Tonelli: “Su religioni e violenza mai risposte nette”

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«Chiediamo al Signore che converta i cuori dei terroristi e liberi il mondo dall’odio e dalla follia omicida che abusa del nome di Dio per disseminare morte»: le parole di papa Francesco all’Angelus della Festa di Ognissanti separano nettamente la follia omicida degli autori degli attentati dalle fedi professate. Eppure, se ascoltiamo i discorsi delle persone, alla notizia delle ultime stragi – New York soprattutto, perché quelle di Somalia e Afghanistan per Bergoglio sono «passate quasi inosservate» –, il binomio religioni e violenza è ancora una volta il più gettonato, in particolare nei confronti dell’islam.

follia omicida che abusa del nome di Dio

E il rapporto tra religioni e violenza rappresenta un tema sul quale lavorano da tempo i ricercatori della Fondazione Bruno Kessler di Trento: dal settembre 2013 il Centro per le Scienze Religiose ha avviato infatti una serie di workshop interdisciplinari, seminari e pubblicazioni sul ruolo delle religioni tra violenza e pace. Coordinatrice è Debora Tonelli, teologa laica e coniugata di origine romana – PhD in filosofia politica e in teologia –, ricercatrice presso il Centro per le Scienze Religiose (ISR) di FBK e docente invitata presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e la Gregoriana (nell’anno accademico 2013/14 un corso su “Pace e guerra nella tradizione biblica” che contribuì alla stesura del volume su Immagini di violenza divina nell’AT, EDB 2014).

È solo dell’ottobre scorso l’ultimo evento: un convegno internazionale di alto livello con una cinquantina di partecipanti dal titolo “Exiting Violence: the role of religion. From texts to theories”, organizzato da FBK-ISR in collaborazione con Resert Dialogue e il Berkeley Center for Religion, Peace and World Affairs, con studiosi provenienti da università europee e statunitensi come André Wénin di Louvain, Donatella Dolcini della Statale di Milano, Ian Reader di Manchester, Manlio Graziano della Sorbonne, Jude Lal Fernando del Trinity College, Irene Jillson, Gerard Mannion e Vincent Sekhar della Georgetown, Fred Dallmayr della Notre Dame. A Debora Tonelli abbiamo sottoposto alcune domande.

Nei testi sacri la complessità dell’umano

– I leader delle religioni parlano di pace, nell’opinione pubblica, complice anche un’ampia strumentalizzazione politica, si fa strada l’idea che il terrorismo di oggi sia da ascrivere ad una religione ben precisa, altri tornano col pensiero alle crociate: cosa può dirci in merito alle ricerche sul rapporto religioni e violenza?

Mi sono occupata del tema a partire dalla tesi di dottorato sulla violenza divina nell’Antico Testamento e poi ho continuato a studiare in ambito multidisciplinare facendo tesoro della mia formazione precedente in ambito filosofico-politico. Dal 2013 la ricerca fa parte dei progetti FBK-ISR e il Convegno di ottobre ne costituisce un’ulteriore tappa, importante.

Dal punto di vista metodologico mi preme sottolineare che occorre rinunciare alla pretesa di avere risposte nette: non si può dire le religioni sono per la pace o le religioni sono per la violenza, ma – come noi abbiamo cercato di fare anche nell’ultimo evento –, bisogna cercare di andare più a fondo nell’ermeneutica dei testi sacri. Intendo dire che i testi sacri mettono in scena l’essenza dell’essere umano in sé, nella complessità dell’esistenza. Non si può dire che siano testi che delineano una morale quanto piuttosto mettono in scena delle testimonianze della presenza di Dio nella vita dell’uomo. Nei testi troviamo cioè esperienze di vario genere legate piuttosto al contesto storico, culturale, mitico dell’epoca, e quindi diventa molto difficile ritradurre in maniera letterale quella esperienza nel nostro contesto di oggi.

Gli autori sacri non hanno paura a mettere in luce la violenza e la malvagità del cuore umano, i sentimenti di vendetta e quant’altro: tutte cose che oggi, dal punto di vista morale, noi consideriamo deplorevoli. Al contrario, mettono in scena l’essere umano così com’è e, in qualche modo, noi possiamo dire che le religioni danno espressione all’ambiguità e alla complessità dell’esperienza umana nel suo lato migliore, ma anche nel suo lato oscuro.

Il concetto di violenza si modifica lungo i secoli

C’è poi un altro aspetto da considerare e riguarda il concetto stesso di violenza: un interessante studio di Steven Pinker dimostra che anche questo termine non è così oggettivo. Come non possiamo proporre un’interpretazione letterale dei testi sacri, e non possiamo ridurre il testo sacro ad un versetto (“qui è scritto così e quindi …”), allo stesso modo, per il concetto di violenza non possiamo avere un’interpretazione oggettiva. Perché, come dimostra Pinker – e anche Collins –, il termine violenza ha cambiato connotati nel corso dei secoli e quindi tante esperienze che noi oggi consideriamo lesive per la dignità umana, un tempo non erano considerate di tale gravità. E poi tutto dipende molto anche dalla cornice contestuale: per fare un esempio, una violenza di tipo rituale è molto diversa da un omicidio compiuto per pura follia.

– Viene in mente lo sconcerto dei più giovani quando a scuola studiano il Codice Vanghiano e scoprono che un Vescovo come Federico Vanga (dimenticando anche Principe medievale!) decreta il taglio della mano in caso di furto in miniera …

Certo, perché non si pensa che siamo nella Trento del XIII secolo! Cambia inevitabilmente la scala di valori: l’errore che non dobbiamo mai compiere è quello di guardare a questi testi retrospettivamente. I testi sacri non sono mai il punto di partenza reale, sono sempre il punto di arrivo, una tappa significativa di un’esperienza religiosa molto più ampia, complessa e secolare che, ad un certo punto, trova una sua collocazione scritta. È chiaro che, da quel momento in poi, cambia di segno perché la sua fruizione cambia, perché la storia umana si evolve. Non dobbiamo, quindi, commettere l’errore di giudicare il passato con gli occhi del presente. Allora si utilizzavano altri criteri, altre prospettive, un altro linguaggio.

Nei testi sacri non troviamo mai una trattazione di tipo saggistico su cosa sia la religione e cosa sia la violenza. E così pure per cosa è il bene e cosa è il male. Troviamo solo la messa in scena delle esperienze di tutto questo senza la necessità di dare a queste esperienze una linearità, una uniformità razionale che a noi, figli dell’Illuminismo, piacerebbe trovare.

Non confondere un’azione politica con la religione

– Sgombrato il campo dalle forti strumentalizzazioni politiche, sarebbe questo allora l’atteggiamento giusto di fronte agli episodi di terrorismo attuale?

Sì, anche se, da un certo punto di vista, oggi è tutto molto più semplice e, al contempo, tanto più complesso. Perché il problema non è mai la religione in sé, qualunque cosa si intenda con questa parola: noi vediamo questi terroristi combattere per una dottrina? Per pratiche religiose che loro ritengono superiori ad altre? Li vediamo combattere in nome di un’esperienza di fede intima diversa e ritenuta migliore rispetto ad altre? No, troviamo piuttosto l’idea di un’espansione dell’islam o, meglio, della ricostruzione del Califfato che raccoglie in sé, e strumentalizza, i desideri e i punti di vista di alcune persone.

Che poi tutto questo venga posto sotto il cappello di una religione, appare effettivamente come una strumentalizzazione della religione stessa. Un’operazione possibile? Certo, proprio perché ogni religione comprende anche il lato oscuro dell’essere umano.

Ecco perché, anche nell’ultimo Convegno, abbiamo deciso di partire dai testi: un’interpretazione letterale è sempre riduttiva proprio perché essi hanno dato vita nei secoli in ambito storico, giuridico, politico a interpretazioni molto diverse rispetto a quanto permetterebbe la lettera del testo stesso. E di questo non si può non tenerne conto.

C’è un bellissimo libro di André Wénin – anche lui relatore a Trento, Dalla violenza alla speranza, Qiqajon 2005 – che parla della violenza divina: i testi non ci mettono mai davanti ad una sola faccia di Dio, ma a diverse facce anche contraddittorie. Perché il loro scopo non è dire «Dio è così», ma è il mettere in scena le infinite forme della presenza di Dio nell’esperienza umana. Dio non è solo giudice, Dio non è solo padre, ma entrambi.

– Quindi il “Non si uccide in nome di Dio” (cf. papa Francesco: «Utilizzare il nome di Dio per giustificare la strada della violenza e dell’odio è una bestemmia», 15/11/2015), vale per tutte le religioni?

Assolutamente, e per “tutte” le religioni. Non c’è nessun Dio che abbia bisogno che l’uomo uccida in suo nome e c’è da chiedersi con quale autorità ci si attribuisca la legittimità di compiere atti in nome di Dio. Soprattutto se compiuti per esigenze non di spiritualità o di fede, bensì per esigenze molto più concrete, vuoi di tipo economico, politico, espansionistico e così via. Si tratta di una visione molto riduttiva, ma che, proprio per la sua estrema sintesi, indubbiamente mostra tutto il suo appeal.

Istintivamente, io tendo ad essere molto diffidente di fronte ad una pretesa spirituale che intenda fornire risposte definite: la vera esperienza di Dio sta nella capacità di porsi delle domande, prima di tutto nei confronti di se stesso e poi anche di apertura verso gli altri. Quelle sono le domande della fede, e una religione che fornisce solo risposte non è un’apertura a Dio, quanto piuttosto una religione che ti ingabbia in una stanza buia e non ti permette di vedere al di là.

Fondamentale l’azione educativa

– Come ricercatrice, che percezione ha sull’acquisizione di un concetto come questo a livello della nostra società attuale?

Il discorso è vario e complesso, ma è importante avere la consapevolezza che certi risultati non sono mai acquisiti una volta per tutte. Le generazioni umane si avvicendano su questa terra e quindi è solo l’elemento educativo che può essere in grado di mantenere la conquista di certi valori, di certi criteri, di un certo modo di comprendere gli eventi. Siamo tutti esposti al dubbio, ma anche al dovere di riconfermare in ogni momento i nostri valori, al dovere di andare ogni giorno alla ricerca di nuovi argomenti per confermare i valori in cui si crede.

– Il contesto attuale non è facile, ma cosa si potrebbe fare concretamente? Quale proposta educativa per le giovani generazioni, quale atteggiamento mentale far crescere in un’Europa dove i populismi sembrano spazzar via decenni di convivenza pacifica tra le religioni?

Secondo me, occorrerebbe rinunciare a quella parte di eredità dell’Illuminismo che ha gettato il bambino con l’acqua sporca: si è messa da parte la religione come superstizione, ma si è messo da parte anche quanto di più profondo la religione esprime dell’uomo. Prima o poi, nella vita tutti facciamo i conti con la scelta di credere o meno in qualcosa o in qualcuno: si tratta di un’esperienza del tutto umana. L’errore che ci trasciniamo da questa eredità è proprio quello di spodestare la religione dallo spazio pubblico. E in realtà, all’opposto, la religione torna invece continuamente all’interno di questo spazio, con la sua eredità secolare, con i suoi valori, con tutto il suo lascito culturale.

La soluzione sta senza dubbio nell’esperienza educativa. Pensiamo alle giovani generazioni: se, un tempo, l’ora di religione a scuola si configurava un po’ come una sorta di catechismo, oggi l’IRC dovrebbe essere parte della cultura dell’uomo e la conoscenza dei testi sacri, non solo cristiani, ma anche quelli di altre religioni, dovrebbe essere un modo per far fruire le tradizioni, per conoscerci, per avvicinarci e, soprattutto, per farci capire che non ci si può mai accontentare di risposte semplici: violente o pacifiche. Non è questa la religione. La scelta rimane sempre ben ancorata nelle mani dell’uomo.

Ogni esperienza di religione o di religiosità, ogni “vocazione”, intesa come scelta di vita (non solo consacrata), come modo in cui possiamo “dar voce” alla nostra fede nel quotidiano non è solo una domanda di Dio all’uomo, che possiamo anche non ascoltare, ma sarà sempre lo stile della “nostra” risposta, la “nostra” religiosità. Non possiamo mai dire “è Dio che me lo chiede”: questa è una deresponsabilizzazione della nostra coscienza, un abuso del nome di Dio.

Occorre far comprendere ai giovani – ma non solo a loro – che le religioni sono innanzitutto un’esperienza culturale, oltre che spirituale: per chi intende abbracciarne una o l’altra questa resta una scelta determinata da tanti fattori, ma che fanno parte dell’esperienza umana e del contesto in cui uno si trova a vivere. Perché, anche quando non si parla di religione, la religione è lì presente con i suoi valori.

Indispensabile una sinergia tra cultura e mass-media

– Su questa linea, quale azione da parte degli operatori della cultura o della comunicazione (all’ultimo Convegno erano presenti anche sociologi e politologi), potrebbe rivelarsi, secondo lei, efficace per sfatare questo binomio perverso che associa la religione islamica alla violenza?

Alcuni relatori hanno riflettuto su come queste esperienze religiose possano in qualche modo accogliere le sfide del presente in una sorta di proiezione al futuro, neanche troppo lontano peraltro. Lo studio ermeneutico intende fornire strumenti per capire la complessità dei testi cui i fondamentalisti di “ogni” religione fanno riferimento. Ma occorre anche confrontarsi con la teologia “contestuale” e su questo tema a Trento ci ha fornito una riflessione padre Sekhar che opera in India. Si tratta di una teologia che opera dopo la missiologia classica la quale, in qualche modo, aveva finito per incoraggiare le diverse forme del colonialismo europeo, mentre oggi, anche dal punto di vista dottrinale, si privilegia una teologia che venga anche dal basso, che tenga conto anche delle culture esistenti là dove il cristianesimo viene poi messo alla prova.

– Come dire che, a più di 50 anni dal decreto del Concilio “Ad gentes” (7 dicembre 1965) ci siamo finalmente arrivati?

Meglio tardi che mai! È chiaro che si tratta di una sfida coraggiosa: non si tratta più di offrire un modello, un travaso di saperi, peggio di dogmi, quanto piuttosto di ricostruire questo “credo” insieme. In realtà, ciò comporta un mettere in discussione anche qualcosa di noi stessi e lo vediamo, per fare un esempio, in Africa dove banalmente non si ha a disposizione il pane azzimo per produrre un’ostia eucaristica. Chiedono di potersi comunicare con un altro cibo. Ecco che siamo messi in discussione: quanto il segno è essenziale per realizzare una certa esperienza? Quanto invece, se si permettesse di modificarla nelle diverse situazioni, non consentirebbe meglio di globalizzare l’esperienza stessa? Bisogna andare alla ricerca del criterio che non consumi, non svilisca quell’esperienza originaria. È un lavoro faticoso certo, ma è sempre nel dialogo che si cresce. Non si cresce se si va sempre d’accordo, ma ben di più se si affrontano degli ostacoli e si trova insieme una soluzione.

– Quindi, nel contesto attuale entrare in dialogo potrebbe significare anche lavorare insieme, o almeno in parallelo, con tutte le altre agenzie che contribuiscono a creare l’opinione pubblica?

È assolutamente necessario, in quanto le chiavi di lettura offerte dai mass-media si rivelano spesso, purtroppo, estremamente riduttive. Questo è indubbiamente frutto della rapidità con la quale oggi si è costretti a fornire dati e notizie. Quello che deve fare la cultura è fornire metodi, proporre criteri e domande: perché non è la quantità di dati a dare l’informazione, è la qualità di una prospettiva, di una domanda che ci permette di andare al cuore dei problemi e queste domande spesso non sono proprio facili da trovare.

Ma non si tratta di parole al vento: riflettere significa permettere la costruzione di un immaginario sociale da cui partire poi per un lavoro insieme di alfabetizzazione. Di cui oggi ne abbiamo tutti bisogno.

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Un commento

  1. giacomo 30 marzo 2018

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