Quel Gesù segreto tra campanile e minareto

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Nell’atmosfera ancora mite del piccolo villaggio palestinese dove abito, le voci delle liturgie pasquali cristiane si intrecciano con quelle islamiche del mese di Ramadan. Ai rintocchi mesti delle campane, colonna sonora della passione di Gesù, fanno eco i richiami alla preghiera dagli altoparlanti della moschea costruita in fondo al wadi.

Com’è noto, Gesù unisce e divide. L’islam lo onora come profeta, ma nega recisamente la sua natura divina. Basandosi su Cor 4,15 i sapienti musulmani sostengono anche che non sia davvero morto in croce. Per i cristiani, al contrario, divinità di Gesù e morte per la salvezza del mondo sono punti cardinali della retta fede.

Chi poi osserva il dibattito da fuori, con laica curiosità, ha ovviamente il diritto di suggerire che entrambe le posizioni non sono altro che umane elucubrazioni, parto di teste alla ricerca di senso.

Gesù

Personalmente, continuo a essere affascinato dalla presentazione cristiana di Gesù: l’idea di un Dio che trasmigra da altezze sublimi per farsi solidale con i perdenti, cattivi inclusi, e risalire insieme a loro. Allo stesso tempo ritrovo, nelle fonti islamiche, tracce di un ponte segreto tra le due sponde.

Nella lettera che Hasan al-Basri (m. 728) indirizza a ʿUmar b. ʿAbd al-ʿAziz, il califfo di Damasco passato alla storia come modello di pietà (oltre che come primo autore di una sistematica politica di discriminazione contro i cristiani), il sapiente irakeno presenta Gesù come ideale di santità, facendolo parlare in prima persona: «Mio cibo è la fame, mio segno distintivo il timore, mia veste la lana, mia cavalcatura i miei piedi, la luna mia lampada di notte, il sole mia stufa per l’inverno, mia frutta e mie spezie ciò che la terra fa germogliare per le bestie selvatiche e per gli armenti; passo la notte senza possedere nulla ma nessuno è più ricco di me».

Non è possibile trovare questa citazione nei vangeli canonici, ma il contesto è chiaro: si tratta di una rielaborazione del Discorso della Montagna (beati i poveri, beati i miti, beati quelli che piangono…) il testo che avrebbe folgorato anche un Gandhi.

La citazione diventa però esplicita nel Libro dell’ascesi (Kitab al-zuhd) di ʿAbdallah Ibn al-Mubarak (m. 797), mercante persiano dai vasti interessi letterari: «Quando uno di voi digiuna, si unga testa e barba e deterga le labbra, affinché la gente non veda che sta digiunando. E se dà con la destra, ciò rimanga nascosto alla sinistra. E quando prega, faccia scorrere la cortina della propria porta, poiché davvero Dio eccelso distribuisce la buona reputazione come fa con il nutrimento». Va notato che le parole di Gesù giungono all’autore dell’opera attraverso una catena di nomi arabi, senza un riferimento esplicito al Vangelo (Mt 6).

Che cosa significa tutto ciò? In un momento in cui l’islam assisteva a una prodigiosa espansione territoriale, a una raccolta di ricchezze materiali che avevano fatto di Damasco e poi di Bagdad capitali da mille e una notte, con tutti i risvolti immaginabili di opulenza, sopruso, corruzione, sfruttamento della religione a fini mondani, così com’era stato nelle capitali dell’impero cristiano, la figura di Gesù «mite e umile di cuore» fu assunta dai pii dell’islam come modello di pietà e incoraggiamento a resistere alle seduzioni del secolo.

Se in Muhammad i musulmani riconoscono il “sigillo della profezia”, Gesù viene additato come “sigillo della santità”. Nel Libro dell’ascesi di Ibn Hanbal si riporta l’affermazione di ῾Abd Allāh b. ῾Umar (m. 693), una delle personalità più eminenti dell’islam delle origini: «La cosa più amata da Dio sono gli stranieri». Gli chiesero: «Chi sono gli stranieri?». Rispose: «Coloro che con la loro fede fuggono dal mondo si riuniranno presso Gesù nel giorno della risurrezione».


I testi citati vengono da La ricerca del Dio interiore (Paoline 2008) e Detti islamici di Gesù (Mondadori 2009) da me curati (il secondo con Sabino Chialà).

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Un commento

  1. Sandra 29 aprile 2022

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