Iraq: il dramma dei cristiani

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cristianesimo in IraqMentre l’Iraq sta per essere liberato dal cosiddetto “stato islamico” (Isis), per i cristiani niente sarà però più come prima. È questa la convinzione di Angela Gärtner, responsabile della Caritas internazionale tedesca, ed esperta della situazione dell’Iraq. Lo ha dichiarato in un’intervista dopo il suo recente viaggio nelle zone liberate, pubblicata il 1° giugno scorso su katholisch.de, che qui riprendiamo in forma leggermente ridotta.

– Signora Gärtner, soltanto un anno fa si temeva che la storia del cristianesimo in Iraq fosse giunta ormai alla fine. Ora che gli ex villaggi cristiani sono stati liberati e i cristiani tornano indietro, è cambiata la situazione?

Tra le famiglie cristiane, il desiderio di lasciare il paese è ancora molto grande. Temono di non avere più alcun futuro nella loro patria. Proprio ora, di fronte alla battaglia di Mosul, molta gente è fortemente preoccupata del futuro del paese. Sono tutti convinti che la liberazione di Mosul non significherà la fine del conflitto in Iraq. Anche dopo la cacciata dell’Isis. Il timore concreto è che le linee di demarcazione tra i diversi gruppi sociali diventino ancora maggiori. I cristiani perciò si domandano: dove sarà il nostro posto nella nostra terra?

– La ragione è perché dopo una guerra ci sono sempre anche dei vinti?

Anzitutto dopo questa guerra ci sarà un nuovo conflitto, e riguarderà le risorse e i territori. Prima c’era una mescolanza sociale, che negli anni scorsi è venuta meno. In futuro ci sarà una divisione geografica ancor più marcata tra i vari gruppi: sunniti, sciiti, kurdi e una quantità di minoranze a cui appartengono anche i cristiani e gli yazidi. Tutti devono cercare dove collocarsi. I cristiani non sanno più semplicemente dove potrà essere il loro posto. Per questo c’è il desiderio di emigrare. Personalmente non ho incontrato nessuna famiglia che non pensi di andarsene.

– Perché, ciononostante, i cristiani tornano nei loro villaggi liberati?

La piana di Ninive era la tradizionale regione dell’insediamento dei cristiani in Iraq. Prima che l’Isis la conquistasse, le gente poteva fare a tempo a fuggire in Kurdistan. Ora, da oltre due anni, vivono lì come profughi. La maggior parte di loro non parla il kurdo, ma solo l’arabo. Inoltre, il mercato di lavoro kurdo è completamente crollato. I cristiani si sono resi conto che, nel prossimo futuro, le condizioni di vita in questo luogo rimarranno molto difficili. Per questo il ritorno nei loro villaggi di origine rimane una possibile alternativa. D’altronde, per la maggior parte di essi anche un espatrio a breve termine è impossibile per ragioni finanziarie.

Cristianesimo in Iraq

– Cosa attende i cristiani nella loro vecchia patria?

I villaggi cristiani sono in gran parte liberati anche dalle mine e da altri tranelli. Ma restano alcuni grossi problemi. Da una parte, ci sono delle enormi distruzioni che rendono impossibile un ritorno. Dall’altra, le competenze territoriali spesso non sono ancora chiare. Molte regioni che prima erano soggette al governo centrale, sono state ora occupate dai peshmerga. Non è ancora chiaro dove passeranno le linee di demarcazione tra i kurdi e il governo. Il Kurdistan cerca attualmente di raggiungere un’autonomia ancora maggiore. Si pone quindi l’interrogativo su chi investirà nelle infrastrutture come la fornitura dell’acqua e dell’energia elettrica o nelle scuole. E chi garantirà la sicurezza. Attualmente sono i peshmerga a controllare i villaggi. Come sarà in futuro? Finché ciò non sarà chiaro, sono molto pochi coloro che sono disposti a tornare.

– Ciò significa che i cristiani, là dove attualmente stazionano, hanno una scuola e i genitori un lavoro?

È una domanda piuttosto rosea. Il Kurdistan in effetti si è dato molto da fare; oltre un milione di sfollati sono stati accolti nella regione ai loro confini. Ma in Kurdistan ci sono poche scuole dove si parla l’arabo. Perciò sono stati istituiti dei turni parziali, con lezioni in arabo il pomeriggio. Inoltre, ci sono poche scuole di soli sfollati, e la loro qualità è ritenuta critica.

Inoltre, è molto difficile che tutti i bambini vengano a scuola. E, nel settore del mercato del lavoro, la situazione è molto simile. Gli sfollati possono essere assunti al massimo come lavoratori a giornata.

– Il Kurdistan costituisce un partner importante nella lotta contro l’Isis e nella ricostruzione?

In senso globale non lo si può dire. Per stare ai fatti: la piana di Ninive era soggetta al governo centrale di Bagdad e ora è stata conquistata dai peshmerga. Da ambo le parti è in atto un lungo e difficile processo circa l’unificazione, ossia su chi avrà il controllo e su quale regione. Ci sono di mezzo anche importanti risorse, soprattutto il petrolio.

– In che cosa consiste il compito della Caritas sul luogo?

Il nostro lavoro consiste nel sostenere le persone nella loro attuale situazione. Noi aiutiamo gli sfollati in Kurdistan, per esempio, con denaro in contanti. Le nostre analisi ci mostrano che, con il denaro, si può rispondere a tre importanti bisogni. Un primo importante ambito è quello dell’approvvigionamento delle medicine. In secondo luogo, la gente riceve anche provviste alimentari da parte dello stato e delle Nazioni Unite, ma è una cosa molto irregolare. Perciò, con il denaro, possono acquistare loro stessi delle provviste. In terzo luogo, il denaro aiuta anche a pagare gli affitti che sono schizzati alle stelle.

Inoltre, noi offriamo anche aiuti di carattere psicosociale. Si tratta di interventi su ciò che hanno vissuto, sulla fuga. Vogliamo anche indicare ai cristiani delle prospettive per quanto riguarda il futuro in Iraq. Per una buona convivenza tra i diversi gruppi ci vuole una fiducia reciproca nella società, e noi cerchiamo di rafforzarla.

«La gente – ha concluso la Gärtner – è molto frustrata. Alcuni hanno già dovuto più volte fuggire: vengono, per esempio, da Bagdad, sono fuggiti nella piana di Ninive, e da qui, dopo due anni, sono diventati profughi in Kurdistan. E la prognosi per il futuro è tutt’altro che buona. Spesso i cristiani dicono: «io posso anche sopportare tutto questo, ma quale prospettiva hanno i miei figli?». È comprensibile perciò che ci sia il desiderio di andare in un altro paese». Ma la preoccupazione di dover lasciare il proprio ambiente culturale e di andare in un paese in cui si parla una lingua del tutto diversa, il fatto che le possibilità di essere presto e adeguatamente inseriti nel mondo del lavoro siano scarse, preoccupa molto la gente.

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