Amoris lætitia: un “evento linguistico”

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È passato un anno dall’8 aprile 2016, giorno in cui AL venne presentata per la prima volta all’attenzione di tutti i suoi potenziali lettori, in una memorabile conferenza stampa tenuta dal cardinale Ch. Schönborn. Fin dalle prime frasi del suo discorso di allora emerse con grande chiarezza uno dei punti caratteristici del documento, forse la sua novità più decisiva: ossia il suo carattere di “evento linguistico”.

Riascoltiamo alcune parole di quella mattina, che sottolineano appunto questo carattere di novità:

«Per me Amoris lætitia è perciò soprattutto, e in primo luogo, un “avvenimento linguistico”, così come lo è già stato l’Evangelii gaudium. Qualcosa è cambiato nel discorso ecclesiale. Questo cambiamento di linguaggio era già percepibile durante il cammino sinodale.

Fra le due sedute sinodali dell’ottobre 2014 e dell’ottobre 2015 si può chiaramente riconoscere come il tono sia divenuto più ricco di stima, come si siano semplicemente accolte le diverse situazioni di vita, senza giudicarle o condannarle subito. In Amoris lætitia questo è divenuto il continuo tono linguistico.

Dietro di ciò non c’è ovviamente solo un’opzione linguistica, bensì un profondo rispetto di fronte ad ogni uomo che non è mai, in primo luogo, un “caso problematico” in una “categoria”, ma una persona inconfondibile, con la sua storia e il suo percorso con e verso Dio.

In Evangelii gaudium papa Francesco diceva che dovremmo toglierci le scarpe davanti al terreno sacro dell’altro (EG 36). Quest’atteggiamento fondamentale attraversa tutta l’esortazione apostolica. Ed esso è anche il motivo più profondo per le altre due parole chiave: discernere e accompagnare. Tali parole non valgono solo per le “cosiddette situazioni irregolari” (papa Francesco sottolinea questo “cosiddette”!), ma valgono per tutti gli uomini, per ogni matrimonio, per ogni famiglia. Tutti, infatti, sono in cammino e tutti hanno bisogno di “discernimento” e di ”accompagnamento”.

La mia grande gioia per questo documento sta nel fatto che esso coerentemente superi l’artificiosa, esteriore, netta divisione fra “regolare” e “irregolare” e ponga tutti sotto l’istanza comune del Vangelo, secondo le parole di San Paolo: “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!”(Rom 11, 32).

Questo continuo principio dell’“inclusione” preoccupa ovviamente alcuni. Non si parla qui in favore del relativismo? Non diventa permessivismo la tanto evocata misericordia? Non esiste più la chiarezza dei limiti che non si devono superare, delle situazioni che oggettivamente vanno definite irregolari, peccaminose? Quest’esortazione non favoreggia un certo lassismo, un “everything goes”? La misericordia propria di Gesù non è invece, spesso, una misericordia severa, esigente?».

Per chiarire ciò: papa Francesco non lascia nessun dubbio sulle sue intenzioni e sul nostro compito:

«Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro” (AL 35)».

Questo carattere sorprendente – che Schönborn correttamente chiama con il termine “avvenimento linguistico” – mette immediatamente in correlazione diretta Amoris lætitia, e tutto il magistero di Francesco, con il Concilio Vaticano II, che un grande storico con J. O’Malley ha definito “evento linguistico”. Il cambiamento di linguaggio del magistero è iniziato più di 50 anni fa e da un anno trova una sua pietra miliare nel documento sulla “gioia dell’amore”.

Cambiare linguaggio non è cosa da poco. Costituisce il passaggio necessario quando ci si accorge che la tradizione ha bisogno di traduzione. Di questo si convinse allora papa Giovanni e il Concilio Vaticano II. Di questo è convinto oggi papa Francesco. Tradurre la tradizione non è però soltanto evento linguistico. Deve farsi anche conversione della sensibilità, riforma delle procedure e aggiornamento delle istituzioni.

Le resistenze, che inevitabilmente si fanno sentire su questi piani “ulteriori”, trovano sul piano “linguistico” la loro origine.

Infatti a partire dall’8 aprile dell’anno scorso abbiamo sentito alcune voci, più o meno isolate, lamentare la “confusione”, la “mancanza di chiarezza”, la “contraddittorietà” del testo di AL. Oppure abbiamo visto i tentativi, a volte goffi e a volte comici, di depurare AL di ogni novità linguistica. Qui, come è evidente, non si concepisce neppure che possa esservi un “evento linguistico” nella storia della Chiesa. Si pensa soltanto che la Chiesa sia padrona di un “linguaggio tecnico” con cui possa direttamente misurare tutto, la famiglia come il ministero, la vita come la morte, gli uomini come le donne.

Il Concilio e papa Francesco – sulle orme della grande tradizione – ci offrono un modello meno violento e meno idealizzato di magistero. Per questo sanno di dover tradurre, necessariamente e provvidenzialmente. E il primo passo è “convertire il linguaggio”. A un anno da quella prima lettura, rileggere AL è salutare e consolante. Abbiamo tra le mani un capolavoro di traduzione della tradizione. Che darà frutti belli e buoni. Dopo un anno ha iniziato a cambiare il linguaggio e a dare il gusto dell’accompagnamento, del discernimento e della integrazione. E ha già prodotto sensibilità nuove e procedure inedite.

Ma sia chiaro: perché queste parole qualificanti di AL possano “entrare a regime” occorrono alla Chiesa quelle virtù che papa Francesco ha indicato in uno dei suoi più bei discorsi recenti – ossia quello al Collegio degli scrittori della Civiltà Cattolica: inquietudine, incompletezza e immaginazione sono le nuove frontiere per una vera comprensione ecclesiale della “gioia dell’amore”. Chi non è inquieto, che si sente completo e chi non ha bisogno di immaginazione, non capisce AL. Anzi la fraintende e resta fermo. Ma il primato della realtà e del tempo sono più forti e più gioiosi.

Pubblicato il 8 aprile 2017 nel blog: Come se non

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