Sull’Amoris lætitia: il discernimento

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In una recente e piacevole conversazione con un amico sulla morale, le nostre posizioni si sono ad un tratto divise. Ho ricevuto, da parte sua, una “critica” franca e benignamente capace di provocarmi: «In te – mi ha detto – il discernimento è una condizione a priori; in me, invece, è un atteggiamento personale che si applica a posteriori». Ovvio il riferimento alla ricezione dell’esortazione post-sinodale di papa Francesco, Amoris lætitia (di seguito AL), che tante polemiche ha suscitato e continua a suscitare in ambienti restii a scorgerne la freschezza evangelica.

La norma e il suo raggio d’azione

È bene chiarirlo sin dal principio: nessuno considera la legge un concetto anacronistico. Liberarsi della normatività sarebbe pure follia. Fino a prova contraria, essa rimane imprescindibile per le società civili e la presenza di una struttura come quella statale non fa che confermarne ulteriormente il bisogno – pur rilevando tutti i limiti connessi.

Un ordine oggettivo delle cose, declinato in valori e norme, consente all’uomo di stabilirsi su un terreno dal quale gli proviene l’identità e la sicurezza. Quel medesimo terreno ha dunque un ruolo informativo, indirizzante (cf. AL 295). Esso dice all’uomo qualcosa in più sulla sua realizzazione e lo spinge ad una continua ricerca, ad un continuo cammino, ad una continua crescita.

La solidità dei pilastri valoriali è poi fondamentale per la convivenza. Siamo così: la relazione è la nostra autentica descrizione fintanto che non possiamo fare a meno di rivolgerla verso tutte le direzioni che conosciamo. Costruiamo relazioni in campo sociale, religioso, naturale, tecnico, giuridico. La legge vive però di un confronto essenziale. Essa è tenuta a muoversi limitatamente ai confini che la coscienza soggettiva gli pone accanto. Tra le due non intercorre l’opposizione assoluta, o esclusiva, ma la complementarità.

L’interfaccia della coscienza è primariamente la legge, come l’interfaccia della legge è primariamente la coscienza. Analizzandone il raggio operativo riconosciamo il carattere non unilaterale della relazione con la legge morale e siamo tenuti a considerare il “tratto ultimo” di ogni agire, cioè il campo soggettivo.

Lo spazio esistente tra i due aspetti in relazione è dunque occupato dal discernimento, dalla ricerca della volontà di Dio nella situazione concreta del soggetto, il quale agendo si pone in un’intenzionalità che a tutti gli effetti può essere definita teologale (cf. G. Piana, Introduzione all’etica cristiana, Queriniana, 132).

Il bene concreto della persona concreta

Si capisce che la riflessione morale – ogni riflessione morale – non può che perpetuare l’invito ad una più attenta affermazione del bene della persona. Questo è il compito della legge. Essa nasce per i motivi che abbiamo visto sopra ma lo fa nell’ottica del conseguimento del bene concreto della persona concreta. Se è vero che la struttura tipica della legge non riesce a contenere tutte le situazioni particolari – e appare pertanto come un insieme ordinato di limiti – lo è altrettanto il fatto che il motivo ispiratore di tale legislazione risiede nelle infinite “possibilità umane” –; si assesta, cioè, nell’ordine della meta da raggiungere.

Il punto nodale di tutta la questione era già chiaro nella mentalità ebraica, la quale considerava l’essere umano un tutt’uno, un essere indivisibile e unitario, per cui qualsiasi altra interpretazione veniva respinta. Nella medesima linea di pensiero, l’etica considera la persona nella sua unità e, proprio grazie al rapporto con la sua storia, la concepisce in via. Chi volesse fare diversamente, abbracciando teorie isolazioniste, vizierebbe basilarmente la riflessione e il “giudizio” morali costruendo un’antropologia che sfrutta categorie prettamente meccaniche.

Il senso etico autentico, invece, «educa la persona ad allargare gli orizzonti, a intuire le implicazioni profonde, a scorgere le possibili interferenze con gli altri, a saper abbracciare i valori superiori inclusi, a guardare nell’insieme dei suoi possibili ambiti» (T. Goffi, Natura e caratteristiche della prassi cristiana, in: T. Goffi – G. Piana, Corso di Morale, 1: Vita nuova in Cristo. Morale fondamentale e generale, Queriniana, 434).

Una siffatta riflessione morale, contornata da una certa e intrinseca “globalità”, presuppone e incoraggia la pienezza dell’umano. Non si ferma, infatti, alla pur importante azione quotidiana o a quella del momento ma, trascendendola, la inserisce nel quadro grande – e sempre primario – della storia personale di salvezza.

L’etica e il discernimento a priori

Lo spazio esistente tra i due aspetti in relazione è occupato dal discernimento. L’ho detto prima e ciò potrebbe far pensare ad una contraddizione tra le premesse e le conclusioni della mia riflessione. In realtà, non è così: mentre non si può non credere nel discernimento a posteriori, ci si dovrebbe domandare se esso sia sufficiente per assicurare «una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano» (cfr. AL 304).

Il discernimento “posteriore” muove i suoi passi nella linea di uno studio etico comprensivo di “tolleranze” e “circostanze attenuanti” – che nessuno vuol cancellare – con cui era possibile compatire le situazioni particolari, sennonché lasciava inalterata la divisione netta tra lo “stato di peccato” e lo “stato di grazia” – dal soggetto di volta in volta inabitato.

Papa Francesco ha dimostrato la continuità esistente con la teologia tomista – opportunamente separata da una «scolastica decadente» – che ben prevedeva l’«indeterminazione» delle «cose particolari» e discettava sulla «verità o norma pratica» ritenuta in campo pratico disuguale «rispetto al particolare» (cf. Summa Theologiae I–II, q. 94, art. 4). Pur non esentando limiti, quella teologia si concedeva di riconoscere abilmente la diversificazione delle situazioni.

Il discernimento non può dunque essere circoscritto e occupare “buchi”. Diverrebbe in tal caso ragione ultima di valutazione. Il papa, del resto, lo ha definito «un elemento chiave» (cf. Avere coraggio e audacia profetica. Dialogo di papa Francesco con i gesuiti riuniti nella 36ª Congregazione Generale, in “La Civiltà Cattolica” 167 (2016) XXII, 420). Un’affermazione non di secondaria importanza. Egli sa che nessuna “tolleranza” potrà mai rispettare la persona integralmente e che una valorizzazione positiva e lucida del bene – anche piccolo –, di cui il soggetto si rende protagonista, è la migliore opportunità che abbiamo per condurlo verso nuovi e maggiori “livelli etici”.

Alla luce di quanto detto fin qui, non stupisce che il bene sia visto nella sua propedeuticità. Dobbiamo considerarlo, cioè, nel suo innegabile carattere accrescitivo. Perché esso non si ferma lì, al mero atto compiuto, espletato in ottemperanza ad una legge, ma semina e cresce con una logica tutta sua, dalla quale e per la quale, nel tempo, germina il Regno.

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