Il corpo e le tecniche

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corpo e tecniche

Il corpo umano e la corporeità delle relazioni stanno attraversando, in questa nostro tempo, una strana congiuntura. Vi si applicano, quasi con accanimento, forze apparentemente contrastanti tra di loro, che convergono però nel mettere in risalto un diffuso disagio nei loro confronti. In ogni caso, oggi il corpo sembra patire il congiungersi di forze che esercitano su di esso un’inusitata violenza.

Da un lato, abbiamo il corpo oggetto di una cura maniacale, cosmetica, tutta concentrata sull’apparenza della sua esteriorità. Salutismo ed estetismo si applicano su di esso per renderlo più efficiente, attrattivo al vedersi, facendone una sorta di manifesto pubblicitario, osteso allo sguardo di tutti, di un sé sempre più insicuro e tentennante. In questi paraggi del corpo si muovono un’industria e un commercio che ne traggono dividendi enormi. Il disagio del corpo, sapientemente indotto dalle logiche del mercato, è diventato una macchina consumatrice ossessiva che produce enormi somme di denaro. Immagine di un sé smarrito, incapace di accettarsi e di accettare che il passare della vita lasci segni indelebili.

La multiforme cosmetica del corpo induce, quindi, il bisogno di una dimenticanza, di un oblio della propria storia e del proprio vissuto. Su di esso operiamo affinché non si possa vedere che qualcosa ci è realmente accaduto e si è inciso in noi.

Salvezza digitale

D’altro lato l’impresa digitale di un definitivo superamento della dimensione corporea dell’umano, non come sogno ma come impresa oramai ben avviata, accompagnata dalla promessa di una liberazione definitiva, di una permanenza del sé oltre ogni sua effettiva vicenda. Immortalità come mera continuazione, salvezza digitale della produzione neurologica del nostro cervello. Accumulazione del sapere, che siamo senza essere soltanto questo, su un disco rigido a durata illimitata.

Il sapere della mente finalmente riscattato dall’impero dei sensi, che però continuiamo a coltivare con accanimento sul primo versante della gestione del corpo a cui abbiamo fatto cenno – contraddizione che vale una rivelazione. Frutto di una doppia operazione: proiezione del nostro cervello sull’interfaccia digitale, prima, e proiezione di ritorno delle elaborazioni algoritmiche, anima del software, sul nostro cervello, poi.

Viviamo costantemente in questo pendolo, nuova terra promessa di un’espansione illimitata delle nostre potenze neuronali. Forse dimenticandoci di una piccola cosa. Ossia, che il cervello funziona come funziona proprio perché è un organo del corpo. Il grande assente in questo gioco di specchi che ci avvince e cattura rapinosamente.

Il sapere segnato

La mente sa proprio nel suo legame col corpo, e non saprebbe così se esso non ci fosse. Al limite, come ostacolo ambivalente da mettere teoricamente tra parentesi, il sentire (corporeo) rimane il convitato di pietra del sapere della mente. Ed è molto probabile che esso abbia potuto raggiungere i vertici dei suoi slanci migliori e più futuristici proprio grazie a questo suo legame corporeo. E nella tensione, spesso insopportabile, di un corpo che si inceppa e una mente che continua a funzionare al vertice delle sue capacità, si genera il sogno di un distacco volto alla preservazione della potenza della mente e del sapere che essa continua a produrre.

Senza chiedersi se questo sapere, nella sua cristallina lucidità e intatta potenza, ci sarebbe stato comunque garantito proprio così a prescindere dall’impasse in cui è caduto il corpo. Non potrebbe essere che proprio il limite del corpo, patito come uno scacco, e il sentire neuronale di questo arresto o regressione della funzionalità corporea, non sia esattamente la genesi di un pensiero e un sapere che vorremmo collocare altrove?

L’incanto del sentire

Se gettiamo uno sguardo alla letteratura di science-fiction, ci si può accorgere che la macchina, proiezione digitale e algoritmica delle potenze della mente, coltiva un sogno prometeico, un desiderio che ne sovverte il destino a cui è stata programmata: quello di diventare senziente, di inventarsi da sé un algoritmo che le faccia gustare quello che non è: un corpo che sente, patisce, ama. Regressione al grembo cerebrale che l’ha partorita, come desiderio dei desideri dell’intelligenza artificiale.

L’incanto così provato, patito, percepito, della macchina senziente non è poi così lontano dall’incanto dell’Immortale di Borges che accede all’esperienza comunemente umana della finitudine: «Alla periferia della città, vidi un corso d’acqua limpida; ne bevvi, spinto dall’abitudine. Mentre risalivo la riva, un albero spinoso mi lacerò il dorso della mano. L’insolito dolore mi parve acutissimo. Incredulo, silenzioso e felice, contemplai il prezioso formarsi d’una lenta goccia di sangue. Sono di nuovo mortale, mi ripetei, sono di nuovo simile a tutti gli uomini. Quella notte dormii fino all’alba» (J.L. Borges, Tutte le opere, I, Mondadori, Milano 1996, 786).

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