Sinodo-abusi: ascoltare le voci delle vittime

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Il 9 dicembre 1968, mi sono seduto accanto a mio padre nella sua stanza al Mount Sinai Hospital di New York, lo stesso ospedale dove tanti pazienti con coronavirus sono morti durante la pandemia del Covid-19. Veterano nucleare, 40 anni, con una leucemia acuta, giaceva in una bolla di protezione completa.

Ho potuto toccarlo solamente attraverso un guanto di gomma che si estendeva da una manica di plastica. Ha girato la testa e lottato per sorridermi. I suoi occhi incavati raggiunsero i miei. Come cattolico e chierichetto, mi sentivo come le donne ai piedi della croce. Due ore dopo mio padre morì. Avevo appena compiuto 12 anni e non mi rendevo conto che da lì in avanti mi aspettavano i miei giorni più bui.

La sua morte ha distrutto la nostra famiglia. Mia madre cadde preda del suo alcolismo, e io caddi preda del suo crescente abuso fisico e mentale. Le figure paterne della comunità mi cercarono. Alcune erano ben intenzionate, altre no. A tredici anni sono stato violentato da un insegnante maschio. Seguirono le molestie da parte di un prete cattolico romano.

Questo mi ha portato verso la depressione e la dipendenza, cosa per cui riesco a malapena a trovare le parole. Come ha scritto William Styron, autore di Darkness Visible: A Memoir of Madness: “la depressione è un disturbo dell’umore, così misteriosamente doloroso e sfuggente nel modo in cui diventa noto alla persona – all’intelletto mediatore – da rasentare l’essere al di là di ogni possibile descrizione”.

La Chiesa: luogo di abuso e di guarigione

Anche se non posso descriverla, ho lavorato per superarla. Per me, la Chiesa, che era un luogo del mio abuso, mi ha anche offerto la fede che è diventata la mia àncora di salvezza per tornare in salute. Ci sono voluti decenni. Ma trovo conforto nel riflettere sul mio recupero e nel rendermi conto che la guarigione è possibile per chi ha subìto abusi in mezzo a noi, dentro e fuori la Chiesa. Nella seconda metà della mia vita, la mia prigionia interiore è stata davvero liberata. Per me il perdono calma la tempesta. “E tutto quello che chiedete nella preghiera, lo riceverete, se avete fede” (Mt 21,22). Il tempo richiede tempo.

Ora la Chiesa che amo si trova nel mezzo del cammino del Sinodo sulla sinodalità: un tempo di comunione, partecipazione e missione. Come sopravvissuto, sia ferito che guarito dalla Chiesa, il momento di questa discussione sembra molto giusto. Le discussioni che avvengono ora sono un invito a camminare sulla strada comune gli uni con gli altri per una vera Chiesa sinodale, una Chiesa che promuove la vicinanza tangibile dell’accompagnamento – quello che guarisce tutte le ferite.

Nell’omelia del 10 ottobre 2021, per l’apertura del cammino sinodale, papa Francesco ci ha invitato ad accompagnarci l’un l’altro nella fede, a incontrare, ascoltare, discernere come ha fatto nostro Signore numerose volte durante e dopo il Calvario. Cosa può significare questo per le vittime costrette alla vergogna dalla Chiesa? Come può l’accompagnamento guarire le ferite, ammorbidire i dolori crudi della disperazione, calmare i venti di ansia e depressione interni, portare luce nell’abisso dell’oscurità?

Come sopravvissuto all’abuso clericale, distrutto per decenni dal clericalismo, reso silenzioso dall’insabbiamento, e che, come innumerevoli altri, ha attraversato la bancarotta spirituale, credo che questo sia davvero un momento storico per la nostra Chiesa. E credo che papa Francesco, un uomo dell’emisfero meridionale che sa cosa significa andare ai margini, sia sulla buona strada. Gli abusati, probabilmente più di qualsiasi altro gruppo nella nostra Chiesa, hanno sofferto un dolore orribile perché abbiamo subìto un torto dalla Chiesa di cui ci siamo fidati e nella quale siamo cresciuti.

La Chiesa che abbiamo conosciuto ci ha ferito oltre misura, generando una sofferenza insondabile di mente, corpo e spirito. Semplicemente non c’era modo di stare nella nostra pelle. Il trauma era il diavolo. Eppure, attraverso il Pane e il Corpo in cui crediamo, questa stessa istituzione può effettivamente essere la soluzione per la guarigione.

Il Sinodo e una camminata all’alba

Credo che il sinodo – la strada comune – sia il processo di rinnovamento di cui c’è bisogno proprio ora, nel primo quarto del XXI secolo, quasi 70 anni dopo il Concilio Vaticano II. Per rinnovare la faccia della terra e immaginare veramente una nuova Chiesa, una Chiesa migliore che ci incoraggi senza mezzi termini a incontrare, ascoltare e fare il vero lavoro di discernimento; credo che quelli di noi che sono stati abusati possano servire come modelli di onestà durante questo processo sinodale.

Immaginate quei fratelli e quelle sorelle dentro e fuori la Chiesa che non hanno mai raccontato la loro storia. Che momento per la Chiesa di ascoltare senza paura, di camminare con loro!

La settimana dopo che papa Francesco ha pronunciato la sua omelia per aprire il sinodo, mi sono seduto nella cattedrale del Sacro Cuore a Newark, e ho ascoltato il card. Joseph Tobin fare la sua omelia per aprire il sinodo nell’arcidiocesi, il viaggio condiviso nella nostra Chiesa locale nei prossimi due anni.

Il cardinale Tobin ha detto: “Il sinodo riconosce che il popolo di Dio, coloro che Dio ha chiamato dalle tenebre alla luce di Dio in virtù del loro battesimo, è chiamato a camminare sulla stessa strada nella giusta direzione. Un sinodo non è chiamato a difendere o a cambiare qualcosa. Piuttosto, convoca un’assemblea che discerne ciò che lo Spirito Santo chiede alla Chiesa in questo momento alla luce della missione per cui esiste: evangelizzare. Il sinodo non è un programma – certamente non è una semplice riunione – ma un processo, o meglio, il programma è quel processo di ascolto, preghiera, discernimento, raccomandazione. Il sinodo è una chiamata all’unità per tutti noi, nei banchi, in questo pulpito, nel santuario. Una chiamata che ci lega tutti a un atto comunitario di obbedienza che è prima di tutto l’ascolto”.

Poco prima di Natale ho avuto tre esperienze uniche del cammino sinodale che hanno parlato di quanto sia cruciale l’ascolto, in particolare per le vittime e i sopravvissuti all’interno della nostra Chiesa.

Durante la riunione della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti a Baltimora, insieme a me – come co-fondatore del “Global Collaborative”, un’organizzazione guidata dai sopravvissuti che promuove la responsabilità, la giustizia e la guarigione per i bambini, i minori e gli adulti vulnerabili abusati e sfruttati sessualmente in ogni nazione -, e a diversi sopravvissuti e altri leader di fede di varie tradizioni, si sono uniti alcuni vescovi presenti alla plenaria per una passeggiata all’alba.

Letteralmente abbiamo camminato a braccetto. Come il card. Sean O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori, ha osservato nella preghiera: “Siamo qui perché il mondo è profondamente infranto dagli abusi; siamo qui per guarire”.

Il gesuita Jerry McGlone, egli stesso un sopravvissuto, e direttore del “Berkley Center” alla Georgetown University, ha detto mentre camminavamo: “Possiamo fare qualcosa in modo pubblico che dia speranza a coloro che non racconteranno mai la loro storia, perché, ricordando, si spera che non ripeteremo mai quello che è successo…. Il corpo di Cristo è profondamente ferito in questi giorni… cosa facciamo con il corpo di Cristo? Lo teniamo, ce ne prendiamo cura. Non dimentichiamo”.

La dottoressa Jennifer Wortham, ricercatrice associata e leader del programma “Human Flourishing” all’Università di Harvard, ha parlato di come i suoi fratelli sono stati abusati dal loro prete amico di famiglia dicendo: “I miei fratelli hanno sperimentato molte prove nel corso della loro vita come risultato degli abusi subiti da bambini, ma credo che la prova più difficile che hanno vissuto sia stata la perdita della loro fede”.

Il card. Tobin, che ha camminato insieme a noi quella mattina a fianco dei suoi fratelli vescovi del New Jersey, ha offerto una preghiera: “Dio, aiutaci a trovare il coraggio di nominare il male in mezzo a noi, per sradicarlo, con il tuo potere”.

Il rabbino Joseph Potasnik, vicepresidente esecutivo del “Board of Rabbis” di New York, ha pregato: “Amici miei, non basta sopravvivere. Vogliamo avere successo”.

Dopo questa camminata all’alba, ho tenuto due conferenze, una in presenza a un gruppo di seminaristi del primo anno nello stesso seminario in cui Theodore McCarrick si aggirava una generazione fa, e la seconda in streaming a un raduno di provinciali gesuiti di tutto il mondo riuniti a Roma.

Ciò che mi ha colpito in entrambe le occasioni in cui ho potuto condividere la mia testimonianza e dare la mia testimonianza come sopravvissuto ad abusi clericali, è che entrambi gli incontri, sorprendentemente, erano simili sotto questo aspetto: molti dei partecipanti non avevano mai avuto l’esperienza di ascoltare un sopravvissuto. Per la maggior parte dei giovani studenti del seminario, solo uno ha alzato la mano quando ho chiesto chi avesse già parlato con una vittima/sopravvissuto. E, tra i religiosi che guidano i loro rispettivi territori per conto della Compagnia di Gesù, quasi un quarto di loro non aveva mai parlato o ascoltato qualcuno abusato sessualmente da un prete o da chiunque altro.

Ascoltare le voci delle vittime

La mia testimonianza è semplicemente questa: ascoltate le voci delle vittime e dei sopravvissuti. Ascoltando, camminiamo tutti insieme; lungo il percorso della vita dobbiamo incoraggiare il perdono ma non l’assoluzione. Come ha scritto l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, recentemente scomparso, in The Book of Forgiving: “Perdonare è come se ti fosse stato tolto un peso e tu fossi libero di lasciare andare il passato e andare avanti nella tua vita. Può non essere trovato in un singolo atto di grazia o in una semplice serie di parole, ma piuttosto in un processo di verità e riconciliazione”.

Mentre siamo in cammino – maltrattati, spezzati, ricchi o poveri, religiosi o laici, giovani e vecchi – realizzeremo più pienamente i frutti di una Chiesa sinodale se ci ascoltiamo a vicenda. Per l’ispirazione, credo che possiamo guardare a Simone di Cirene, che portò la croce di nostro Signore. Se siamo abbastanza coraggiosi e umili da aiutarci a portare le croci gli uni degli altri come veri servitori di Cristo, il nostro Redentore, allora non solo sopravviveremo, ma avremo successo, indipendentemente da qualsiasi ferita che portiamo nel nostro pellegrinaggio comune.

Il cammino sinodale offre una mappa meravigliosa, una chiamata all’azione nella nostra Chiesa – che capita solo una volta nel corso della nostra vita. La Chiesa ha causato un grande dolore. Ma la Chiesa è anche dove troveremo la più grande guarigione.

  • Pubblicato sulla rivista dei gesuiti statunitensi America (nostra traduzione dall’inglese).
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Un commento

  1. Marco Ansalone 29 marzo 2022

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