Aborto, una risorsa disperata

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La recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, revocando la storica decisione Roe vs. Wade del 1973 che proibiva il veto dell’aborto in tutto il Paese, fino al momento in cui un feto può vivere al di fuori dal grembo materno (tra le 23 e le 24 settimane), lascia in mano a ciascuno Stato degli USA di regolarsi come crede e riapre il dibattito sulla coerenza razionale e morale di quello che è stato definito il “diritto all’aborto”.

Non è una novità che la “sensibilità della destra” preferisca difendere (a volte anche appassionatamente) il diritto alla vita del non nato o del “nascituro” senza voltarsi dall’altra parte, oppure opponendosi frontalmente alle iniziative e alle decisioni che cercano di garantire la possibilità di un’esistenza modestamente dignitosa per i già nati e, in particolare, per i più poveri e bisognosi.

È il caso, ad esempio, delle critiche che, come una specie di eterno “ritornello”, si ascoltano da loro nel Paese Basco sulla Renta de Garantia de Ingresos (RGI) (diritto soggettivo che garantisce alle persone in possesso di determinati requisiti un minimo di reddito per poter viverendtr). Senza negare che questo meccanismo di solidarietà verso i più bisognosi possa essere migliorato e che sia esente da manipolazioni picaresche, è indubbio che alla “sensibilità di destra” non piaccia affatto questa Renta de Garantia de Ingresos né la scelta intesa a garantire un minimo vitale di base a tutte le persone e famiglie che non dispongono di risorse finanziarie sufficienti.

Ecco un esempio in cui la destra, essendo formalmente solidale con i “non nati”, mostra il suo volto non solidale e bellicoso con i vivi.

E non è nemmeno una novità che il comportamento tradizionale della cosiddetta “sensibilità di sinistra”, laica o cattolica, abbia avuto di mira la difesa dei diritti dei più deboli e indifesi. E che lo abbia fatto lottando contro l’“individualismo rapace” che non guarda più alla vita se non alla propria, falsifica la libertà, viola i diritti di chi non ha la forza di difenderli e assolutizza il trionfo del forte sul più debole. In definitiva, privilegiando la solidarietà con i bisognosi rispetto all’assolutizzazione della libertà individuale al di sopra dei diritti dei più deboli.

Ma, come è altrettanto noto, fa parte della tradizione di sinistra nel nostro Paese la difesa – in caso di conflitto – del povero che è vivo e nei riguardi del non nato o “nascituro”: tra le due vite, opta per la prima a scapito della seconda.

Al feto, che è il più debole, il meno visibile e il più indifeso a livello umano, non si riconosce il diritto di nascere, che è il primo diritto umano. È una decisione che deriva dal mettere al primo posto la qualità della vita di chi è già persona viva rispetto al diritto alla vita del non nato o del “nascituro”.

Non mancano coloro che – di fronte al cambiamento della “sensibilità delle sinistre” – giungono a sostenere che questa scelta di libertà di chi è nato a scapito della solidarietà con il “non nato” è una variante – debitamente aggiornata – del “darwinismo sociale” (“il pesce grande mangia il più piccolo”), che è stato patrimonio esclusivo della destra più rancida e bellicosa.

Secondo questa osservazione, ci incontriamo con una sinistra contaminata – soprattutto nella sua versione più radicale – da questo assioma della destra quando difende, per esempio, “il diritto all’aborto”. Quando ciò succede – ricordano questi critici –, la suddetta sinistra è contaminata dall’immoralità “predatoria”, retaggio tradizionale della destra.

Viste queste incongruenze, alla “sensibilità di sinistra”, non resta altro che promuovere un’autocritica e focalizzare il discorso non tanto nel benedire la mentalità o la “ragione abortista”, ma nel riconoscere l’esistenza di situazioni limite e conflitti di diritti in cui è impossibile applicare deduttivamente le norme morali: rimane, forse, solo di accettare il male minore, come si costata nei casi di pericolo per la vita della madre, malformazione del feto e gravidanza per stupro.

Inteso in questo modo, l’aborto non è più un diritto, ma un ricorso disperato di fronte all’istinto di sopravvivenza. In definitiva, il male minore che, in nome della solidarietà, del rispetto e dell’accompagnamento di chi vive situazioni così drammatiche, sta al di sopra di ogni imposizione estrinseca.

Credo che i rigoristi che brulicano intorno alla “sensibilità di destra” non abbiano altra scelta che riconoscere che, ragionando e procedendo in questo modo, non propugnano l’aborto moralistico, ma accettano piuttosto che si tratta di una situazione limite che, appunto perché tale, non può essere universalizzata.

E mi permetto di dire che non sarebbe sbagliato se, di fronte alla legislazione civile sull’aborto, alcuni di questi gruppi, e altri legittimamente preoccupati, considerassero la possibilità di creare qualcosa come dei “fondamenti per la vita umana a cui è negato il diritto alla vita”, tenendo presente che il diritto alla vita non riguarda esclusivamente il grembo delle donne (e più ancora se sono povere), ma anche, e soprattutto, le tasche e i conti correnti dei ricchi.

Se procedessero così, la loro denuncia (spesso sterile e sfumata) finirebbe per avere un’indubbia forza morale e una maggiore accoglienza sociale.

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3 Commenti

  1. Pietro 14 luglio 2022
    • anima errante 15 luglio 2022
      • Pietro 15 luglio 2022

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