La discriminazione razziale aggrava la diffamazione

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«L’aggravante da finalità di discriminazione o di odio razziale è configurabile per il solo fatto dell’impiego di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale. Vale a dire quando la condotta posta in essere si manifesta come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, di un sentimento connotato dalla volontà di escludere condizioni di parità per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza o nazionalità».

Lo ha affermato la Corte di Cassazione in una recentissima sentenza,[1] con la quale ha confermato la condanna di un cittadino italiano – attivista politico – alla pena ritenuta di giustizia per il reato di diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale a danno dell’on. Cécile Kyenge, cittadina italiana di origine congolese, all’epoca dei fatti Ministra per l’integrazione del Governo Letta.

Il fatto

La condanna era stata inflitta dal Tribunale e confermata dalla Corte di Appello di Trento, in quanto il cittadino aveva pubblicato sul profilo di un noto social network un commento con cui criticava l’intervento dell’allora Ministra dell’integrazione sociale Cécile Kyenge, sostenendo che le proposte da quest’ultima avanzate per la soluzione di un problema riguardante la comunità zingara non erano per nulla condivise dalla maggioranza degli italiani, concludendo con la frase «rassegni le dimissioni e se ne torni nella giungla dalla quale è uscita» e inserendo contemporaneamente nel profilo Facebook le parole pronunciate durante un comizio il 13 luglio 2013, nei pressi di Treviglio (Bergamo) e alla presenza di oltre un migliaio di spettatori, dal senatore e vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, a commento dell’operato della Ministra, paragonandola ad un orango: parole poi diffuse da organi di stampa di tiratura nazionale.

A tale comportamento, anche a seguito del coinvolgimento di associazioni antirazziste, seguì ovviamente la querela per diffamazione, atteso che la denunciante si era sentita lesa nell’onore e nella dignità personali, specie in un momento in cui il quadro di dileggio nei suoi confronti era piuttosto diffuso a causa delle inqualificabili espressioni usate dal citato senatore della Repubblica nei confronti della Ministra. Espressioni che avevano doverosamente provocato una dura reazione dal parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal Presidente del Consiglio dei Ministri Enrico Letta.

Il ricorso per Cassazione

Avverso la sentenza di condanna, l’imputato propose ricorso per cassazione per due fondamentali motivi.

In primo luogo, sostenendo che tra il suo commento sul social network e le espressioni rivolte alla stessa Kyenge dal senatore Roberto Calderoli, non v’era alcun punto di contatto, in quanto quest’ultimo ebbe a paragonare la persona offesa ad un «orango», mentre egli avrebbe semplicemente criticato l’operato della Ministra.

In secondo luogo, sottolineando che la valenza idiomatica dell’espressione da lui utilizzata («rassegni le dimissioni e se ne torni nella giungla dalla quale è uscita») era equiparabile ad altri modi di dire di uso corrente e utilizzati nel linguaggio comune (come, ad esempio, «torna tra i monti!»), da tutti compresi nel loro significato traslato o figurato e utilizzati, con tono sarcastico, nei confronti di persone di cui si ritiene, a torto o a ragione, che dovrebbero occuparsi di altro, a prescindere dal colore della loro pelle.

Le motivazioni della condanna: delitto di diffamazione

Nel respingere il ricorso, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione non ha avuto dubbi in ordine alla natura diffamatoria dell’espressione utilizzata dall’imputato, la cui condotta non ha nulla a che fare con il diritto di critica politica.

A tal fine va rammentato che la norma incriminatrice del delitto di diffamazione (articolo 595 c.p.) tutela la reputazione di ogni persona, intesa non come la considerazione che ciascuno ha di sé o come il semplice amor proprio, ma come l’opinione o stima di cui gode in seno alla società per carattere, ingegno, abilità, onestà, decoro professionale e altri attributi.

Richiamando un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la recentissima sentenza afferma che «il legittimo esercizio del diritto di critica, pur non potendosi pretendere caratterizzato dalla particolare obiettività propria del diritto di cronaca, non consente comunque gratuite aggressioni alla dimensione morale della persona offesa e presuppone sempre il rispetto del limite della continenza delle espressioni utilizzate, da ritenersi superato nel momento in cui le stesse, per il loro carattere gravemente infamante o inutilmente umiliante, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, la cui persona ne risulti denigrata in quanto tale».

Ciò premesso, la Suprema Corte afferma che «sussiste il delitto di diffamazione quando           tale limite sia oltrepassato, trasformando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui, in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente “di parte”, cioè non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità e della reputazione altrui, ovvero che si traducono in un attacco personale o nella pura contumelia».

Nel caso specifico, secondo i giudici di legittimità, non vi è dubbio che l’espressione «rassegni le dimissioni e se ne torni nella giungla dalla quale è uscita», lungi dal rappresentare una radicale critica all’azione politica della Ministra, sia trasmodata in un vero e proprio attacco gratuitamente umiliante nei confronti di quest’ultima e inutilmente denigratorio della sua dignità, intesa come percezione, innanzitutto, della propria dimensione umana, e della sua reputazione. «Non, quindi, di una censura sugli obiettivi politico-amministrativi perseguiti dalla persona offesa si è trattato, ma di un attacco personale, che, facendo leva sulle origini africane della Kyenge, le ha attribuito caratteri propri degli esseri che vivono nella giungla (dove l’imputato la invitava a fare ritorno)».

Le motivazioni della condanna; l’aggravante delle finalità di discriminazione razziale

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione non ha, parimenti, avuto dubbi in ordine alla aggravante della finalità di discriminazione razziale.[2]

Il fatto che la Corte di appello di Trento abbia inquadrato il commento dell’imputato nell’ambito di una polemica politica allora in atto (definita in sentenza «sguaiata»), che ha visto, quale vittima, proprio la Kyenge, non risulta illogico, dal momento che emerge con evidenza la concezione sottesa allo sprezzante «invito», «teso ad allontanare la persona offesa dal contesto degli uomini civilizzati».

Secondo la Cassazione, appare del tutto superfluo stabilire se l’imputato abbia voluto a sua volta, emulando il vicepresidente del senato Roberto Calderoli, assimilare o meno la Kyenge ad una scimmia. Ciò che rileva, infatti, è «l’evidente e gratuito giudizio di disvalore espresso dall’imputato, fondato sull’appartenenza della Kyenge alla razza degli africani di pelle nera», che, a suo giudizio, avrebbe nella giungla e non nella società civilizzata, il suo habitat naturale, per ragioni storiche, ovvero perché assimilabile agli animali, come le scimmie, che ivi vivono.

Per queste specifiche ragioni la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto.

La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico-razziale (articolo 3 della legge 25 giugno 1993 n. 205) è certamente configurabile quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori. Ma lo è altrettanto quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo l’intenzione soggettiva di chi compie il reato, dal momento che la ratio della disposizione normativa in questione intende sanzionare con maggiore severità i reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, esprimendo un giudizio di disvalore e di esecrazione per condotte che alla precipua antigiuridicità assommino un ulteriore valenza lesiva, siccome obiettivamente rivelatrici di uno dei suddetti sentimenti espressamente considerati dalla legge.

Postilla

A questo punto, è logico che lettori e lettrici si pongano una domanda.

A fronte della definitiva condanna dell’attivista politico di Trento, emulo di Calderoli, quali le conseguenze delle esternazioni di quest’ultimo, nonostante si sia premurato di scusarsi con la Ministra già la sera stessa del 13 luglio 2013 e nei giorni immediatamente successivi, per il linguaggio usato?

Scuse accettate dalla Ministra, che peraltro non hanno impedito che nei confronti del senatore la procura della Repubblica di Bergamo chiedesse, in data 5 novembre 2013, il giudizio immediato per il reato di diffamazione previsto dall’articolo 595, comma 3 del codice penale, e dell’articolo 3 della legge 25 giugno 1993 n. 205 (diffamazione con l’aggravante di aver recato offesa mediante comizio quale mezzo di pubblicità e di aver commesso il fatto per finalità di discriminazione razziale).

Giudizio sospeso, perché il Senato della Repubblica, nella seduta pubblica del 16 settembre 2015, a seguito di votazioni per parti separate della relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, votò l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’interessato per aver diffamato l’ex ministro Cécile Kyenge, mentre escluse dall’autorizzazione l’accusa di istigazione all’odio razziale.

Ma il Tribunale di Bergamo, ritenendo che l’assimilazione di una signora di origine africana a un orango, da un lato, giustifichi la contestazione della natura razzista dell’insulto e, dall’altro, ne escluda ogni possibile collegamento con qualsiasi attività parlamentare, il 29 gennaio 2016 propose ricorso alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione, chiedendo alla Corte di annullare la deliberazione del Senato.

Ricorso dichiarato ammissibile dal Giudice delle leggi con ordinanze n. 139 del 18 maggio 2016 e n. 101 del 4 aprile 2017.

Dunque, sarà la Corte Costituzionale, prossimamente,[3] a dirci se insultare, nei termini riferiti[4] e alla presenza di un pubblico di oltre mille persone, la prima Ministra afroitaliana della Repubblica integri o meno, nei confronti di un senatore, il reato di diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale, così come lo integra, a parere della Corte di Cassazione, nei confronti di chi, come il semplice attivista politico che compie un reato, non può avvalersi dell’immunità parlamentare.


[1] Corte di Cassazione, Sez. V penale, sent. n. 7859 del 19 febbraio 2018.

[2] Va ricordato che la nozione di discriminazione razziale è descritta, dal punto di vista normativo, nell’articolo 1 della Convenzione di New York del 7 marzo 1966 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale ratificata con legge 13 ottobre 1975, n. 654, secondo il quale essa «sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica».

[3] La discussione del “caso” è avvenuta nel corso dell’udienza pubblica del 9 gennaio 2018 (relatore Franco Modugno). Ad oggi, non si ha notizia della relativa decisione.

[4] Nella seduta pubblica del 16 settembre 2015, il senatore Calderoli, rivolgendosi all’aula del Senato, così si espresse: «Purtroppo – e vi dico che subito dopo mi sarei tagliato la lingua –, sbagliando ho proferito una battutaccia estremamente infelice, che solo dopo ho compreso poter essere offensiva, ma vi giuro sul mio onore che in quel momento la mia volontà era solo quella di fare una battuta».

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