su questa linea si potrà adeguatamente gestire il fenomeno della multiculturalità, individuando il giusto equilibrio tra gli estremi dell’assimilazione e di una tolleranza solo in apparenza diversa dall’indifferenza. E si potranno anche scontare le diversità contrastanti delle culture che vengono tra loro a contatto.

In un contesto di globalizzazione si trovano accostate culture che si sono sviluppate ciascuna con il proprio ritmo. In una società che invece cambia velocemente, e anzi in crescente accelerazione, la questione dell’identità si acuisce. La sensazione di pericolo di venire cancellati nella propria identità è forte. Per questo sono più che mai necessari l’istruzione, l’educazione, il dialogo, da coltivare nell’humus della storia e dei principi europei. Sono, queste, condizioni insuperabili per affrontare la complessità da cui siamo ormai inesorabilmente avvolti.

La scuola svolge, al riguardo, un compito insostituibile, proprio per il meticciato sociale germinale che riesce a creare e la naturalezza del processo di integrazione che è in grado di innescare.

L’impegno educativo deve condurre ad apprendere la ricchezza della diversità e il valore dell’unità delle differenze. Per far questo bisogna imparare e coltivare l’ascolto degli altri, aprirsi all’accoglienza reciproca per far crescere identità, allo stesso tempo, forti in sé stesse e aperte al mondo.

Importante, a tale scopo, la cooperazione ecumenica e interreligiosa, contro la tentazione della privatizzazione della religione e il rifiuto del dialogo. Nella conoscenza e nel dialogo gli uni con gli altri si affrontano e si risolvono questioni che, nell’ignoranza e nella distanza reciproche, diventano barriere insuperabili e conducono allo scontro.

Dal deficit al recupero della fiducia

Infine, va rilevato con preoccupazione un deficit di fiducia a tutti i livelli che si estende dall’ambito locale all’orizzonte europeo. C’è bisogno di fiducia per ripartire, una fiducia che è possibile ricostruire anche nei confronti nelle istituzioni a condizione della loro corrispondente trasparenza. Dobbiamo chiederci come creare le premesse per risvegliarla e farla crescere.

Non è fuori luogo tornare allo specifico delle religioni e delle confessioni, per le quali la dimensione della fiducia svolge un ruolo costitutivo nell’esperienza del rapporto con Dio, con gli altri, con la realtà. Questo, che è un desiderio e un auspicio, in realtà si trasforma prontamente in una responsabilità e in un impegno, che le religioni e le confessioni cristiane volentieri assumono guardando al futuro dell’Unione Europea.

Mons. Mariano Crociata è vescovo di Latina e rappresentante della Conferenza episcopale italiana presso la Commissione della conferenze episcopali dell’Unione Europea (COMECE).

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