Carcere: scatti e riscatti

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Il carcere è tante sbarre, inferriate e cancelli.  Ma anche luoghi di lavoro e di preghiera di fedi diverse; biblioteche e interni con semplici sedie per incontri molto attesi.

La visita alla mostra dal titolo dantesco “Per me si va tra la perduta gente” al Padiglione di Arte Contemporanea (PAC) di Milano inquieta e conforta al tempo stesso (qui).

Sulle pareti delle sale dello spazio disegnato da Ignazio Gardella nel 1948, a fianco della settecentesca Villa Reale e dei suoi giardini, sono appese molte fotografie che parlano di carceri e di suoi abitanti. L’inquietudine serpeggia in ogni scatto dove sono evocate reclusioni, solitudini, quotidianità fatta di cibi e bevande da preparare in strette stanze con letti singoli; ampi corridoi e cortili esterni disadorni e muri spesso scrostati.

Tante sbarre, inferriate e cancelli.  Ma anche luoghi di lavoro e di preghiera di fedi diverse; biblioteche e interni con semplici sedie per incontri molto attesi. I volti in gran parte nascosti; alcuni però identificabili per coraggiosa scelta. Su tutti si leggono segni di evidenti fatiche.

Ri-scatti

Il conforto sta nelle fotografie più luminose che dicono aperture, sguardi ironici e persino sorridenti. Confortano anche le numerose presenze che hanno fatto e fanno da contorno a questi scatti tutti eseguiti da detenute, detenuti e personale della polizia penitenziaria di quattro carceri dell’area milanese: Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria.

Accanto a loro, per un anno intero, si è prodigato un fotografo professionista capace di guidare (non solo tecnologicamente) inquadrature e visioni abitate da emozioni sofferte, lacrime e speranze. Alle spalle troviamo la collaborazione dell’associazione di volontariato Ri-Scatti (qui) che dal 2013, ha al suo attivo altre mostre fotografiche volte a promuovere l’integrazione sociale e dare opportunità di riscatto a chi soffre.

E poi il Politecnico di Milano che dal 2014 dedica un percorso di ricerca (“Laboratorio Carcere”) per favorire un dialogo tra “dentro” e fuori” con interventi concreti e calibrati negli stessi istituti penitenziari. Soprattutto piace vedere la nutrita presenza giovanile nelle sale del PAC. Certamente la gratuità della mostra favorisce gli ingressi, ma l’attenzione notata davanti a queste immagini tradisce altre intenzioni.

La percezione dei giovani

I più giovani sanno intercettare quel che la dimensione del carcere rivela. La libertà repressa, la temporalità dilatata quasi all’infinito, la solitudine, l’abbandono e l’inevitabile rimbalzo di domande su ciò che è stato e su ciò che “ne sarà di me”: vissuti e che ragazzi “liberi” conoscono a modo loro e a cui più volte pensano. Soprattutto se stimolati da insegnanti e educatori.

Così, infatti, è stato in un percorso svolto nel 2019 con un gruppo di circa 20 studenti e studentesse liceali invitati a riflettere sulla Giustizia Riparativa. Durante alcuni mesi dell’anno scolastico si sono favorite occasioni per ascoltare testimonianze, visionare film e leggere articoli su cui discutere in classe, tra amici e forse anche in famiglia. Il tema del carcere è rimbalzato più volte.

Nel film Le cattedrali della cultura (2015) il brano dedicato al norvegese carcere di Halden (la regia è di Michael Madsen) presenta una struttura penitenziale modello. Curata in più aspetti strutturali e logistici, tanto confortevole negli arredi quanto severa nei confronti di chi non si piega alle regole di quella convivenza. Gli studenti e le studentesse hanno spesso discusso sulla legittimità di un intervento così costoso per lo Stato e le espressioni più dure (“devono marcire in cella e non vivere come in un hotel”) si sono associate ad altre che ricordavano la necessità della rieducazione di chi ha commesso anche i peggiori reati.

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L’ascolto di un ex brigatista che raccontava la sua reclusione durata un quarto di secolo è avvenuto in un silenzio che in genere non risuona nelle aule scolastiche durante le lezioni. Il cappellano di una Casa circondariale, sita a pochi chilometri dall’Istituto scolastico, ha lasciato perplessi alcuni che si aspettavano scontate riflessioni sul perdono; soprattutto quando il sacerdote ha raccontato delle minacce più volte subite e dell’incendio doloso arrecato al suo studio.

Una ragazza maggiorenne ha poi chiesto a una volontaria laureanda in giurisprudenza, che aveva raccontato il suo servizio giuridico in carcere, come accedere a quella mansione. E quando una mediatrice ha illustrato un episodio in cui è stato possibile un fecondo incontro tra vittima e colpevole molti sono rimasti basiti.

Un convegno organizzato a fine percorso, un video e un fascicolo per favorire la comunicazione del progetto sono stati solo segni esteriori di ciò che è stato più profondamente inciso in ciascuno.

Rivedere le stelle

“Il carcere è un mondo sconosciuto per chi non ci vive e per chi non lo vive”: così esordisce il curatore della mostra, Diego Sileo, nella brochure che accompagna i visitatori al PAC. Quattro paginette fitte da leggere bene: una confessione accorata di vissuti personali emersi durante la realizzazione del progetto insieme ad alcuni dati e segnalazioni legislative e bibliografiche.

Per il manifesto della mostra è stata scelta l’immagine scattata nel 2022 da Adriano, detenuto a Bollate: un’ampia finestra con le sbarre e, di spalle, un giovane prigioniero che dalla stessa finestra guarda il cortile esterno.

È l’invito ad entrare con lui sia nello spazio abitato al di qua sia nella sua speranza di un’uscita “a riveder le stelle”.

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Un commento

  1. Ilaria 27 ottobre 2022

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