Stalking: inquietante e diffuso reato di genere

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Il fenomeno degli “atti persecutori”[1] rappresenta un vero e proprio allarme sociale. Si tratta del reato più noto come stalking, termine inglese che ha origine venatoria e significa, letteralmente, fare la posta ad una preda, inseguire, braccare e, in senso più lato, disturbare, assillare, perseguitare.

Il delitto ha costituito oggetto di attenzione solo in tempi relativamente recenti. È stato, infatti, introdotto con una legge del 2009, aggiornata nel 2013. Giustificata dall’esigenza di tutela della vittima da forme di aggressione particolarmente insidiose, la nuova figura criminosa ha colmato una rilevante lacuna nel nostro ordinamento, apprestando, attraverso una combinazione di strumenti penalistici, civilistici e amministrativistici, un’efficace tutela della vittima contro il rischio della progressione di atti di violenza da parte del persecutore.

Il reato è stato collocato nel codice penale tra i delitti contro la persona, nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, atteso che le condotte incriminate sono idonee a incidere sulla tranquillità psichica, sulla libera autodeterminazione e, in definitiva, appunto, sulla libertà morale della persona. Con questa nuova figura incriminatrice il legislatore italiano ha inteso reagire contro il fenomeno, da tempo conosciuto in molti ordinamenti stranieri sotto il nome di stalking. Si tratta di un fenomeno criminoso articolato, avente come comune denominatore il carattere assillante e ripetitivo della condotta di minaccia o di molestia, in grado di produrre sulla vittima l’insorgere di stati di ansia e di paura tali da stravolgere le sue abitudini di vita.

Il legislatore ha preso atto però che la violenza, declinata nelle diverse forme, spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria. Pertanto, mediante l’incriminazione degli atti persecutori, si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisio­psichica attraverso l’incriminazione dì condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia, la molestia, l’ingiuria.

L’aver preso coscienza dell’esistenza e della portata del fenomeno ha consentito alla legge di dare un contributo significativo all’avvicinamento del diritto alla morale.

Reato di genere

Teoricamente il delitto di “atti persecutori” non appartiene ad un genere specifico: interessando indifferentemente uomini e donne, può essere compiuto da qualsiasi soggetto destinatario di doveri e/o obblighi penalmente sanzionati. Di fatto, però, nella quasi totalità dei casi, la vittima è una donna e il persecutore è un uomo, per lo più ex coniuge, ex fidanzato, ex partner o, comunque, soggetto conosciuto dalla vittima.

Secondo dati diffusi dall’Istat in occasione della recente “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”, in Italia il 16,1% delle donne ha subìto atti persecutori almeno una volta nella propria vita, per un totale di circa 3 milioni 466 mila. Solo nell’anno 2014 le vittime da parte di ex partner sono state 147 mila. La fascia d’età più colpita è quella tra i 25 e i 34 anni.

Un’indagine campionaria, basata sui fascicoli dei procedimenti definiti con sentenza di primo grado e svolta nel 2014 dal Ministero della Giustizia, ci dice che il 91,1% dei reati di atti persecutori è commesso da maschi, che l’età media dell’autore è di 42 anni contro i 38 della vittima e che quasi un terzo dei persecutori è disoccupato o con lavoro saltuario. Nel 33,2% dei casi, inoltre, vittima e autore hanno figli in comune e il movente più ricorrente che spinge il persecutore alla condotta contestata è quello di “ricomporre il rapporto” (30,4%), seguito dalla “gelosia” (11,1%) e dalla “ossessione sessuale o psicologica” (3,3%).

Nella relazione “preda”/“predatore” il copione è per lo più il medesimo: il soggetto assillante comincia a perseguitare quello che per lui è un oggetto ossessivo di desiderio, insinuandosi – con telefonate, lettere, sms, e-mail, facebook, o altri mezzi – ripetutamente nella vita privata della preda/vittima. Per lui la vittima non è un soggetto dotato di inalienabile dignità, ma un “oggetto” sul quale concentrare la propria attenzione. Recenti tragici episodi confermano la tendenza alla escalation degli atti persecutori: si parte da episodi piuttosto innocui ancorché fastidiosi per giungere a episodi pericolosi che possono sfociare in atti di vera e propria violenza o addirittura in brutali omicidi (femminicidi).

Analisi del reato

Dalla descrizione del fenomeno e dall’analisi dell’art. 612 bis del codice penale si comprende che il delitto di “atti persecutori” punisce le condotte persecutorie reiterate idonee a turbare le normali abitudini di vita di una persona o a provocare uno stato di ansia e di paura, tale da ingenerare nella vittima un grave disagio psichico o fisico, o a determinare un giustificato timore per l’incolumità propria o quella delle persone care.

Il delitto di “atti persecutori”, dunque, è da ritenersi plurioffensivo: tutela non solo la libertà morale della persona, ma anche la tranquillità e la serenità psicologica della stessa. Tutela altresì la salute psico-fisica della vittima, dal momento che il dettato normativo richiede che, tra le varie ipotesi, la condotta sia realizzata in modo da «cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura».

È punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena, inoltre, è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità, ovvero con armi o da persona che ha alterato intenzionalmente il proprio aspetto esteriore così da essere irriconoscibile o quantomeno difficile a riconoscersi.

Sotto il profilo procedurale, il reato è procedibile a querela della persona offesa. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima

Contestualmente all’introduzione del reato di “atti persecutori”, al fine di assicurare una più adeguata protezione alla vittima, il legislatore ha ravvisato l’opportunità di ampliare lo spettro delle misure cautelari coercitive, inserendo la nuova misura del «divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa» (art. 282-ter c.p.p.).

Quando si procede per il reato di atti persecutori, al persecutore il giudice può vietare ogni forma di contatto con la vittima (non avvicinarsi a luoghi frequentati abitualmente dalla vittima, da prossimi congiunti o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazioni affettive; mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone; non comunicare, attraverso qualsiasi mezzo, con la vittima e/o con le persone di cui sopra).

L’ammonimento del questore

Fino a quando non è proposta querela, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti del persecutore. Il questore, assunte, se necessario, le informazioni del caso, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge.

L’ammonimento del questore ha indubbia efficacia preventiva. Esso è finalizzato sia a contrastare il fenomeno – e, in particolare, a prevenire quell’escalation criminale verso forme più violente di manifestazione del reato che lo caratterizza –, sia ad evitare l’apertura di procedimenti penali nei casi che possono risolversi bonariamente.

La scelta di politica criminale che ha condotto alla previsione del suddetto provvedimento preventivo è profondamente condivisibile. Per contrastare efficacemente questa violazione della dignità umana infatti è necessario far ricorso ai cosiddetti «microsistemi di tutela integrata», ovvero a una normativa che non si limiti all’approccio penalistico, ma preveda disposizione di vario genere in grado di colpire il fenomeno da diverse angolazioni. Il provvedimento di ammonimento orale inoltre, comportando la presenza fisica e il contatto interpersonale tra questore e potenziale aggressore, ha positive conseguenze psicologiche sul soggetto ammonito, il quale potrebbe così essere indotto a smettere di tenere condotte illegali, prima ancora dell’intervento della giustizia penale.

Ovviamente, laddove l’ammonimento del questore non faccia desistere il molestatore dal continuare gli atti persecutori, rimane intatta la volontà della vittima di chiederne la punizione, affrontando il processo penale, magari indesiderato per le implicazioni di ordine personale e psicologico che esso comporta.

Percorso di tutela delle vittime

Utile infine ricordare che la legge di stabilità 2016,[2] richiamandosi anche alle direttive del Parlamento Europeo e alla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica,[3] dispone l’istituzione di un “Percorso di tutela delle vittime di violenza” all’interno delle aziende sanitarie e ospedaliere per la cura e la difesa delle vittime, oltre che di violenza sessuale, anche di atti persecutori.

La legge demanda all’emanazione di linee guida, da parte del Presidente del Consiglio, per la definizione di gruppi multidisciplinari di supporto al percorso, finalizzati a fornire assistenza sanitaria e giudiziaria, anche in racconto con le previsioni del Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale,[4] prevedendo la collaborazione con i centri antiviolenza presenti nei territori nel caso in cui la vittima intenda procedere a denuncia.

 

[1] Cf. art. 612/bis del codice penale.

[2] Legge 28 dicembre 2016 n° 285 (art. 1, comma 790).

[3] Cf. Settimana n. 23 del 9 giugno 2013.

[4] Adottato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 7 luglio 2015.

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