Sarah, Müller e la caricatura dell’antimodernismo

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Con una considerevole sintonia, quasi all’unisono, in contesti diversi e in forme differenziate, il prefetto della Congregazione del culto, card. Sarah, e l’ex-prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, card. Müller, si sono espressi con inusitata durezza contro forme della prassi e della dottrina ecclesiale, che trovano la loro radice nel Concilio Vaticano II e attuazione nel magistero di papa Francesco. Potremmo dire che forse mai, come in queste dichiarazioni obiettivamente “sopra le righe”, è emersa nei due cardinali la aperta ostilità verso la Chiesa e verso i pastori che si lasciano guidare dal testo e dallo spirito del Concilio Vaticano II. Esaminiamo brevemente le affermazioni dei due cardinali.

Comunione in bocca/in ginocchio e cambio di paradigma nella dottrina

L’intervento del card. Sarah ha la forma di una Prefazione, che egli ha scritto ad un libro dedicato all’esame della storia della “comunione sulla mano” (cf. VaticanInsider). In quel contesto, egli si lascia andare a giudizi del tutto unilaterali e privi di equilibrio sulla tradizione della “Handkommunion”, arrivando addirittura a configurare un “attacco diabolico” in questo sviluppo recente – che riprende prassi antiche e del tutto assodate – ma che ai suoi occhi appare semplicemente come “negazione della sacralità” del sacramento e “attentato al suo contenuto”. Le profanazioni del s.s. sacramento, che per Sarah si identificano anche nella “intercomunione” e nelle forme di un ripensamento della dottrina eucaristica, appaiono al cardinale riducibili, incredibilmente, ad un effetto della riforma liturgica. Solo una ripresa della prassi di “comunione in ginocchio e sulla lingua” sarebbe il baluardo contro queste diverse forme di profanazione. In sostanza, la riforma della riforma farebbe da scudo alla autentica santità cattolica.

Il card. Müller, invece, in un testo scritto per First Things e intitolato Sviluppo o corruzione, propone un’interpretazione del magistero attuale sulla base di una rilettura delle opere di Newman, con cui ritiene di dover liquidare ogni discorso sul “cambio di paradigma” nella dottrina cristiana come una forma di “corruzione” della tradizione, come una caduta modernistica da cui guardarsi e da censurare. E l’esempio che propone è, ovviamente, Amoris lætitia, che a suo avviso potrebbe essere letta correttamente soltanto mantenendo una assoluta continuità con i documenti che la precedono.

In entrambi i testi, con tutta la loro differenza, appare con chiarezza il tentativo di “ridurre a modernismo” ogni differenziazione rispetto alla prospettiva ottocentesca di comprensione della eucaristia, del magistero e del matrimonio. Vorrei svolgere qualche considerazione intorno a queste posizioni.

La “scomunica” di ogni differenza, eucaristica o dottrinale

Mi colpisce molto la radicalità della negazione dell’altro che traspare da questi testi. Da un lato per Sarah ogni prassi di comunione diversa da quella “in ginocchio e sulla lingua” rischia di essere liquidata come “attacco diabolico” alla tradizione sacrosanta. Ma come può, il prefetto della Congregazione del culto, dimenticare totalmente che quella forma – così come egli la descrive e la illustra nei pastorelli di Fatima, in Giovanni Paolo II e in Madre Teresa di Calcutta – è una legittima interpretazione ottocentesca e novecentesca del “comunicarsi”, che il Movimento liturgico aveva riconosciuto, già cento anni fa, come limitata e da integrare? Tutta la riscoperta del “rito di comunione”, come luogo specifico di relazione con la manducazione del sacramento, ha messo in moto quel ripensamento che oggi, sia pure con una certa comprensibile esitazione, permette alle comunità cristiane – prima che ai singoli battezzati – di riconoscersi in quello che fanno. Andare processionalmente (non in ginocchio) verso l’altare per ricevere (sulla mano) la particola (prodotta nella “fractio panis”), per diventare ciò che si riceve (corpo di Cristo ecclesiale dal corpo di Cristo sacramentale): di tutto questo non vi è alcuna traccia nelle parole del card. Sarah. Così come tanto diversa appare la sua lettura dalla più ampia comprensione che J. Ratzinger/Benedetto XVI ha proposto della medesima questione: non solo mai mettendo in opposizione mano e bocca, piedi e ginocchia, ma riconoscendo anche che il meglio della teologia liturgica è venuto da un cambiamento del concetto di “forma”. Qui egli ha sottolineato, in un certo modo, un “cambiamento di paradigma” nella comprensione della “forma eucaristica” che ha profondamente sollecitato la Chiesa lungo tutto il XX secolo. Forse una lettura completa dei testi di J. Ratzinger/Benedetto XVI gioverebbe a tutti.

Questo permette di  rileggere anche le parole del card. Müller come una sorta di “cedimento” alla tentazione di “ridurre a modernismo” tutto ciò che non è mera ripetizione del già affermato e stabilito. È assai curioso che le citazioni che Müller allega al suo testo siano tutte preconciliari, mentre dal Concilio Vaticano II si lascia suggerire non il centro, ma solo affermazioni marginali. In particolare non vi è alcuna considerazione della “indole pastorale”, che è il profilo più alto del Vaticano II, e dal quale, fin dal discorso inaugurale di Giovanni XXIII, deriva la necessaria e benedetta distinzione tra due livelli della tradizione che non si possono confondere: “altra infatti è la sostanza della antica dottrina del depositum fidei, altra la formulazione del suo rivestimento”.

Questa principio cardine ci permette di leggere il Concilio Vaticano II come “cambio di paradigma”, ossia come principio di “traduzione della tradizione”, in vista di una fedeltà più autentica e più radicale. Il fatto poi che tutto questo sia utilizzato da Müller soltanto per difendere una lettura “vuota” di AL identifica bene il cuore della questione. In realtà nel suo testo non si difende una dottrina o una disciplina classica, ma un assetto del rapporto tra Chiesa e mondo. Resta in primo piano la nostalgia di una Chiesa come “societas perfecta” e la pretesa di identificare il Vangelo con la normativa di una società chiusa: una teologia d’autorità, priva di ogni rapporto con la libertà in senso moderno. In realtà, in AL, il ripensamento della nozione di matrimonio, di adulterio, di coscienza, di storia e di famiglia non è un “cedimento al mondo moderno”, ma un modo di comprendere meglio il Vangelo.

La critica a Francesco e la critica al Concilio Vaticano II

In realtà, come appare chiaramente soprattutto dal testo di Müller, vi è, in questa critica così radicale degli sviluppi magisteriali recenti – in materia liturgica e matrimoniale – una esplicita critica a Francesco e al suo magistero. Non è sorprendente che le “fonti” di cui si alimentano i due cardinali siano tutte preconciliari: da un lato i pastorelli del 1916, dall’altro i documenti antimodernistici di Pio X. Si discutono questioni attuali con strumenti vecchi e inadeguati. Francesco, invece, ha preso sul serio il Concilio Vaticano II e lo attua con fedeltà e coerenza. È come se questi cardinali dessero voce a quella parte di Chiesa che si era illusa di poter “addomesticare” il Vaticano II. Di poterne spegnere la profezia, di poterne aggirare le riforme, di poterne svuotare il dettato. Francesco risulta scandaloso perché fedele. Il “cambiamento di paradigma” non è il suo, ma quello conciliare. Che egli ha imparato bene, se, nell’identificare il profilo del “teologo” ha parlato di tre virtù necessarie: inquietudine, incompletezza, immaginazione.

D’altra parte, proprio su questo piano, ad entrambi i cardinali mi sentirei di consigliare una rilettura storica delle questioni che sollevano. Le pratiche di comunione eucaristica, lungo la storia, sono state assai diversificate e, soprattutto, hanno conosciuto “crisi” molto più gravi di quelle per cui oggi ci stracciamo le vesti. Quanto ai “diversi paradigmi”, chi potrebbe negare che la teologia del matrimonio – ma non solo essa –  abbia ricevuto diverse soluzioni secondo paradigmi differenziati? Il primato della tradizione giudaica e poi canonico romana, l’impatto con il mondo barbarico, la speculazione scolastica nel medioevo, la svolta istituzionale dopo Trento, la codificazione nel 1917 non sono forse diversi paradigmi che non dobbiamo confondere immediatamente con il Vangelo e con la dottrina?  Mi chiedo se una maggiore consapevolezza di queste differenze nella e della storia non renderebbe il giudizio di Sarah e di Müller non solo teoricamente più equilibrato, ma anche dotato di maggior afflato ecclesiale.

Una citazione del 1945

Per concludere vorrei citare un testo, che trovo suggerito da un bel post del prof. Stefano Ceccanti, nel quale E. Mounier, nel 1945, invitava a non aver paura di “saltare”, di aprirsi al nuovo, di uscire da letture troppo povere e timide della grande tradizione cristiana. Vorrei dedicarlo non tanto ai due cardinali, ma a tutti coloro che, senza dirlo così esplicitamente, partecipano di questa tiepida apparenza di prudenza, che tanto facilmente si identifica con la diffidenza, con la paura e con la profezia di sventura:

«Uomini che hanno paura del salto, ecco cosa siamo diventati, uomini educati ad avere paura del salto. Tutti passano dall’altra parte e noi rimaniamo su questa riva degli abissi del futuro. Come faremo a imparare di nuovo il coraggio di saltare, esattamente in quei punti in cui la prudenza ci zittisce o farfuglia?» (E. Mounier, L’avventura cristiana, ed. Fiorentina, Firenze 1953, p. 99, ediz. originale 1945).

Pubblicato il 26 febbraio 2018 nel blog: Come se non.

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3 Commenti

  1. Aldo 2 marzo 2018
  2. Gino 27 febbraio 2018
  3. Angela 27 febbraio 2018

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