Sull’aborto farmacologico in Italia

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La pillola abortiva RU486 potrà essere assunta, senza ricovero obbligatorio, fino alla nona settimana di gestazione: è quanto prevedono le nuove linee di indirizzo per l’interruzione volontaria di gravidanza, che saranno emanate dal Ministero della Salute, come annunciato sabato 8 agosto, in un tweet, dal ministro Roberto Speranza. Lo scorso 14 agosto, in una Nota pubblicata sul sito ufficiale, la Pontificia Accademia per la Vita è intervenuta sul tema.

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NOTA
A proposito dell’annuncio di nuove linee guida sull’aborto farmacologico in Italia

Il ministero della Salute italiano ha emanato il 12 agosto 2020 una circolare di aggiornamento delle «Linee di indirizzo sull’interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine». Non saranno certo queste linee guida a cambiare le posizioni che da sempre si confrontano intorno a quella che rimane una delle questioni più dolorosamente laceranti della bioetica. Una differenza che si manifesta anche a proposito di questa legge, che è la normativa in vigore in Italia e con cui tutti dobbiamo misuraci. È dunque proprio per questo che, di fronte alla scelta di modificare le linee guida del 2010, il richiamo alla 194 e al pieno rispetto di quanto in essa previsto può aiutare a chiarire il senso e i possibili rischi di quanto è avvenuto.

La legge 22 maggio 1978, n. 194, si apre con l’impegnativa affermazione che lo Stato, garantendo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, «riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». È in questa prospettiva che, pur ammettendo in certe condizioni l’interruzione volontaria della gravidanza, lo stesso art. 1 prosegue negando che quest’ultima possa essere considerata «un mezzo per il controllo delle nascite». L’art. 2, parlando del ruolo dei consultori familiari, affida ad essi un ruolo ben più ampio di quello dell’informazione per una scelta della quale lo Stato dovrebbe limitarsi a prendere atto, garantendone l’attuazione attraverso la disponibilità degli strumenti più efficaci e sicuri. Spetta ai consultori, infatti, il compito di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» ed è anche a questo obiettivo che va dunque orientata la suddetta informazione su diritti e servizi.

Ecco perché, prima di valutare le novità di queste linee guida, è importante sottolineare ancora una volta come a restare ampiamente disattesa sia rimasta la parte della legge 194 intorno alla quale poteva e potrebbe ancora essere cercata e alimentata un’idea di civiltà condivisa. Parliamo dell’impegno a dare davvero alla donna (e alla coppia) tutto il sostegno possibile per prevenire l’aborto, superando quelle condizioni di disagio, anche economico, che possono rendere l’interruzione della gravidanza un evento più subìto che scelto, in quanto esito di circostanze avverse nelle quali diventa difficile o addirittura insostenibile l’idea di avere un figlio. Sono per molti versi – giova ricordarlo – le circostanze sociali e culturali che hanno spinto anche l’Italia, insieme ad altri paesi e più di altri, verso l’inverno demografico del quale ormai molti cominciano a vedere tutte le conseguenze. Il declino di un’efficace azione dei consultori familiari evidenzia questo disimpegno, che tende in realtà a far gravare in modo sempre più pesante sulle spalle della (sola) donna l’onere di un gesto che lascia profonde tracce nella sua biografia.

Questo è il contesto nel quale considerare le innovazioni introdotte con queste linee guida. La prima è il superamento del vincolo al regime di ricovero ospedaliero (peraltro facilmente aggirabile e sostanzialmente già superato in molti casi) fino alla conclusione del percorso assistenziale: con la somministrazione del farmaco in day hospital, il vero e proprio momento di espulsione del feto può avvenire quando la donna è ritornata a casa. Nel caso che l’intensità del dolore e l’insorgenza di complicazioni, soprattutto dovute a una eccessiva emorragia, lo richiedessero, è disponibile un presidio sanitario dedicato a cui rivolgersi con urgenza. La seconda consiste nel protrarre il termine di utilizzo del farmaco dalla 7ª alla 9ª settimana. L’intervento può quindi svolgersi in una fase più avanzata della gravidanza, quando incertezza e rischio possono risultare maggiori.

Il passo che viene fatto, al di là della valutazione – ovviamente fondamentale – degli aspetti di efficacia e di sicurezza per la donna, sembra andare nella direzione di un più forte confinamento nella sfera privata di un gesto di grande rilevanza emotiva, sociale e morale. È invece fondamentale garantire un’elaborazione più ampia e completa delle intense reazioni emotive scatenate dalla gravidanza, soprattutto al suo inizio.

La particolare delicatezza di questo momento è dovuta alla trasformazione che comporta il divenire madre (e genitori), quando la presenza sorprendente dell’altro mette in questione esattamente gli aspetti più personali: il corpo, lo spazio, il tempo, l’agenda… Il dubbio è “chiaro”: consentire che l’aborto possa avvenire tra le mura domestiche significa allontanarlo ulteriormente, con tutti i problemi dei quali questa decisione si carica, dalla trama delle relazioni sociali e dalla sfera della responsabilità comune, che la legge 194 chiama invece direttamente in causa.

Può essere facile obiettare – e ci sono fondate ragioni per farlo – che gli ospedali non sono necessariamente il luogo migliore per perseguire questo obiettivo di accompagnamento e sostegno e che comunque questa preoccupazione si applica a ciò che precede la decisione di interrompere una gravidanza. Ma proprio per questo occorre non rinunciare alla ricerca di modalità e di strumenti più adeguati per un progetto condiviso: accompagnamento e sostegno alla vita nascente e concepita e alle famiglie restano il banco di prova per una società attenta e sensibile che sappia costruire con sapienza e lungimiranza il proprio futuro.

Città del Vaticano, 14 agosto 2020

  • dal sito della Pontificia Accademia per la Vita
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