Giovani egiziani, una generazione esigente

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Domenicano francese, studioso di grammatica araba, Jean Druel vive da vent’anni in Egitto e dal 2014 dirige l’Istituto Domenicano di Studi Orientali (IDEO) del Cairo. Abbiamo parlato con lui della collaborazione con al-Azhar, della religiosità dei giovani egiziani, delle tensioni tra il presidente al-Sisi e il Grande Imam al-Tayyeb e della dichiarazione di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana (il testo è stato raccolto da Chiara Pellegrino ed è apparso sul sito della Fondazione Oasis, che si ringrazia per il permesso di pubblicarlo anche su SettimanaNews).

L’Istituto domenicano degli Studi orientali del Cairo ha fatto dello studio dell’Islam la sua vocazione, per costruire un dialogo accademico e interreligioso. Da qualche anno l’Istituto ha iniziato una collaborazione con la moschea-università di al-Azhar. In che cosa consiste?

Al-Azhar è costituita da diversi enti: la Mashyakha (l’ufficio dello shaykh di al-Azhar), l’università (al-Jāmi‘a), le scuole primarie e secondarie (al-Ma‘āhid), la moschea (al-Jāmi‘) e diverse altre istituzioni. Noi abbiamo sempre avuto un’ottima collaborazione con la Mashyakha. A essere nuova è la collaborazione con l’università. Sono gli studenti francofoni che ci hanno sollecitati, in particolare per le scienze umane: sono interessati all’epistemologia, al metodo storico e letterario, alla traduttologia, all’analisi del testo e del discorso.

I loro professori non sono contrari, ma ci guardano da lontano. L’università dell’Azhar comprende 70 Facoltà, la metà delle quali sono Facoltà religiose. Tra le Facoltà laiche ci sono Medicina, Ingegneria, Economia, Lingua e Letteratura, ma non esiste una Facoltà di Filosofia. Al Cairo ci sono sei Facoltà teologiche e una ventina circa di Facoltà laiche, alcune femminili e altre maschili. Delle Facoltà di teologia soltanto una è femminile.

Giovani Egiziani

Sede dell’IDEO

Nel resto dell’Egitto è il contrario, ci sono soprattutto Facoltà teologiche e quasi nessuna Facoltà laica. I diplomati delle Facoltà di teologia possono presentarsi al concorso bandito annualmente dal governo per diventare imam. Il concorso è aperto a tutti, ma di fatto si candidano soprattutto gli azhariti. Nelle Facoltà religiose studiano molti stranieri, che una volta ottenuto il diploma ritornano nel loro Paese.

Noi lavoriamo con le sezioni francofone della Facoltà di Lingue e traduzione (maschile), della Facoltà di Scienze umane (femminile) e con un dipartimento d’insegnamento del francese agli studenti delle Facoltà di teologia.

Da due anni organizziamo seminari a cadenza mensile. L’anno scorso abbiamo ottenuto un finanziamento importante dall’Unione Europea (500.000 € su quattro anni) che ci consente di organizzare corsi di francese tenuti dall’Istituto francese ed esami per le certificazioni di livello (DELF), di offrire stage in Francia, di retribuire i professori europei che vengono a tenere seminari di metodologia, di coprire le spese di viaggio dei professori egiziani che partecipano a convegni all’estero.

Perché, secondo lei, c’è questa richiesta di scienze umane tra i giovani?

Questa domanda è emersa a seguito dell’ascesa dello Stato Islamico. Oggi le giovani generazioni iniziano a rendersi conto dei limiti di un Islam concepito in maniera puramente teorica, che si cerca di applicare senza tener conto dell’antropologia, della sociologia e della filosofia. Al Cairo si sentono spesso i giovani dire che se l’ISIS è l’Islam, non vogliono più essere musulmani.

Dicono anche di sentirsi obbligati a scegliere tra il jihadismo e l’ateismo. Per conservare la fede in questo contesto bisogna camminare su un crinale, ed è molto difficile farlo. Ci chiedono come noi, al convento, riusciamo a essere pienamente radicati nella nostra fede e pienamente moderni. Noi rispondiamo che dev’esserci un nesso tra la teologia puramente speculativa e la vita quotidiana.

Oggi le scienze umane contemporanee sono il grande punto critico nelle università. Si tratta di capire se è lecito o meno studiarle e applicarle alla religione. Molti dicono che l’Islam è un fenomeno puramente divino che non può essere analizzato attraverso le scienze umane contemporanee.

Alcuni estendono questo principio all’arabo in quanto lingua sacra in cui è stato rivelato il Corano. Non essendo una lingua come le altre, sarebbe inutile cercare di studiarlo con i normali strumenti linguistici. Ma le giovani generazioni non ci credono più, chiedono con forza di applicare la filosofia e la sociologia alla religione, mentre le vecchie generazioni che non conoscono queste scienze sono riluttanti.

Perché, secondo lei, l’Egitto ha perso il treno delle scienze umane?

Per ragioni principalmente linguistiche. In molte scuole, le scienze esatte sono insegnate in inglese e le materie letterarie in arabo. Dopo la maturità, gli allievi migliori si iscrivono a facoltà anglofone (medicina, ingegneria, farmacia…), i meno bravi accedono alle facoltà umanistiche (storia, filosofia, religione…).

Questa separazione produce una schizofrenia, senza contare che sono i meno talentuosi a ritrovarsi nelle scienze umane. La prima generazione che ha frequentato l’università, cioè la generazione di Taha Hussein (1889-1973), conosceva il francese e l’inglese, ma a partire dalla seconda generazione la situazione ha cominciato a deteriorarsi. Oggi nelle facoltà umanistiche delle università egiziane, né gli insegnanti né gli studenti hanno accesso alla ricerca internazionale in storia, filosofia, sociologia e psicologia.

Giovani egiziani

Devono accontentarsi di qualche traduzione. Nel mondo arabo ci sono alcune eccezioni: l’Iraq degli anni ‘60, la Siria prima della guerra, il Libano e il Maghreb dove le scienze umane sono state studiate a lungo in francese.

L’Egitto e l’Arabia Saudita invece hanno perso il treno delle scienze umane, lavorano solamente in arabo e, in parte per proteggere l’eredità islamica e in parte per incapacità, utilizzano solo i testi classici. Tutto il resto è sospetto, specialmente la filosofia. Gli studenti non sanno che cosa sia una critica oggettiva, perché per loro si tratta di un ossimoro: una critica è necessariamente soggettiva. È un’opinione, e all’università non si può fare dell’opinione, si fa soltanto della descrizione.

C’è quindi un grande problema a livello educativo nelle scienze umane, ma non nelle scienze esatte. Abbiamo ottimi medici, ingegneri, matematici, che però credono a cose deliranti a livello religioso. In Egitto domina la visione di un Islam puro e perfetto, totalmente divino, totalmente astratta da qualsiasi contesto storico e culturale, e che sarebbe sufficiente applicare così com’è per risolvere tutti i problemi umani.

È una visione della religione che apre la strada allo Stato Islamico e alla sua applicazione manu militari di quella che ritiene essere questa religione teorica. Tutti si comportano come se sapessero perfettamente qual è l’essenza dell’Islam. Questa visione astorica dell’Islam è delirante. Uccide – letteralmente – le persone.

Dall’ascesa dell’ISIS, in molti paesi musulmani si parla di rinnovamento dell’Islam. In Egitto al-Sisi ha chiesto più volte al Gran Imam dell’Azhar di riformare il discorso religioso…

Anche questo è delirante. Il discorso religioso in Egitto è ampiamente controllato dallo Stato attraverso il Ministero degli Affari religiosi e la sua rete di moschee, ed è avallato dai Servizi segreti e dalla sicurezza interna. Il discorso religioso non è affatto controllato dall’Azhar! Se al-Sisi vuole veramente cambiare il discorso religioso dovrebbe rivolgersi in primis al suo ministro degli Affari religiosi e ai suoi imam, che sono finanziati dallo Stato.

Giovani egiziani

Solo una minima parte del discorso religioso è prodotto dalla Mashyakha. Quanto all’università dell’Azhar e alla rete di scuole primarie e secondarie (dalla scuola materna alle superiori), insegnano un catechismo tradizionale molto convenzionale; non è da qui che proviene l’estremismo. Il problema è molto più profondo ed è legato a ciò che dicevo in precedenza, cioè il ruolo accordato alle scienze umane contemporanee rispetto alla religione.

È il Ministero degli Affari religiosi che produce il discorso religioso e lo diffonde attraverso i suoi imam, reclutati attraverso un concorso annuale, anche se nessuno conosce la percentuale di imam retribuiti dal ministero. I sermoni nelle moschee sono monitorati dai servizi segreti. Così come i programmi televisivi.

In Egitto ci sono tre tipi di moschee: quelle del ministero, dove predicano gli imam pagati dallo Stato, le moschee private (sufi, salafite, wahhabite…) finanziate da privati o associazioni, e la moschea di al-Azhar che dipende direttamente dallo shaykh di al-Azhar. Il ministero cerca di imporre il suo sermone anche nelle moschee private, ma senza successo.

Lo Stato è spesso impegnato in un braccio di ferro per assumere il controllo delle moschee private, in particolare quelle salafite. A volte trova un compromesso: i salafiti mantengono la gestione della moschea ma sono obbligati a ospitare il predicatore inviato dal ministero il venerdì. Ufficialmente la moschea di al-Azhar è indipendente, ma è ovviamente molto sorvegliata dai servizi segreti. I rapporti tra al-Sisi e lo shaykh di al-Azhar sono abbastanza tesi e il presidente prova regolarmente a mettere in difficoltà al-Tayyib.

Al-Sisi vorrebbe sostituirlo, ma per farlo dovrebbe cambiare la Costituzione, che attualmente garantisce un posto a vita allo shaykh di al-Azhar.

Al-Tayyib è in una posizione delicata. Si trova tra l’incudine e il martello: da un lato lo Stato gli mette pressione, dall’altro i Fratelli musulmani e i salafiti lo osservano. La principale critica che i Fratelli e i salafiti rivolgono ad al-Tayyib è di essere succube del governo.

Se al-Tayyib obbedisce alle ingiunzioni del presidente, non fa che dar loro ragione. Ma se non fa nulla, lascia affondare l’istituzione. Il risultato è l’immobilismo. Quanto ad al-Sisi, è un militare e non è abituato a scendere a compromessi.

Resta il fatto che è quasi impossibile riformare un’istituzione come al-Azhar (e persino darle un orientamento!) perché è troppo grande. Si dice che nelle scuole primarie e secondarie ci siano 2 milioni di studenti, nel 2016 gli studenti iscritti alle varie facoltà erano 331.000 di cui 17.000 stranieri.

Quale reazione ha suscitato in Egitto la dichiarazione firmata da Papa Francesco e dal Gran imam di al-Azhar ad Abu Dhabi?

Ahmad al-Tayyib ha chiesto a tutte le Facoltà dell’università di al-Azhar di leggerla durante le lezioni (tutte le Facoltà, incluse quelle laiche, organizzano corsi di religione).

Questa dichiarazione ha un valore simbolico importante. Il livello simbolico è molto utile per molte persone che forse non leggeranno il testo e che non sono molto religiose, ma che capiranno che cristiani e musulmani non sono nemici, e sono insieme di fronte al terrorismo, alla violenza e alla povertà: questo è il messaggio principale. La dichiarazione inoltre è importante perché è la prima volta che un dignitario musulmano e un dignitario cattolico redigono un testo insieme.

Al di là di questo valore simbolico, il rischio di questo genere di dichiarazioni è che si cancellino tutte le specificità del Cristianesimo e dell’Islam nel tentativo di trovare un denominatore comune.

L’umanità cristiana è il Corpo di Cristo, un insieme organico vivo in cui è presente Dio. L’umanità musulmana è la umma, la nazione dei credenti che devono darsi solidarietà e aiuto reciproco nel loro pellegrinaggio terreno verso il paradiso. Il documento però parla della fraternità umana. Noi non abbiamo aspettato fino al 2019 per sapere che siamo fratelli!

La Rivoluzione francese o la Dichiarazione universale dei diritti umani erano già andate ben oltre. Le due maggiori religioni del mondo non hanno niente di più interessante da dire?

Giovani egiziani

Personalmente, sono stato colpito dalla frase che dice che Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno. Alcuni credenti, in particolare i musulmani, pensano che gli esseri umani debbano difendere i diritti di Dio, garantire che i simboli religiosi non vengano derisi o che il Profeta non venga insultato.

Questo modo di pensare genera molta violenza. Noi cristiani sappiamo da 2000 anni che Dio non ha bisogno di essere difeso visto che il Padre ha lasciato che Suo Figlio morisse subendo l’umiliazione della croce. Cristo è dalla parte degli umiliati, non chiede di essere protetto. Il pensiero musulmano non è abituato a questo rovesciamento e molti musulmani pensano che sia loro dovere far rispettare sulla terra i diritti di Dio, proteggere i simboli, difendere l’Islam. La Dichiarazione comune afferma il contrario.

 Il Grande Imam di al-Azhar si è impegnato nel dialogo interreligioso e tenta da molto tempo, con più o meno successo, di farsi portavoce dell’Islam sunnita, per non dire il papa dell’Islam. I fedeli musulmani ovviamente oppongono resistenza a questa idea, soprattutto i sunniti. Nell’Islam, e in particolare in quello sunnita, la fonte dell’autorità risiede nella conoscenza dei testi, non in una posizione sociale, in un’ordinazione o in un’elezione.

I fedeli musulmani cercano innanzitutto dei sapienti, delle persone che conoscano a memoria i testi della tradizione e siano capaci di commentarli. Purtroppo oggi i sufi tradizionali e i liberali modernisti non conoscono bene i testi classici e in questo modo lasciano questo campo dell’autorità ai salafiti, facendoli diventare una sorta di guardiani dell’autorità.

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