I consacrati nella Grande guerra

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Il centenario della prima guerra mondiale (1915-1918) ha un capitolo poco noto: il contributo dei religiosi e delle religiose al conflitto. Lo affronta in modo originale e documentato una mostra al Museo centrale del Risorgimento nel complesso del Vittoriano a Roma, aperta il 3 novembre e che si chiuderà il 5 febbraio 2017. Il racconto – documenti, foto, dipinti, oggetti ecc. – parte dalle guerre del Risorgimento fino al riavvicinamento politico, dopo le soppressioni religiose del 1866 e 1873. La guida e l’ideazione complessiva sono in capo al paolino p. Giancarlo Rocca (alle sue note si riferisce questo articolo).

Quando l’Italia entra in guerra, il 23 maggio 1915, vengono chiamati alle armi anche i religiosi. Allora erano in Italia 14.200. Parteciparono alla guerra 9.370: fra il 60 e il 70% delle loro forze. Ecco in ordine decrescente le cifre di alcuni istituti: Frati minori 2.275; Cappuccini 1.900, Salesiani 1.026, Gesuiti 465, Passionisti 387, Frati minori conventuali 337, Fratelli delle scuole cristiane 308 ecc. Se al numero dei religiosi si aggiungono i sacerdoti e i chierici diocesani (13.000) si arriva a 23.000 ecclesiastici precettati alla guerra. Dei 9.370 religiosi, 4.004 erano sacerdoti, gli altri fratelli o con ordini minori. Morirono 320, 376 furono decorati, 572 divennero ufficiali.

Sacramenti e devozioni

I cappellani militari, appartenenti al Sovrano Ordine di Malta, alla Croce Rossa e soprattutto all’esercito ebbero un loro vescovo (il primo, Angelo Bartolomasi) che aveva giurisdizione su tutti. Sottoposti alla disciplina militare comune e alle possibili condanne (arresto, radiazione), potevano essere sospesi a divinis in base al diritto canonico. Capitò ad alcuni che assistevano a pubblici spettacoli considerati indecenti.

La vita religiosa dei soldati prevedeva la messa, le confessioni, l’aiuto e l’assistenza ai morenti, i funerali. Particolarmente solenni le celebrazioni per il Natale e la Pasqua. Molto condivisa, ma non da tutti apprezzata, la consacrazione dell’esercito al Sacro Cuore, promossa da p. Agostino Gemelli. La devozione al Sacro Cuore, accanto a quella mariana, divenne la principale fonte della preghiera dei soldati. In altri contesti, come la Francia, si sviluppò molto la devozione a santa Teresina e a Giovanna d’Arco.

I religiosi dispersi sui vari fronti desideravano tenere i rapporti con i loro superiori. Anche perché affrontavano esperienze durissime e del tutto nuove. In particolare, l’obbligo di uccidere il nemico. Molti istituti religiosi diedero vita a forme di corrispondenza e di legame con i confratelli soldati: dai salesiani ai gesuiti, dai passionisti al Pime, dai redentoristi ai frati minori. Il rettor maggiore dei salesiani inviò 32 lettere ai propri confratelli in guerra fra il 29 marzo 1916 e il 24 dicembre 1918.

La corrispondenza era viva in ambedue le direzioni. Con brandelli di verità lancinanti. «Qui si diventa feroci come le belve. Che cosa vuole? Quando si è in guerra si diventa guerrieri» (A. Bizzotto, scalabriniano). «Scene strazianti mi passarono innanzi. Un istante e al rombo tremendo del cannone i compagni che mi circondavano erano caduti; chi spezzato il capo aveva incontrata una morte fulminea; chi ferito agli occhi si trascinava per terra per raggiungere il riparo… Qua e là un rantolo affannoso, rauco, una voce tenue, esile che mormorava: ho sete, muoio» (A. Bernardi, camilliano). «Maggiore è la miseria di questi poveri soldati, che non lo strazio dei loro corpi. Non ho mai prestato gran fede a chi annunciava le ammirabili numerose conversioni che avvengo al fronte. E ora mi trovo davanti molti soldati che hanno passato mesi e mesi al fronte e ancora non hanno fatto la prima confessione; quasi tutti poi, profondamente irritati, esasperati, altro non fanno che imprecare e lamentarsi contro Dio e la Provvidenza» (L. Piccinini, gesuita). Davanti a un povero soldato austriaco, bocconi a terra, «mi vennero le lacrime agli occhi e recitai di cuore un requiem per quel poveretto… Era la prima volta che sparavo sul nemico a così poca distanza» (P. Squinabol, gesuita). L’amore di patria si accompagna alla resistenza interiore davanti alle fucilazioni per diserzione e alla censura nelle comunicazioni. Testimoni di nuove e impreviste malattie come il mutismo, la cecità, la paralisi e la follia. Pochi i casi di una presa di distanza dalla guerra, come successe al cappuccino A. Di Fabio.

Suore: vittime senza monumenti

Non sappiamo quante siano state le religiose impegnate nel corso della guerra (1915-1918). Mancano statistiche e dati. Se si considera, però, che le figlie della carità di san Vincenzo de Paoli avevano impegnato circa 780 religiose; e a questo numero si aggiungono le diverse centinaia di suore di Maria Bambina in circa 140 ospedali militari; le centinaia di Figlie di sant’Anna; le suore del Cottolengo di Torino, che negli ospedali di Livorno, avevano 69 religiose e 77 in quelli di Pisa; le Francescane elisabettiane di Padova, in circa 30 istituzioni ospedaliere con circa 250 religiose; le suore Dorotee di Vicenza, impegnate anch’esse in una trentina di ospedali; le numerosissime Ancelle della carità di Brescia; le Sorelle della Misericordia di Verona, in oltre 50 ospedali; le figlie di Maria Ausiliatrice che, nel solo spedale Regina Margherita di Torino, avevano impegnato 50 religiose; le Francescane missionarie di Maria; le suore di carità di santa Giovanna Antida Thouret, impegnate anche nei quattro treni ospedali del Sovrano Ordine di Malta; e ancora tantissimi altri istituti femminili, si raggiunge facilmente la cifra di diverse migliaia di religiose. E, se si considera che, nel censimento del 1911, le religiose in Italia erano circa 45.000 (250 istituti e 3.000 case), non sembra azzardato ritenere che almeno un terzo (15.000) fosse impegnato nei servizi di guerra.

Le religiose prestavano servizio in zona di guerra, negli ospedali da campo, nei treni ospedali, ovunque ci fosse bisogno. Esse non venivano stipendiate personalmente per i loro servizi, ma sia la Croce Rossa sia gli stati aprivano convenzioni con gli istituti. Non si sa quante di esse siano morte in guerra. Nei cimiteri e negli ossari sono raccolti solo i maschi. Esiste qua e là qualche cippo che ne fa memoria o i cimiteri dei singoli istituti. Le cure ospedaliere si intrecciavano alle pratiche di culto e ad alcuni momenti di maggiore tranquillità. Alle suore erano inoltre riservati gli ospedali chiamati «contumaciali» perché destinati a malattie di lunga degenza e in isolamento. In particolare, a quelli di maggior rischio, come la colerosi e le malattie infettive.

Uccidere o predicare

Un capitolo a parte riguarda le religiose in territorio austriaco, per antica o nuova occupazione. Esse vennero trasferite assieme alle loro popolazioni, anche per garantire l’assistenza ai malati e agli handicappati. Per diversi anni le religiose vissero nei campi di raccolta di Metterndorf, Katzenau, Wagna, Braunau, Hermsdorf e Leibnitz. Capitò così di dover convivere assieme a consorelle di diversi istituti e di stabilire relazioni assai proficue.

Negli eserciti nemici vi erano gli stessi comportamenti e pratiche religiose: cappellani, sante messe, processioni religiose, ricorrenze liturgiche come il Natale e la Pasqua. Sono noti i casi di “intesa” fra contingenti militari opposti in occasione di feste natalizie.

Al termine della guerra, un apposito decreto della Sacra Congregazione Concistoriale (15 ottobre 1918) stabilì che tutti gli ecclesiastici che avevano partecipato alla guerra seguissero un corso di esercizi spirituali. Si trattava di decantare esperienze umane durissime e prove spirituali non meno impegnative. In particolare, nel caso di uccisione, anche se prevista dalle norme di guerra. La maggior parte dei sacerdoti religiosi rientrò nell’istituto cui appartenevano. Per i fratelli laici, meno garantiti nelle operazioni al fronte, l’esperienza fu più drammatica e il ritorno più problematico. Una parte significativa non rientrò nei conventi e ritornò alla vita secolare.

Se l’esperienza di guerra cancellò, da parte dei poteri statali, ogni prevenzione nei confronti della Chiesa e testimoniò la vicinanza del personale ecclesiastico ai drammi e alla vita del popolo, dall’altro, fece emergere il paradosso di una Chiesa cattolica (universale) nella sua definizione e nazionalistica nelle sue pulsioni. Ma permise anche l’elaborazione di un rifiuto della guerra che iniziò proprio con Benedetto XV, l’unico a definire lo scontro come «inutile strage».

Notre Dame e San Pietro

Così scriveva il papa il 1° agosto 1917 ai capi dei popoli belligeranti: «Sul tramontare del primo anno di guerra noi, rivolgendo ad essi le più vive esortazioni, indicammo anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per tutti. Purtroppo, l’appello nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita per altri due anni con tutti i suoi orrori: si inasprì e si estese anzi per terra, per mare, e perfino nell’aria; donde sulle città inermi, sui quieti villaggi, sui loro abitatori innocenti scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali, se altri mesi ancora, o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso. Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio?». E dopo aver presentato le proposte di soluzione, concludeva: «Nel presentarle pertanto a voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage».

All’irritazione dei governi si aggiunse il disagio delle Chiese nazionali. Non è casuale che, nelle prestigiose riviste gesuitiche Stimmen der Zeit (Germania) e Etudes (Francia), si contrapponessero posizioni antitetiche. In Francia si riteneva che la Germania fosse «il peccato dell’Europa». Dall’altra, si sosteneva che non ci sarebbe stato futuro per la Chiesa se la laicissima Francia non avesse perso la guerra. Il 10 dicembre 1917 una figura di rilievo e grande prestigio come il domenicano p. A.-D. Sertillanges proclamava dal pulpito di Notre Dame, con il consenso del cardinale di Parigi, L.A. Amette, di non poter condividere la convinzione di papa Benedetto XV, dovendo in primo luogo difendere la patria.

Come segnale del cambiamento si può citare qualche riga del discorso di Paolo VI all’ONU, il 4 ottobre 1965: «E allora il nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da noi questa parola, che non può non vestirsi di gravità e di solennità: mai più gli uni contro gli altri, mai, mai più!». «Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!».


La Guida alla mostra (“Patria e religione. Religiosi e religiose italiani nella Prima Guerra Mondiale, 1915-1918”) è possibile acquistarla (€ 5,00) indirizzando la richiesta  a: Dizionario degli istituti di perfezione, Via Domenico Fontana 12, 00185 Roma. Per i religiosi e le religiose la visita alla mostra è gratuita.

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