Libertà di parola e il mito della sinodalità

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Il paradosso è che si organizzano le «cattedre dei non credenti» e i «cortili dei gentili» per dar voce e ascolto a quanti sono «fuori» e spesso rimane frustrato il desiderio di quelli che stanno “dentro” a dire la loro sulle questioni della pastorale o della liturgia o di altri settori della vita cristiana: dove, quando e chi troverà che lo ascolti con pari spazio e attenzione?

Purtroppo, però, così come risulta gratificante instaurare un dialogo con i «lontani» e spalancare la mente ai punti di vista e alle prospettive di coloro che sono «fuori» (si fa anche la bella figura di chi è «aperto» e missionario…), per chi abbia la presunzione di puntare il dito dall’interno uno spazio non c’è.

Senza timore della libertà

La Chiesa non teme la verità, quale essa sia; la libertà di coscienza è un valore indispensabile («irrinunciabile»?) alla fede; la comunità si arricchisce dei doni di ognuno, esercitati secondo la sua matura responsabilità e la sua «grazia di stato»; in un gruppo di fratelli c’è spazio per tutti, anche per coloro che esercitano il fastidioso diritto alla critica… Purtroppo non è così, o almeno a me non pare proprio.

“La Chiesa, è il sacramento della libertà. Questa espressione tanto densa di significato è incomprensibile per chi concepisce la Chiesa come un’organizzazione vasta, misteriosa, antica, veneranda e potente con una serie quasi interminabile di prescrizioni, cariche ufficiali, competenze, definizioni dottrinali. Invece la Chiesa è il segno sensibile in questo mondo della libertà più essenziale ed efficace, della libertà intesa nel senso più autentico della parola (…). È libertà di pensiero, di espressione e di azione, e costituisce un diritto inalienabile di ogni membro del Corpo Mistico di Cristo, qualunque sia la sua funzione di gerarca o di semplice gregario” [1].

“La Chiesa – notava già Pio XII nel suo discorso ai partecipanti al Congresso internazionale della stampa cattolica (18 febbraio 1950) – è un corpo vivo, e mancherebbe qualcosa alla sua vita se non vi fosse in essa l’opinione pubblica. La colpa di tale mancanza ricadrebbe sui pastori e sui fedeli”[2].

L’impedimento alla libertà di parola deriva da un esercizio burocratico dell’autorità, il cui scopo principale è l’auto-conservazione del sistema. Le minoranze sono ignorate e si trovano spesso totalmente escluse da ogni decisione. “C’è e ci deve essere anche nella Chiesa libertà di parola e che perciò anche chi non può portare altro che la sua opinione del tutto privata e personale, ha il diritto di esprimerla e di essere ascoltato benevolmente”[3].

La “rivoluzione conciliare” – ora “rivoluzione sinodale” – è più un mito che una realtà. La dura realtà è la stabilità della Chiesa come istituzione e il ritorno ad un sistema di governo centralizzato e autoritario, con la complicità di yesman asserviti al sistema. Mentre si diffonde la retorica di una nuova visione della Chiesa come “popolo di Dio”, mancano gli strumenti giuridici e pastorali per realizzare questa visione o per trasformare l’istituzione. Ci si limita a versare vino nuovo in otri vecchi.

Opinione pubblica nella Chiesa

“Nel corso della storia della Chiesa ci furono forme varie e mutevoli secondo le condizioni dei tempi, con cui si esprimeva l’opinione pubblica nella Chiesa. La partecipazione dell’intero popolo fedele alla scelta del vescovo e del resto del clero, all’ammissione al battesimo, alla riconciliazione di un peccatore, la particolare struttura della Chiesa nell’alto medioevo, il diritto di patronato, i diritti dei vescovati, queste e altre consuetudini erano in fondo altrettante forme con cui un’opinione pubblica si assicurava il suo influsso sulla gerarchia. D’altre parte queste forme, avevano la particolarità di essere redatte e ordinate giuridicamente e di costituire una parte del diritto dei laici nella Chiesa.

Queste forme, giuridicamente regolate, erano condizionate dai tempi, e spesso legate ad abusi. Nessuno auspicherà che ritornino così come erano. Tuttavia ci sia concesso di dire che, di fronte a queste antiche forme, le forme giuridiche, con cui oggi l’opinione pubblica nella Chiesa può farsi valere, sono assai scarse nell’odierno diritto canonico, quando non mancano del tutto. Non vogliamo dire che oggi non esista nella Chiesa un’opinione pubblica: sarebbe certo falso il sostenerlo. Ma si può constatare che oggi non esistono nella Chiesa forme giuridicamente assicurate[4] per l’esercizio di quest’opinione pubblica nella Chiesa”[5].

Urge il ritorno ad un maggior equilibrio tra le tre “voci della Chiesa” definite dal card. Newman: quella del governo, quella della teologia e quella dell’esperienza pastorale.

Il timore di derive democratiche, la scarsa lucidità nell’affrontare la questione del potere nella Chiesa, l’arroccamento della canonistica sull’esegesi del Codice di diritto canonico, portavano a non cogliere in forma adeguata l’impulso che dal Vaticano II era venuto per promuovere la partecipazione di tutti all’edificazione e alla missione della Chiesa.

Ovunque si nota un calo di partecipazione alla vita sociale, e la Chiesa non è esente dalle dinamiche in atto nella società in generale; si può anzi constatare che nella Chiesa si può insinuare una forma di ideologia fondata sulla dimensione gerarchica della comunione.

Non si può certamente misconoscere che nella Chiesa il ministero ordinato ha una funzione di guida che si radica in un sacramento. Quando però si pone l’accento su tale radicamento si rischia di dimenticare che lo Spirito suscita molteplici ministeri e dona numerosi carismi anche a coloro che non hanno ricevuto il sacramento dell’ordine. Il bene della Chiesa non è garantito solo dalla gerarchia.

Si ritiene che le decisioni siano compito solo di coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’ordine con il connesso potere di giurisdizione, e si corre il rischio di soffermarsi a bilanciare i diversi gradi di potere da esercitare. Ineludibile la questione del potere, ma soprattutto a causa di una canonistica un po’ ingessata, si rischia di difendere il potere di qualcuno a scapito di quello di altri.

La riflessione teologica che ha messo in evidenza la categoria di comunione (va peraltro ricordato che il termine koinonía significa anche “partecipazione” e non solo “comunione”) ha richiamato la necessità di riconoscere che al principio della Chiesa sta la comunione eucaristica, da pensare come luogo nel quale lo stesso Signore Gesù, mettendosi a servizio dei suoi discepoli, indica cosa significhi e come debba essere esercitato il potere nella Chiesa.

Quel che sembra mancare ancora nelle realtà ecclesiali è una reale prassi di comunicazione. Si rischia di produrre nella comunità dei fedeli una grigia uniformità e la negazione del pluralismo e del confronto. Si può ancora nelle realtà ecclesiali continuare a disconoscere un confronto teorico e decisionale mentre si parla di sinodalità? Urge libertà di parola per tutti, in vista della costruzione di comunità ecclesiali in cui ci sia posto per tutti. Senza la libertà di espressione, è soffocato il pensiero stesso.

Un “problema” su cui, comunque, dibattere è quello dell’opinione pubblica ecclesiale, vero e proprio luogo del confronto comunitario, palestra in cui il dialogo (su cui il papa insisteva nel suo discorso a Firenze) si concretizza nel saper ascoltare e nel saper parlare, per spiegare al meglio la propria visione delle cose ma anche per capire appieno l’altrui posizione e per sperimentare finanche il dissenso[6] non come minaccia ma come risorsa, non come arma ma come strumento di collaborazione. Sarebbe una buona via per puntare all’effettiva sinodalità[7].

Nel corso della storia, la società ha visto regimi repressivi usare i metodi della segretezza e della riduzione al silenzio per controllare il comportamento e addirittura i pensieri delle masse dominate. Dato che la discussine pubblica dei problemi può mettere in questione e sfidare lo status quo e il ruolo del governo al potere, sotto i regimi repressivi il dialogo pubblico è temuto e vietato. “Non così deve essere tra voi”, ammonisce il Maestro.

Il tempio e il faraone

Anche nelle realtà religiose, come in quelle secolari, l’autorità ricorre alla segretezza e al silenzio forzato. Da ogni persona ragionevole è riconosciuta all’autorità ecclesiastica la responsabilità di articolare la verità che lo Spirito di Dio continua a pronunciare nella comunità. Spesso però la maniera in cui viene esercitata questa responsabilità sembra riflettere una visione del mondo che Walter Brueggemann definisce “coscienza regale”[8].

“Coscienza regale” è un termine che Brueggemann usa per descrivere la cultura dominante dei re israeliti, i quali dirigevano il Tempio e i suoi sacerdoti. Controllando l’accesso al Tempio, la monarchia controllava l’accesso a Dio. In questa coscienza o visione del mondo, l’autorità è concepita come investitura divina, non è quindi aperta ad altre visioni del mondo né alla critica nei propri confronti. I fedeli hanno la certezza morale di sapere che la verità è posseduta nella sua interezza e verrà salvaguardata senza ambiguità.

La messa in discussione di una decisione è percepita come un attentato all’autorità. L’imposizione del silenzio diviene un mezzo necessario per gestire opinioni contrastanti o dissenzienti che possono causare confusione e arrecare potenziali minacce all’unità e alla comunione. Si impedisce che vedute o opinioni dissidenti divengano di dominio pubblico, o si proibisce che gli individui parlino pubblicamente. Anche i “luoghi” deputati al dibattito e al confronto diventano “spazi blindati” perché non si tollera il dissenso (nemmeno sui social), ma neppure le domande.

Ultimamente negli ambienti ecclesiali si evoca frequentemente lo spauracchio del chiacchiericcio, dimenticando che esso è generato dal fatto che non si dà la possibilità di esprimere il disaccordo o il dissenso nei luoghi opportuni dove questo deve essere chiaramente manifestato, nei Consigli, negli organismi di comunione. Quando questo non lo si permette, ecco che si sparge malessere tutt’intorno.

La comunione ecclesiale quando è avvolta dal velo opaco del silenzio, fa sentire anonimi, sperduti. Il silenzio priva della possibilità di ascoltare le giustificazioni in merito ad ogni argomentazione di una questione complessa.

Custodire la conoscenza anziché condividerla è un’ingiustizia alla persona, che quindi offende il bene comune e il senso della fraternità. Stendere sempre il velo del segreto su tutto significa avere potere, il potere di limitare o controllare il flusso di informazioni.

Essere trasparenti, rende vulnerabili, ma anche più credibili agli occhi dei propri interlocutori. Qual è il limite della segretezza? Quale quello della trasparenza? Una delle sfide di ogni realtà ecclesiale è tenere insieme apertura e confidenzialità, altrimenti il lessico della comunione, della fraternità, della sinodalità, diventa un mero esercizio di retorica.

Retoriche del silenzio

Nella Pacen in terris (cf. n. 7) si afferma in tutta chiarezza che ogni persona ha il diritto ad esprimere e comunicare la propria opinione. Il silenzio forzato è una strategia inutile allo sviluppo della vita morale, che implica ingiustizia di trattamento verso le persone e che, in ultima istanza, non serve il bene comune.

L’argomentazione primaria per imporre il silenzio è che in tal modo si impedirebbe, tra il popolo di Dio, la confusione provocata da questioni controverse. Un simile modo di ragionare è paternalistico: esso tratta gli adulti come bambini da proteggere. Inibire lo sviluppo morale degli individui rivendicando la certezza è un’ingiustizia alla persona e non può, quindi, contribuire al bene comune.

Porre sotto silenzio le opinioni di un individuo, anche da parte dell’istituzione religiosa cui questi appartenga, è violazione di un diritto umano fondamentale. Questo è in linea con l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che afferma il fondamentale diritto alla parola di ogni essere umano.

Nel 1971 fu prodotto dalla Seconda Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi un documento intitolato La giustizia nel mondo e ratificato da papa Paolo VI. Esso insegna chiaramente che deve esserci libertà di parola all’interno della Chiesa come al di fuori di essa. Vi si afferma che la Chiesa riconosce il diritto di ognuno ad un’appropriata libertà di espressione e di pensiero, e questo include il diritto di ognuno ad essere ascoltato in uno spirito di dialogo che preservi una legittima diversità all’interno della Chiesa (cf. n. 44).

Nessuno deve essere privato dei propri diritti comuni per il fatto di essere associato alla Chiesa in un modo o in un altro. Questo vale anche per coloro che servono la Chiesa col proprio lavoro, inclusi sacerdoti e religiosi[9]. Il documento La giustizia nel mondo non legittima quindi l’obbligo al silenzio come mezzo per controllare opinioni divergenti.

È così messa in discussione l’idea che si sia obbligati, per così dire, a sostenere la linea di partito. Tutto il popolo di Dio ha il diritto di esprimere la propria opinione, in modo che lo Spirito di Dio possa rendersi manifesto attraverso l’intera comunità.

Nella ricerca onesta del vero, la pubblica condivisione di un discorso è necessaria. Non è escludendo il dissenso che si distingueranno meglio le voci più vere, bensì proteggendo le voci più fragili.

Nella Chiesa tutti vanno ascoltati “per sentire cosa sentono, anche gli insulti”. È uno dei passaggi più significativi del lungo e denso discorso che papa Francesco ha rivolto alla diocesi di Roma ricevuta in udienza nell’Aula Paolo VI il 18 settembre 2021.


[1] K. Rahner, Libertà di parola nella chiesa, Borla, Roma 1964, p. 12.

[2] Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità pio XII, IX, Tip. Poliglotta Vaticana, 1955, pp. 363-371.

[3] K. Rahner, Libertà di parola, o. c., pp. 16-17.

[4] Il Codice di Diritto Canonico del 1983 ha introdotto nuovi organismi di partecipazione, ma rimane ancora irrisolta la questione del potere consultivo e non deliberativo.

[5] K. Rahner, Libertà di parola, o. c., pp. 54-55.

[6] Cf. P. Picozza, Consenso-dissenso nella Chiesa, Aracne, Roma 2006.

[7] Cf. G. Cannobio, Libertà di parola e sinodalità, AVE, Roma 2017.

[8] Cf. W. Brueggemann (1978), The Prophetic Imagination, Philadelphia, Fortress Press, 1978.

[9] Cf. Sinodo Generale dei Vescovi, Giustizia nel Mondo, III, 30 novembre 1971.

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3 Commenti

  1. Pompei Arnaldo 31 gennaio 2023
  2. Fabio 26 gennaio 2023
  3. Fabio Cittadini 25 gennaio 2023

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