Lo stato di salute del popolo sovrano

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Esaurita la rassegna dei “personaggi in cerca d’autore” in lizza per il voto del 4 marzo, viene spontaneo di soffermarsi sul primo degli “autori” – il popolo sovrano – chiamato a scrivere l’improbabile copione da rappresentare nella prossima legislatura. L’altro autore, il Presidente della Repubblica, sarà di scena solo dopo il risultato.

Dunque il popolo sovrano. Quali sono le sue condizioni di salute? Quale l’indice di saggezza che potrà dimostrare depositando le schede nell’urna e, più ancora, reagendo alle pulsioni irrazionali che attraversano lo svolgimento della vita pubblica?

Società e Parlamento        

Le domande sono importanti perché – come è noto –, in democrazia, e in particolare nella nostra Repubblica, «la sovranità appartiene al popolo» che la esercita, in primo luogo, eleggendo i propri rappresentanti in Parlamento, sede dedicata alle decisioni fondamentali per il quinquennio della sua durata.

Ma la composizione delle Camere rispecchia, in genere, la struttura della società; ed è, dunque, alla società che bisogna guardare per decifrare gli orientamenti che sarà in grado di esprimere.

È operazione da compiere con delicatezza perché, in democrazia, non c’è livello decisionale superiore a quello del voto popolare; al quale dunque si deve guardare con il rispetto dovuto alle persone, i cittadini, che esprimono la maggioranza che viene assunta come volontà impegnativa.

Preoccupata diffidenza

Scorrendo la stampa dell’ultimo periodo, ci si imbatte, viceversa, in alcuni giudizi di autorevoli opinion maker che trattano della salute politica del popolo con preoccupata diffidenza.

Per Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 31 gennaio), «negli ultimi due decenni la società è andata incontro non solo ad un declino economico ma a un degrado complessivo». Che vuol dire «deterioramento del tessuto civile del Paese, l’abbassarsi del livello della sua cultura e dei suoi costumi, una crescente sregolatezza dei comportamenti diffusi al limite della illegalità».

Colpa del Paese?

Da cui le domande: «Dello spettacolo a cui stiamo assistendo in questi giorni non ha forse qualche colpa il Paese che siamo»? E ancora: «Perché mai un paese così… dovrebbe avere una classe politica diversa da quella che ha, dei candidati al Parlamento diversi da quelli che gli sono stati appena somministrati dai partiti?».

Il tutto per concludere che, tranne una sparuta minoranza, «a tutti gli altri va bene il paese che c’è: naturalmente riservandosi il diritto di imprecare ad ogni momento che in Italia è tutto uno schifo».

L’elettore vagotonico

Ancora più tranchant era stata la sentenza di Giuseppe De Rita (Corriere della Sera 30 gennaio) secondo il quale – recita il titolo – «gli appelli alla partecipazione in vista del voto si infrangono contro il disinteresse di cittadini vagotonici: indifferenti alla vita comunitaria».

E il testo specifica: «Abbiamo di fronte un elettorato vagotonico, propenso più a ricaricarsi che a entrare in campo, indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere, un elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi».

Con una conclusione che auspica l’utilità di far maturare qualche vena nuova di «obiettivi sentiti come comuni, scavandone le radici nei concreti processi della ripresa in atto e nei comportamenti che si muovono in essa (in termini di nuovi lavori, nuovi campi di business, nuovi spazi di mercato internazionale ecc.), lontani da quelle mirabolanti improvvisazioni tipiche in ogni fase finale delle campagne elettorali».

Oltre il presente onnivoro

I due punti di vista appaiono complementari nel loro scetticismo sulle possibilità di rilancio di una coscienza politica collettiva che sia in grado di guardare più alto e più lontano del presente onnivoro in cui oggi ristagna. Che riacquisti, cioè, la dimensione di una profondità storica, di un prima e di un dopo, nella quale collocare l’oggi e le sue sfide come un momento di transizione verso una sintesi meno precaria e disperata.

Dal principio sociale al privato esclusivo

Questo è il vero nodo da sciogliere sia in vista del voto sia, soprattutto, nella fase successiva che non può essere né breve né indolore. L’impresa coinvolge le responsabilità di tutti ed esige anche una riconsiderazione critica delle scelte e degli atteggiamenti che hanno concorso a produrre la situazione attuale.

Prendere atto dell’apatia del popolo sovrano può anche essere un necessario momento di verità. Ma occorre avere la forza di chiedersi quali tendenze, quali idee, quali miraggi abbiano concorso a sviare la mentalità corrente dal primato del sociale all’esclusivismo del privato.

La suggestione del “fai da te”

I soggetti della vita comunitaria, i corpi intermedi, hanno sicuramente ceduto campo alla suggestione del “fai da te” si chiamasse «nuovo lavoro» o «partita IVA». Ma non si può ignorare che, in tal senso, s’è sviluppata una formidabile pressione culturale in sintonia con le esigenze di una politica che ha modulato se stessa sulle istanze di una visione mercantile dell’economia e dell’intera esistenza umana.

Non si riesce a far innalzare la mongolfiera di una nuova fase politica se non liberandola di una parte almeno di questa zavorra che l’ha appesantita. Il che comporta anche una revisione di concetti e di opzioni da parte di chi più si è speso nell’accreditare il fascino salvifico di una somma di individui. Che si fa surrogato di una società che si organizza secondo valori.

I valori alla guida

Ha scritto Francesco Marsico in un bell’articolo su ItaliaCaritas (1° febbraio 2018): «Se non si condivide che la democrazia non è una tecnicalità per selezionare leader, ma un sistema politico teso a includere i meno garantiti, diventa difficile definire un’agenda di questioni sociali urgenti». Ma, se questa è la provocazione del tempo presente, la via da percorrere non può che divaricare rispetto al percorso fin qui seguito.

Si tratta di ricomporre una sintonia tra politica ed economia, recuperando il significato delle parole antiche nel contesto di un mondo cambiato, dove però i valori della politica – in Italia la Costituzione – abbiano davvero un funzione di orientamento e di guida in tutti i campi della vita sociale.

Il dovere di parlare

La sfida non riguarda soltanto la cultura e i suoi alfieri. Ad essere interpellate sono tutte le agenzie educative, dalla scuola alle libere associazioni.

A partire, per quest’ultimo campo, da quelle che, negli ultimi decenni, hanno compiuto un ripiegamento su se stesse. Si sono infatti concentrate su pur preziose dimensioni di servizio ma si è opacizzato il diritto-dovere di prendere la parola sui fatti e sulle scelte che determinano la qualità del futuro.

Ai tempi del monarca

Il discorso col popolo sovrano non ha senso se si riduce alla propaganda delle vigilie. Ha da avere intensità e continuità di lunga durata ed esige da tutti gli interlocutori autonomia, autorevolezza e spirito critico. Ne va di mezzo l’esercizio della sovranità, che diventa sudditanza – rincorsa delle tendenze del momento –, se manca un’alimentazione continua della ricerca sui temi determinanti.

Una volta, quando il sovrano era la persona del monarca, tanti erano i soggetti che si adoperavano perché fosse preparato alla conduzione degli affari del regno.

Testi ed esperienze

Mi è venuto sottomano il Breviario dei politici secondo il Cardinale Mazarino, vero compendio delle virtù ma anche delle astuzie e dei sotterfugi della politica.

Ho presente anche La pace perpetua di Immanuel Kant, là dove suggerisce al principe di «ascoltare il filosofo» prima di intraprendere la scelta delle armi.

Ricordo pure, per stare ai tempi nostri, i corsi di formazione delle Acli anni ’60, vere officine di preparazione ad un’azione sociale che includeva la politica ma non ne restava prigioniera.

Infine, mi torna in mente di aver partecipato ad un ciclo di studi sul mondo cattolico alla scuola del Pci delle Frattocchie (anni 70). Con Enrico Berlinguer in mezzo agli altri allievi, che prendeva appunti durante una lezione di Alberto Monticone.

La politica sensata

Non dico che nel mondo digitale e globalizzato, occorra riesumare quelle esperienze, ma c’è bisogno di una formazione alla politica che sappia collocarsi “prima” della politica, nell’orbita delle avventure del pensiero umano; e sappia andare “oltre” la politica nell’indicazione delle ragioni etico-sociali profonde che ne giustificano le scelte.

Se si riattivano cantieri di questo tipo, si moltiplicano le occasioni di verifica delle scelte, se ne saggia la congruità etica e l’efficacia pratica, si rompe il cortocircuito con la propaganda e si riabilita la formula della «politica sensata», cioè guidata da un’anima ideale. Avendone voglia, il tempo e le risorse si trovano.

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