31 luglio 2016

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Rouen non rappresenta solo un incremento nella disinibizione del fondamentalismo islamico terrorista, ma, spostando le sue azioni da un piano quantificabile a uno squisitamente simbolico, apre anche una pagina del tutto nuova per coloro che ne sono coinvolti e toccati. Questo non vale unicamente per ciò che riguarda il nesso fra islam e terrorismo globalizzato, né per il legame fra religione e violenza in generale (senza dimenticare poi che la violenza s’incesta in ogni figura fondamentale dell’umana coesistenza). L’inedito che ha fatto irruzione nell’ordinaria quotidianità mattutina di una piccola cittadina del Nord-Ovest della Francia va ben oltre questi accomodamenti ai quali ci siamo tranquillamente abituati. Esso va a toccare l’idea stessa, ancora in lenta e incerta gestazione, di come dare forma a una cittadinanza europea che sia sentita effettivamente tale da tutti, da un lato, e la partecipazione alla sua configurazione da parte del cristianesimo contemporaneo (in particolare della Chiesa cattolica), dall’altro. Generando, con il suo semplice accadere, tutta una serie di paradossi sui quali ci dovremmo interrogare con maggiore attenzione, sensibilità e competenza.

Improvvisamente, ciò che la laicità francese tollera al massimo come forma separata, distaccata dal vivere insieme, di una disposizione privata della persona, che non deve avere alcun rilievo nello spazio abitato da tutti, è diventata questione di carattere nazionale. Quanto la Francia moderna si è impegnata a espungere sistematicamente dalle ragioni condivise del proprio essere, si è fatta questione imprescindibile per le sorti della Repubblica stessa. Senza nessuno che avesse le parole per articolare adeguatamente il significato di quanto avvenuto e le ragioni per le quali esso finisce col chiedere una profonda revisione di uno degli assiomi su cui, certo con diverse modulazioni, abbiamo cercato di costruire l’Europa attuale. L’analfabetismo religioso delle élites culturali e della classe politica rischia non solo di produrre risposte inadeguate, ma addirittura di fungere da volano per un’esacerbazione del conflitto. Distinguere lo spazio religioso e quello politico è la dialettica che ha costruito nei secoli l’Europa, inibire al religioso la frequentazione della dimensione pubblica del vivere insieme è ben altra cosa rispetto alla matrice di questa dinamica storica. E oggi vediamo, attoniti e impotenti, come quest’esilio forzato abbia finito col produrre mostri davanti ai quali ci mancano il lessico e gli strumenti per fronteggiarli a dovere. In tutti i territori dell’Europa non si potrà dare risposta adeguata al ridislocamento simbolico di Rouen se non si riconoscerà che l’architettura moderna, con la sua espunzione del religioso dalla socialità umana che tutti condividiamo, non solo non funziona più, ma ha finito con il ritorcersi contro se stessa.

È probabile che quel che resta della cultura e della politica europea non abbiano la forza e le competenze per mettere mano a questa impresa. L’intuizione religiosa lo ha capito immediatamente, e si è rivolta altrove. In questo senso deve essere interpretata, a mio avviso, la scelta di alcuni settori delle comunità islamiche francesi, italiane e britanniche di essere presenti alla celebrazione domenicale dell’eucaristia. Gesto che ha colto perfettamente l’inedita alterazione della questione islamica in Europa che i fatti di Rouen hanno prodotto – magari anche in maniera inconsapevole ai terroristi che ne sono gli operatori. Certo, solidarietà e inequivocabile condanna di una violenza che non ha più misura giustificabile neanche all’interno delle comunità islamiche. Ma il tempo (celebrazione) e la forma (preghiera) scelti spingono ben oltre una generica retorica del riconoscimento e del dialogo. C’è una fetta di islam europeo che ha fatto di una delegittimazione (apparentemente senza via d’uscita) l’occasione per aprire il tavolo di una rinnovata visione condivisa del rilievo pubblico della religione e delle fedi. A livello di intuizione ci troviamo probabilmente davanti a una delle punte più avanzate nel contesto attuale, dentro e fuori le religioni.

Pensare la celebrazione e la preghiera come gesto di alcuni per la reintroduzione della nominazione religiosa di Dio nelle trame del vissuto di molti, senza coartazione né pretesa egemonica, potrebbe contribuire a mettere mano alla pagina non ancora scritta di una presenza a venire delle religioni nell’Europa contemporanea. Questo chiede però, su entrambi i fronti, un profondo ripensamento delle strutture di relazione fra Unione Europea, stati nazionali e comunità religiose. Il gesto di domenica scorsa tende a individuare nella Chiesa cattolica il referente cui si chiede di mettere in moto questo processo di riconfigurazione virtuosa. Quanto essa sia disponibile a ciò, e se abbia le forze per immaginarsi un passaggio della propria storia non come speculare rappresentanza di sé, ma in funzione vicaria per la pluralità, non solo religiosa, delle persuasioni che danno forma a un’adesione a un senso che non si consuma in pragmatiche contingenti di immediato consumo, rimane questione aperta – sulla quale si misurerà la qualità civile del cattolicesimo stesso. Bisognerà insomma vedere se la Chiesa cattolica sarà capace di un’intuizione del medesimo profilo di quella che l’ha convocata al profilo simbolico pubblico della celebrazione eucaristica del 31 luglio 2016. Muoversi secondo le armoniche di questa intuizione potrebbe fare della data di questa domenica estiva uno spartiacque religioso epocale, a favore di tutti. Qualcosa che attendiamo, brancolando tra la retorica e il buio, dall’11 settembre 2001.

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