Protezione umanitaria: l’abrogazione non è retroattiva

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migranti

La legge[1] che, a far data dal 5 ottobre 2018, ha soppresso il titolo di soggiorno attribuibile ai migranti in presenza di seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, non può avere effetto retroattivo e, pertanto, non è applicabile alle domande di riconoscimento della protezione internazionale presentate prima della suddetta data.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in una recente sentenza[2] che, pur respingendo l’istanza di protezione internazionale e umanitaria di un cittadino della Guinea sul presupposto che le ragioni dell’allontanamento dal suo paese erano state esclusivamente di natura economica, rappresenta una sorta di spartiacque nella legislazione restrittiva in tema di immigrazione introdotta dall’attuale Governo e ne ridimensiona drasticamente la portata, in quanto stabilisce che l’abrogazione del permesso di soggiorno sostenuto da ragioni umanitarie rileva esclusivamente per coloro che hanno fatto domanda dopo il 4 ottobre 2018.

La protezione umanitaria nel diritto vivente

La protezione per motivi umanitari è un istituto introdotto nel nostro ordinamento nel 1998[3] per dare piena attuazione all’articolo 10, comma 3 della Costituzione che riconosce protezione e diritto di asilo allo straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

Un’ampia e univoca elaborazione giurisprudenziale ha positivamente considerato il carattere aperto della norma e ha messo in evidenza l’intima connessione esistente tra permesso umanitario e diritto di asilo costituzionale.

La qualificazione giuridica della protezione umanitaria come diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale, è stata affermata e mantenuta costante a partire dal 2009.[4]

Tale peculiare natura ha avuto notevole rilievo nell’individuazione, da parte della giurisprudenza di legittimità, dei presupposti per il relativo accertamento, nel contesto di un catalogo aperto di situazioni ritenute meritevoli di considerazione per motivi socialmente rilevanti riferibili all’inviolabilità dei diritti umani e all’obbligo di solidarietà espressi dall’articolo 2 della Costituzione, nonché alla tutela e al rispetto della dignità umana che l’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[5] considera «inviolabile».

Si è, infatti, ritenuto che tali presupposti fossero diversi da quelli posti a base sia della tutela accordata allo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951,[6] sia della protezione sussidiaria di derivazione europea[7] da considerare «complementare e supplementare» rispetto alla protezione dei rifugiati.[8]

La protezione umanitaria costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia, dal momento che le condizioni di vulnerabilità suscettibili di integrare i «seri motivi umanitari» sono necessariamente correlati al quadro costituzionale e convenzionale al quale sono ancorati e non predeterminati.

Un altro punto fermo della giurisprudenza di legittimità consiste nel riconoscimento che il diritto alla protezione umanitaria costituisce oggetto di accertamento e non di riconoscimento. Tale convinzione trova la sua ragione logico-giuridica nella necessità di ribadire come il diritto alla protezione umanitaria, quale teoricamente configurato dalle norme nazionali e sovranazionali, già appartiene al patrimonio dei diritti ed è suscettibile di concretizzarsi (mediante l’accertamento) nel momento in cui la persona di nazionalità straniera matura la decisione di avvalersi della situazione di natura sostanziale riconosciutagli dall’ordinamento (proposizione della domanda di protezione internazionale).

È questa la ragione per cui si deve parlare non di «riconoscimento del diritto» e del correlato status ma di «accertamento del diritto» e dello status di protezione, trattandosi di situazioni sostanziali che preesistono e che hanno una autonoma valenza giuridica ancor prima che il soggetto decida concretamente di invocarne l’applicabilità.

Di conseguenza, la protezione umanitaria, che sia già entrata a far parte del corredo individuale dei diritti (per effetto della normativa vigente al momento in cui la persona di nazionalità straniera abbia formalizzato la domanda di protezione), non può essere ridimensionata, o diversamente interpretata, o eliminata sulla base di una normativa sopravvenuta che non ha regolato il regime transitorio.

Detto in altri termini, l’esame della domanda è da considerare alla stregua di un procedimento tecnicamente ricognitivo. A costituire e ad accertare il diritto non sono le commissioni territoriali o il tribunale. L’autorità amministrativa o giudiziaria «accertano» che, quando la persona ha fatto la domanda di protezione, aveva diritto a che gli fosse riconosciuta.

Questo significa che non avrebbe senso – anzi, sarebbe irragionevole – dare una risposta positiva all’istanza di permesso per motivi umanitari presentata in data anteriore al 5 ottobre 2018 da parte della commissione che è stata rapida a decidere e dare invece una risposta negativa solo perché la commissione è stata in grado di decidere – e di farlo in senso negativo – dopo la soppressione dell’istituto della protezione umanitaria.

La protezione umanitaria dopo il 4 ottobre 2018

Il problema posto all’esame della suprema Corte attiene, appunto, alla disciplina da applicare alle ipotesi di procedimenti in itinere dinanzi alle commissioni territoriali o ai giudizi in corso a seguito del provvedimento, di accoglimento o di diniego, dell’organo amministrativo.

Dal momento che, al riguardo, la legge tace, la prassi amministrativa ha scelto di applicare la norma con effetto retroattivo: scelta censurata dalla Corte di Cassazione. La quale, richiamando alcuni principi giuridici in tema di irretroattività della legge,[9] che non è il caso in questa sede di esplicitare, ha affermato il seguente principio di diritto: «La normativa introdotta, a far data dal 5 ottobre 2018, con il decreto legge 4 ottobre 2018 n. 113, convertito in legge 1° dicembre 2018 n. 132, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge, le quali dovranno, pertanto, essere scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione. Tuttavia in tale ipotesi, all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dei presupposti esistenti prima del 5 ottobre 2018, farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi speciali”, della durata di due anni, convertibile, laddove ne ricorrano le circostanze, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato».

Il che implica che la pubblica amministrazione dovrà applicare la legge come interpretata dalla giurisprudenza.

Ne consegue che le commissioni territoriali, se oggi esaminano la domanda di asilo presentata prima del 5 ottobre 2018, lo dovranno fare secondo l’interpretazione che della legge ormai abrogata ha offerto il diritto vivente.

Ad oggi, questo non succede. Se tale prassi dovesse persistere, non rimarrà, per le persone interessate, che adire le vie legali per l’accertamento del diritto alla protezione.

Abrogazione costituzionalmente legittima?

L’abrogazione, da parte del legislatore, della protezione umanitaria, ancorché sostituita in parte da permessi parcellizzati per situazioni specifiche e limitate,[10] era stata aspramente criticata soprattutto dalle associazioni che operano nel campo della tutela dei diritti fondamentali dei migranti.

In occasione della firma del provvedimento il Presidente della Repubblica aveva, in modo inusuale, fatto recapitare una lettera al Presidente del Consiglio, con la quale aveva chiesto il rispetto degli obblighi costituzionali, in particolare del citato articolo 10 della Costituzione, oltre che di tutti quelli derivanti dagli accordi internazionali e dall’ordinamento europeo.

Poiché, in un passaggio della recente sentenza, la Cassazione afferma l’«intima connessione» del permesso umanitario con «il diritto d’asilo costituzionale», qualificandolo nuovamente quale «diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale», ci si può fondatamente chiedere se la scelta governativa di abrogare la protezione umanitaria sia costituzionalmente corretta.

Come è stato affermato in sede parlamentare da parte di alcune forze politiche di opposizione, esistono forti dubbi sulla costituzionalità della nuova legge proprio nella parte relativa ai permessi per motivi umanitari.

Non si può dimenticare che forme di protezione umanitaria sono previste, con modalità diverse, in diciannove dei ventotto paesi dell’Unione Europea (Austria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia, Ungheria), così come stabilito all’articolo 6, quarto paragrafo della direttiva 115/2008/UE il quale prevede la possibilità per gli Stati membri di ampliare l’ambito delle forme di protezione tipiche sino ad estenderlo ai motivi «umanitari», «caritatevoli» o «di altra natura».


[1] Decreto legge 4 ottobre 2018 convertito con la legge di conversione 1° dicembre 2018 n. 132.

[2] Si tratta della sentenza della Cass. Sez. 1ª civile n. 4890 del 19 febbraio 2019 (decisa il 23 gennaio 2019).

[3] Articolo 5, comma 6, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

[4] Con l’ordinanza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione n. 19393 del 9 settembre 2009.

[5] La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha piena efficacia giuridica dal 1° dicembre 2009, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Quest’ultimo, sebbene non abbia incorporato il testo della Carta dei diritti, la include sotto forma di allegato, conferendole così carattere giuridicamente vincolante all’interno dell’ordinamento dell’Unione Europea, secondo quanto disposto dall’art. 6: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».

[6] Ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 24 luglio 1954, n. 722.

[7] Introdotta dalla direttiva n. 2004/83/CE.

[8] Cf. il “considerando” n. 24 della direttiva n. 2004/83/CE.

[9] Articolo 1 delle Preleggi.

[10] La nuova legge ha introdotto la categoria dei permessi di soggiorno “per casi speciali”: per vittime di tratta e grave sfruttamento sessuale; per violenza domestica; per cure mediche; per situazioni di contingente ed eccezionale calamità; per particolare sfruttamento lavorativo; per atti di particolare valore civile; per casi di non sottoponibilità dello straniero ad espulsione e respingimento verso uno Stato in cui egli possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali (ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione) o ancora, verso uno Stato per cui si abbiano fondati motivi di ritenere che egli rischi di esservi sottoposto a tortura.

 

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