Giovani, il presente e il futuro

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Questo è l’ultimo dei quattro articoli (gli altri sono apparsi su Settimananews il 4 marzo, il 3 aprile e il 20 ottobre 2018) che, in concomitanza con la preparazione/celebrazione del sinodo) il teologo Michele Giulio Masciarelli ha dedicato al pianeta giovani, con un occhio di riguardo alla formazione seminaristica. La sua analisi ha spesso chiamato in causa il ruolo dell’adulto nel suo ruolo di educatore.

I giovani, segni di speranza

Lo sperare del giovane e col giovane. «Primavera. Giovinezza. La metafora è logora, ma che importa!».[1] Il giovane gode e soffre per la sua sovrabbondanza di vita. Egli ha una «vocazione perturbatrice» e una «funzione rianimatrice».[2] Per questa sua vivace presenza critica nei dinamismi di vita si deve essere felici, perché essa serve a creare importanti spinte dentro la successione delle età e nello scrostare forme anchilosate di comportamenti, di visioni della vita e simili. «Quelle forze incontrollabili che, lasciate libere, irrompono in quel periodo della vita, contribuiscono anche – ecco il rovescio! – a fare di questa età la peripezia più disagevole, più pericolosa di tutto il viaggio».[3]

Tuttavia, nonostante questo, è prudenza e sapienza tollerare di buon’anima i tratti antipatici che il giovane mostra col suo fastidioso dissentire, contestare, disturbare la quiete di ambienti senza sussulti. Purtroppo questa tolleranza non sempre c’è. «Per molti la giovinezza amabile – o sopportabile – è quella racchiusa nei reliquiari della memoria. Ma la società si mantiene viva grazie ai regolari scismi che in essa provoca l’arrivo delle nuove generazioni».[4]

Lo sperare col giovane. Quale speranza è possibile condividere col giovane? O anche: quale colore umano e spirituale mostra il giovane quando vive la sua “età della vita”? La giovinezza è l’età della consapevolezza: il giovane si presenta, dunque, come un soggetto umano che ha preso contatto con il proprio io e cerca di averne sempre più padronanza man mano che diventa cosciente delle sue risorse vitali.[5] È l’età bivalente: questa forma di vita, mentre è caratterizzata felicemente dall’esuberante vitalità, conosce anche:

1) la mancanza dell’esperienza: è dunque un’età segnata da una tensione dialettica nel suo vissuto;

2) il difetto della coscienza della durezza con cui la realtà si oppone alla sua volontà di cambiarla; l’incapacità a stabilire la giusta relazione fra giudicare e agire. È l’età aperta all’infinito;

3) la mancanza della pazienza, che è sempre condizione necessaria per portare a termine intraprese e progetti di vita.

In positivo, però, nell’atteggiamento del giovane si colgono anche, per solito:

1) un orientamento all’infinito, caratterizzato dal senso dell’illimitato;

2) la purezza delle intenzioni che s’esprime nel rifiuto del compromesso;

3) la convinzione che, quando le idee sono vere e le convinzioni sono giuste, esse sono capaci di cambiare, in un certo senso, di rifondare la realtà della vita.

Al giovane non serve un’educazione debole. La giovinezza è la cronaca feroce e comica, spietata e beffarda di questa incompatibilità col mondo adulto che gli appare un universo separato, in parte anche ostile, col quale non riesce a collegarsi se non con la fatica di una difficile iniziazione e di una severa responsabilità. Età vitale, la giovinezza, se esprime forza, probabilmente esige anche che gli si risponda con forza educativa. Non è pertanto comprensibile che gli educatori si pongano dinanzi al giovane in una specie di timidezza paralizzante, come se stessero dinanzi a lui con imbarazzo, soprattutto con la paura di dialogare con lui, come se i loro codici linguistici non fossero più utili neppure per una pur minima comunicazione con lui.

Gli educatori giustamente si pongono il problema linguistico per comunicare col giovane, ma talora assumono un atteggiamento assolutorio dinanzi a lui come se non fosse anche suo compito quello d’imparare a comunicare col mondo adulto. Una considerazione più estesa meriterebbe la critica della pretesa giovanilistica di rinunciare a ogni approccio disciplinarmente fermo nei riguardi dei giovani, dimenticando che non si educa blandendo e in modo molliccio, ma anche con l’urto (il noto streben della pedagogia idealistica, specialmente di Fichte).

La giovinezza un’età bella, ma non va mitizzata

Anche la giovinezza nasce da una crisi e ha le sue particolari crisi. Ogni età nasce da una crisi: l’infanzia da quella traumatica del parto e dello svezzamento; l’adolescenza (la più toccata dalla crisi) dall’uscita dal mondo quieto e protetto della fanciullezza; la giovinezza da quella turbinosa e diffusa a metastasi dell’adolescenza; l’adultità da quella della giovinezza, legata all’incontro difficile e deludente con l’esperienza; l’età anziana da quella dovuta al distacco da tutte le età precedenti.

Detto questo, l’età giovanile va letta come un’età intraposta fra due crisi (quella dell’adolescenza e dell’età adulta) che, in qualche modo la stringono a tenaglia. Conviene ricordarlo e tenerlo presente per non costruire un discorso su questa età, trattandola con l’insopportabile approccio retorico che sprizza falsità da ogni sillaba che s’adopera per questi peani inutili, dannosi e non richiesti che, di là della loro consapevolezza più o meno viva, chiedono di fatto d’essere aiutati e non blanditi.

Fra l’altro, poco sapiente è l’assumere la giovinezza come età privilegiata fra le altre, come paradigma scelto, vincente su tutte le altre “età di vita”, che prelude alle scelte da compiere nelle varie incombenze e provviste dentro le società e le comunità. La non saggezza di questa forma di retorica sta nel fatto che non si considerano con realismo le cose proprio perché si è vittime di una mitizzazione che non ha motivo di essere e anche per una cultura dall’occhio stretto e corto che euforizza il discorso sul corpo, specie su quello palestrato o impomatato.

Ma ve l’immaginate musiche solo all’ordine del “veloce, velocissimo”, senza le necessarie “paure”, il “decelerare”, i “piano, pianissimo”? Senza i “lenti” anche i balli ci perderebbero… Potremmo imparare dall’asino, l’animale dei piccoli spazi, dei tempi lenti, del piccolo trotto, del preoccuparsi soprattutto del frammento di tempo che sta vivendo e del breve spazio di terra che sta calpestando. E il prete che c’entra con questo fare asinino? C’entra senz’altro e, forse, abbastanza. Parliamo della pastorale del prete, che non obbedisce al mito olimpico dell’arrivare prima ad ogni costo, che non è ossessionata di cumulare primati, ma fa quello che deve fare in pace, con calma e contemplazione anche semplicemente umana.

I giovani visti da vicino. Nessuna età è fotografabile perché ogni uomo e ogni donna la realizzano in una singolarità che, in fondo, non è mai clonabile e appena appena imitabile. Al seguito di questa considerazione che autorizza a parlarne con tratti rapidi e distanti e con inevitabili limiti. Dunque, il tratteggio è questo.

– Il giovane diventa consapevole delle proprie risorse vitali e le sente come la forza di cui dispone per entrare nel mondo dell’esperienza consapevole. In fondo tale nuova forma di vita conosce l’aspetto positivo della crescita nella personalità e il limite della mancanza di esperienza.

– Egli percepisce una sorta di incondizionatezza: gli pare di poter possedere senza ostacoli il mondo a cui si apre, potendo usare le sue energie che sente smisurate.

– La ricordata mancanza di esperienza si fa sentire in lui come un terreno magmatico sotto i piedi, di mano in mano che avanza nelle plaghe del vissuto.

– Non ha preso ancora coscienza della forza di freno e anche di dura resistenza che l’esperienza oppone ai suoi desideri di iniziative e di realizzazioni, con le prime delusioni che iniziano a cumularsi e a rattristarlo. L’esuberanza della sua fantasia, del suo coraggio e della sua temerarietà comincia ad essere mortificata, mentre l’intero idealismo spontaneo (Guardini) inizia ad essere scosso.

– Comincia per lui il tempo delle scelte, imboccando strade con decisione, dalle quali non sempre riuscirà a tornare indietro, esperimentando successi e fallimenti.

– è attratto dal futuro: è un essere che, più di altri, in genere sente di essere nato e di dover vivere in avanti. Egli vive sapendo di essere in fase di decollo (Guardini), avendo la sensazione di disporre, fra l’altro, di possibilità senza limite.

– Il giovane inizia la sua tipica esperienza etica e, in un certo qual modo, disegna un quadro dei valori decisivi della personalità, che di fatto costruiscono l’uomo morale: amore per la verità, coraggio, onestà, lealtà, senso dell’onore, ricerca della chiarezza e della precisione nel dire e nel fare, intrapresa generosa nelle iniziative che richiedono impegno…

– Ben presto, con l’urto dell’esperienza, si farà convinto che egli non è un solista, ma che fa parte di un coro e che la sua età è dentro una famiglia di età di cui deve tenere conto e constaterà che ci sono anche gli altri, con le loro idee, i loro diritti e desideri, le loro sensibilità e abitudini… Esperimenterà, perciò, ben presto la difficoltà alla convivenza con i pari e soprattutto con i soggetti d’altra età perché non dispone ancora di una virtù essenziale. In lui «manca quell’atteggiamento tanto banale quanto fondamentale per qualsiasi riuscita, che è la pazienza».[6]

Il giovane, soggetto di un’avventura drammatica

Certamente il giovane ha bisogno di vivere il suo incontro-disincontro col mondo adulto. La verità è che «la giovinezza è un’età di regressione. Il mutamento che la caratterizza si effettua in senso inverso rispetto allo stato che lo precede»:[7] in un certo senso – caduto l’approccio magico alla vita – la speranza per lui ha perso le caratteristiche del sogno che spinge oltre le cose che, da piccolo dell’uomo (infanzia, fanciullezza ed anche adolescenza) non coglieva come barriere od ostacoli, ma come piccole pedane di lancio, come soglie di voli in avanti.

Ora egli si trova davanti a una realtà, fatta senza il suo consenso, alla cui costruzione non ha partecipato e che, conseguentemente, sente quasi come un macigno che in parte lo stimola, ma molto lo limita: perciò egli vorrebbe farlo rotolare per qualche pendio scosceso, mentre constata l’impotenza per farlo e ne è oltremodo irritato.

Egli, insomma, vive il dramma dell’ostacolo e della distanza. «Se-pa-ra-zio-ne. Forse abbiamo qui le cinque sillabe chiave. Ora il giovane è separato da tutto ciò che sapeva. La sapeva lunga, ora non sa più nulla. L’età dell’apprendimento inizia attraverso il suo severo disapprendere. […] Sotto certi aspetti, il giovane è più disarmato, più nuovo dei minori di lui, il bambino e l’adolescente, che si erano insediati nella vita come se si trattasse dell’eternità. Lui si sente imbarcato nella storia. […] Un tempo regnava sul territorio. Ora diviene un emigrato simile a tutti gli altri: sovrano senza corona».[8]

È fonte di sicurezza sapere e vedere che tutti o molti ti girino intorno come satelliti intorno al sole; ora egli è una stella confusa fra altre stelle, se davvero e quando si consideri come una stella. Ormai egli non vive disinvoltamente dentro il cerchio di orizzonti sconfinati: gli orizzonti li attinge da lontano, per così dire, e grado a grado, con lo slancio del «desiderio»: egli comincia a vivere l’identità dell’identità dell’homo desiderans, che è insieme bella, fragile e dolorante perché implica sempre una mancanza enorme.[9]

Nel nostro tempo, purtroppo, c’è stata la caduta dell’uomo contemporaneo nelle forre del presentismo. Paolo VI disse una volta che l’uomo, l’uomo moderno soprattutto, è costretto a dichiararsi povero, «un povero dai desideri esasperati, illusi o delusi».[10] Tuttavia l’homo desiderans esiste sempre ed è, di per sé, un produttore di futuro.[11] Consola anche il fatto che il desiderio abbia la stessa struttura della speranza.

Non si aiutano i giovani a sperare praticando il “giovanilismo”

Per queste e altre ragioni sarebbe il caso che si rinunciasse alla retorica del giovanilismo che si manifesta. Assolutamente insopportabile è il mieloso approccio con la mediocre dogmatica de “i giovani sono il futuro” (del mondo, della Chiesa…) o della giovinezza come dell’età più bella della vita… Forse, come ha affermato con durezza lo scrittore e filosofo francese Paul Nizan (1905-1940), non va riconosciuto a nessuno «il diritto di dire che i vent’anni sono la più bella età della vita». Tanto meno, si aiutano i giovani a sperare nella loro età e in vista di quelle che lo aspettano, attribuendo loro altre esclusive, come la pretesa di ritenere, sempre e comunque, che il giovane sia il più adatto a gestire compiti e mansioni nelle comunità, nelle istituzioni.

Non per ogni attività (culturale, spirituale, ecclesiale) il giovane (magari fra le sue doti principali c’è quella di essere palestrato) è il soggetto più adatto. Certamente non merita, solo perché di bassa età, l’esclusiva dell’amore: questa sarebbe pura pretesa, fra l’altro non sempre suffragata dal riscontro dell’esperienza: ama chi ama, ama molto chi ama molto, ama al massimo chi dà la vita per gli altri (cf. Gv 15,13). «Non è certo dell’amore che la giovinezza ha l’esclusiva – scrive con scontato buonsenso Christiane Singer –. Dal concepimento alla morte, l’amore accompagna tutto il viaggio. (E potrebbe essere che le età da noi vissute non siano altre che sue successive mute)».[12]


[1] Ch. Singer, Le età della vita, Servitium Editrice, Sotto il Monte (BG), p. 111.

[2] Ibidem, p. 110.

[3] Ibidem, pp. 111-112.

[4] Ibidem, pp. 109-110.

[5] Questo non significa che il giovane controlli tutto ciò che ha sotto i piedi, di ciò che gli gira intorno, di ciò che gli frulla dentro l’anima e meno ancora dell’aria culturale che respira, ad esempio dell’aria nichilistica che respira. U. Galimberti, nel suo volume L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli, Milano 2007), scruta nelle pieghe più scure dell’anima giovanile, senza perdere di vista i cambiamenti sociali degli ultimi decenni e tenendo sullo sfondo il nichilismo. Dopo aver mostrato la pericolosità di questo “ospite inquietante”, si propone di dischiudere ai giovani la cifra segreta della loro età, per coscientizzarli sull’età che stanno vivendo.

 [6] R. Guardini, Le età della vita, Vita e pensiero, Milano 2011, p. 22.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem, p. 114

[9] Cf. F. Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di àgalma, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2008; U. Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina, Milano 2002; G. Pulli, Sul desiderio, Liguori, Napoli 2003; Fr. Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, Milano 2007; A. Amendola, E. D’Agostino, S. Santonicola (a cura di), Il desiderio preso per la coda. Rappresentazioni, applicazioni, teorie, Plectica, Salerno 2008; M. Recalcati: Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012; La forza del desiderio, Qiqajon, Magnano (BI) 2014.

[10] Discorso all’Udienza del 13 dicembre 1972.

[11] Cf. M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non-luoghi ai non-tempo, Eleuthera, Milano 2009.

[12] Cf. Ch. Singer, Le età della vita, p. 117.

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