Celibi: il “terzo stato di vita”?

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vita cristiana

La pastorale delle Chiese cristiane ha molto sviluppato la teologia e l’attenzione agli “stati di vita” dei monaci-religiosi-chierici come, più recentemente, della vita matrimoniale. Ma l’impetuosa crescita del numero dei celibi, soprattutto nell’Occidente, rende sempre più opportuna un’attenzione a questo fenomeno sociale: sarà considerato un nuovo “stato di vita” cristiano?

Le esperienze ecclesiali in merito sono scarse e poco numerose le riflessioni. Ma non credo sia occasionale il progressivo emergere del tema nei diversi contesti confessionali. Una pubblicazione della Conferenza episcopale francese, un volume teologico di una episcopaliana americana, un passaggio in un recente e rilevante documento delle Chiese ortodosse “elleniche” possono rappresentare una piccola ma significativa costellazione in merito.

È uscito nel 2017 un numero di Documents Episcopat dal titolo “Celibati, celibatari. Quali prospettive nella Chiesa?” (cf. Settimananews, “Celibi: la galassia silenziosa”). L’anno successivo è stato edito un volume della teologa protestante statunitense Christina S. Hitchcock, La significanza della vita celibe (Baker Academic, 2018). Il 27 marzo scorso è stato reso pubblico un corposo documento delle Chiese ortodosse di ceppo ellenico: Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa (cf. Settimananews, “Insegnamento sociale ortodosso, un testo di riferimento”).

Vescovi cattolici

La pubblicazione francese, che fa capo alla segreteria generale dell’episcopato, parte dalla considerazione fattuale: «È necessario riconoscere che le parole ecclesiali che li concernono sono povere, al limite dell’inesistente, perché costantemente riferite alla preparazione di una vocazione più “positiva”». Eppure il fenomeno anagrafico è imponente. Tolti i preti, le religiose, le unioni di fatto, le unioni libere riconosciute, i divorziati con figli ecc., i celibi in Francia sono circa 6 milioni con una significativa crescita negli ultimi anni. Sono soggetti appetibili per il mercato, ma poco visibili per la Chiesa.

Le attitudini che sembrano connotarli sono: risentimenti dolorosi, bisogno di speranza, ricerca di fecondità. Nei loro confronti si usa a fatica il termine “vocazione”, perché spesso non è una scelta voluta, ma un dato di fatto.

Si sottolineano tuttavia tre risposte che incrociano le loro attese.

La prima è quella di parlare positivamente del corpo, non come nemico da piegare, ma come un dono da sviluppare. Non è necessaria una sistematica relazione sessuale per vivere appieno la propria mascolinità o femminilità. Anche il celibe risponde alla chiamata di tutti i credenti alla santità.

La seconda attitudine da sviluppare è il sentimento di vivere nell’attesa, con una certa difficoltà a prendere in mano la propria vita. Diventa difficile per loro acquistare un appartamento, cambiare lavoro, trasferirsi altrove. Il futuro non è scandito dall’attesa di figli e da una vecchiaia accudita. La prospettiva di un incontro decisivo li espone ad errori e a diventare vittime di un mercato effimero. Essi possono tuttavia mostrare che il presente è comunque prezioso e può essere vissuto in pienezza, anche davanti a Dio.

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Un terzo atteggiamento è la ricerca di fecondità. In assenza di figli, diventa grande la tentazione di sostituire il preteso fallimento affettivo con il successo professionale, che non sarà comunque mai sufficiente per dare completezza a una persona. Va rimarcato, tuttavia, che il dono di sé vale per il matrimonio, per la consacrazione e per il celibe allo stesso titolo e che la fecondità non si misura soltanto con il numero di figli. È piuttosto una disponibilità interiore e un gesto di obbedienza a Dio. Più che sviluppare una specifica pastorale per loro, vanno riconosciuti i loro doni e carismi dentro il vissuto della vita ecclesiale.

Una teologa protestante

La teologa protestante americana, Christina S. Hitchcock ha dedicato uno studio alla vita dei”singoli” (The significance of singleness). Così lo presenta sr. Elsa Antoniazzi su Testimoni (n. 5, 2019): «È interessante come la teologa episcopaliana, nell’intento di dare spazio alla “singleness” nella sua Chiesa, presenti la martire Perpetua come testimone di una vita cristiana in cui è il battesimo a connotare la persona, prima del ruolo di madre, di figlia… Se il modello di riferimento è il battezzato, allora la persona single è un fedele chiamato a dedizioni diverse da quella di un coniuge, di un genitore o di un consacrato.

Solo all’interno di questo orizzonte possono prendere valore alcuni inviti all’impegno per il Vangelo, perché non si tratta di riempire con gesti buoni (la vita) quanto piuttosto di cogliere quelle chiamate che via via il Signore fa, senza per questo pretendere di soffocare la speranza di essere marito/moglie, padre/madre, e d’altra parte senza farsi “agire”, come direbbe la psicologia. Porre al centro il battesimo definisce anche il volto della comunità. Essa si comprenderà come comunità cristiana chiamata a coltivare il proprio rapporto con Dio, di ciascuno e della comunità tutta, come fonte prima e unica del proprio essere. Il libro… rilegge figure di donne del primo cristianesimo proprio a sostegno della possibilità di una single dedicata. Per esempio, è interessante la citazione di Macrina, per indicare quelle vie di “maternità spirituale” e anche di amicizia, che nella nostra Chiesa sono di solito riferite alla vita consacrata. Il fatto che le Chiese dell’ambito protestante non conoscano, se non raramente, forme di consacrazione (favorisce l’intento dell’autrice) a indagare maggiormente il significato antropologico di stili di presenza nella comunità cristiana.

Recuperare la dimensione antropologica di parole come maternità/paternità spirituale e amicizia evita il rischio che una pastorale dedicata ai single dia vita a una “riserva indiana”. E sollecita invece a riscoprire la ricchezza e significatività per ciascuno del proprio battesimo. E così farà trovare parole per le persone che vivono sole. Esse saranno sostenute nel coltivare atteggiamenti che sono nelle potenzialità dell’umano, e non a viverli come ripiego».

In un documento ortodosso

Il testo Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa è il più significativo tentativo delle Chiese di tradizione “ellenica” per un insegnamento sociale. All’interno di questo intento di fondo emerge in maniera sorprendente anche la consapevolezza specifica per una vita celibe.

Al n. 20 si dice: «Quando un cristiano ortodosso entra nell’età adulta, inizierà a seguire una delle tre strade possibili: la vita coniugale, la vita monastica o la vita da celibe. Sebbene i tre percorsi possano differire nell’espressione, condividono in sostanza la chiamata cristiana, come accettazione radicale dell’amore e della condivisione. Tradizionalmente l’ortodossia tendeva a riconoscere solo due stati, quello monastico e quello del matrimonio, ma sarebbe una profonda inadempienza della responsabilità pastorale della Chiesa il non riconoscere che, mentre la vita da celibe era assai rara nelle generazioni precedenti, cambiamenti culturali e sociali nell’era moderna l’hanno ora resa considerevolmente più comune».

E al n. 28 si spiega: «Un terzo cammino di vita, quello dell’adulto che non si sposa né diventa monaco, è talvolta un percorso scelto consapevolmente, preso per una serie di motivi particolari per l’individuo, ma altre volte è una questione di mera circostanza. Alcune persone non sono chiamate alla vita monastica, ma neppure in grado o propense a trovare un coniuge. Queste persone, tuttavia, fanno comunque parte di tutta la famiglia del corpo di Cristo e sono in grado di contribuire alla santificazione del mondo. Infatti essi spesso possiedono doni speciali di discernimento, disciplina personale e intuizione spirituale, che le persone assorbite negli affari quotidiani della vita familiare non possono facilmente coltivare.

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In ogni caso, tutti i laici celibi sono chiamati alla stessa vita di carità e godono della stessa dignità di figli amati da Dio. La Chiesa deve tuttavia riconoscere quanto spesso si rivelerà difficile un tale vocazione. La persona sposata può fare affidamento sul suo coniuge, il monaco sui suoi confratelli. Il laico celibe spesso non dispone di qualcun altro su cui fare affidamento in situazioni simili e dello stesso grado. La vera amicizia è fonte di conforto spirituale e di forza in molte vite di celibi, ma non è necessariamente sufficiente ad alleviare la solitudine di coloro che percorrono questo particolare cammino. Su questo punto, la tradizione ortodossa fornisce risorse pastorali un po’ scarse; ma, dal momento che il numero dei laici celibi continua a crescere, la Chiesa deve cercare di sviluppare pratiche pastorali adeguate alle loro esigenze».

Parole antiche per nuove realtà?

Nella storia della Chiesa, quella cattolica in particolare, la questione sugli “stati di vita” è di lunga data. Limitandosi al contesto post-tridentino, è stato universalmente riconosciuto un triplice stato di vita: quello dei chierici, dei religiosi e religiose (monaci e monache) e quello dei laici.

Se il primo e il terzo vengono facilmente identificati dal ruolo ecclesiale e dal celibato o dal matrimonio, il secondo, quello dei religiosi è connotato dalla dicitura «stato di perfezione». Così ne parla Pio XII in Provida mater ecclesia nel 1947: «Lo stato pubblico di perfezione fu riconosciuto come uno dei tre principali stati ecclesiastici, e da esso unicamente la Chiesa ricavò il secondo ordine e grado delle persone canoniche. Ed è certamente degno di attenta considerazione il fatto che, mentre gli altri due ordini di persone canoniche, cioè quella dei chierici e dei laici, per diritto divino, a cui si aggiunge anche l’istituzione ecclesiastica, hanno origine dalla Chiesa in quanto è società costituita e ordinata gerarchicamente; questa classe dei religiosi, che è intermedia tra i chierici e i laici, e che può essere comune ad ambedue, chierici e laici, desume la sua ragione di essere invece unicamente per la sua stretta e speciale relazione che ha col fine della Chiesa, cioè con la santificazione, da perseguirsi efficacemente e con mezzi adeguati» (EVC, 2033).

E, nel 1952, lo stesso pontefice chiarisce: «Lo stato di perfezione, così chiamato ed è tale, perché, per mezzo dei consigli evangelici allontana i principali ostacoli allo sforzo verso la santità personale, o, per parlare con più esattezza, è, di sua natura, atto a tenerli lontani» (EVC, 2686).

L’emergere della consapevolezza della chiamata universale alla santità e alla perfezione, all’interno della priorità del popolo di Dio su tutte le possibili distinzioni e servizi, già visibile in Pio XII e poi affermata a chiare lettere nella Lumen gentium del Vaticano II, ha ridisegnato il «secondo stato».

La vita consacrata, segnata dalla consacrazione e dal carisma, è più uno stile che uno stato. «Un simile stato, se si tiene conto della divina e gerarchica costituzione della Chiesa, non è un intermediario tra la condizione dei chierici e quella dei laici, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da Dio a godere di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la missione salvifica di essa» (LG, EV 403).

Il termine stesso di “stato di vita” si è via via consunto a vantaggio della “sequela” cristiana. Può forse riapparire ora nel suo senso unicamente strumentale per indicare una nascente identità cristiana, quella appunto dei celibi. Sulla base della comune dignità battesimale e della universale chiamata alla santità.

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