Comunicare nella scomparsa dei media

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Viganò, Connessi e solitari«Oggi tutti guardano la televisione o utilizzano internet, non per disporre di qualche informazione in più, ma semplicemente perché sono al “mondo”, che in televisione, e sempre di più in internet, ha la sua più estesa e completa descrizione. Religione, politica, mercato, guerra, gioia, dolore, morte sono descritti lì, e da lì ognuno apprende come si prega, come si governa, come si vende, come si compra, come si lotta, come si gode, come si soffre, come si muore, allo stesso modo di come un tempo queste cose si apprendevano dal mondo in cui si viveva».[1]

Umberto Galimberti offre un originale punto di vista sull’oggetto della nostra riflessione, sottolineando come le relazioni umane siano radicalmente mutate con l’uso della rete, dei social media e, forse, chiedendoci nuove modalità attuative, linguaggi originali e inedite tecniche narrative.

Infatti, da una parte siamo consapevoli di avere a disposizione sconfinati territori informativi e relazionali, quasi che il mondo sia sempre in diretta per noi; dall’altra sperimentiamo il graduale affievolirsi della conversazione faccia a faccia, a favore di una comunicazione che ci consente di evitare la vicinanza, l’espressione, lo sguardo, il respiro, le reazioni, le emozioni, il volto dei nostri interlocutori.[2]

Non a caso

«parliamo tutto il tempo. Mandiamo messaggi, scriviamo mail e trascorriamo ore in chat. Forse cominciamo perfino a sentirci più a nostro agio nel mondo dei nostri schermi. […] Non abbiamo neppure troppa difficoltà ad ammettere che preferiamo mandare un sms o una mail piuttosto che impegnarci in un incontro faccia a faccia o in una telefonata. Questa nuova vita mediata dalla tecnologia ha finito per metterci nei guai. Tra le cose che facciamo, la conversazione vis-à-vis è quella più umana e che ci rende più umani. […] In questi ultimi tempi, tuttavia, troviamo il modo di eludere la conversazione, nascondendoci l’uno all’altro pur essendo costantemente connessi».[3]

Papa Francesco ricorda che scivolare in un isolamento sociale, privilegiando solo relazioni virtuali attraverso i media, impoverisce ed espone a una «orfanezza spirituale».

«Un tale atteggiamento di orfanezza spirituale è un cancro che silenziosamente logora e degrada l’anima. E così ci degradiamo a poco a poco, dal momento che nessuno ci appartiene e noi non apparteniamo a nessuno […]. La perdita dei legami che ci uniscono, tipica della nostra cultura frammentata e divisa, fa sì che cresca questo senso di orfanezza e perciò di grande vuoto e solitudine. La mancanza di contatto fisico (e non virtuale) va cauterizzando i nostri cuori (cf. Lett. enc. Laudato si’, 49) facendo perdere ad essi la capacità della tenerezza e dello stupore, della pietà e della compassione. L’orfanezza spirituale ci fa perdere la memoria di quello che significa essere figli, essere nipoti, essere genitori, essere nonni, essere amici, essere credenti. Ci fa perdere la memoria del valore del gioco, del canto, del riso, del riposo, della gratuità».[4]

I media hanno conquistato la nostra esistenza quotidiana, ne scandiscono i ritmi, ne sono diventati, in qualche misura, l’architettura portante e la categoria ermeneutica: sono i custodi delle chiavi dei nostri spazi e del nostro tempo. La loro presenza, certamente, ci mette a disposizione funzioni e opportunità impensabili fino a pochi anni fa, anche se il prezzo da pagare è una modifica sostanziale dei lineamenti del nostro profilo,[5] un elevato costo in termini di umanità.

Pensiamo a come,

«a partire dagli ultimi anni del Novecento, la tecnologia tende a minimizzare quando non addirittura a nascondere i propri apparati. Eppure, la tecnologia entra in questo periodo in forma capillare nel tessuto delle azioni e delle esperienze degli individui e dei gruppi: essa costituisce tecno-ambienti ibridi e complessi, inventa forme visibili e invisibili di interazione con i soggetti, si installa all’interno delle strutture anatomiche e biologiche dei viventi».[6]

Questi artefatti tecnologici sono una consuetudine (habitus) per la maggior parte di noi, fanno parte del corredo giornaliero, contengono il nostro mondo, i contatti, le amicizie, gli appuntamenti professionali e affettivi, le scadenze burocratiche. Non mancano degenerazioni da cui è bene tenersi al riparo:

«sempre iperconnessi, immaginiamo di essere persone più efficienti, ma si tratta di un inganno. Il multitasking, in realtà, deteriora il nostro rendimento in tutto ciò che facciamo, dandoci però tutto il tempo la sensazione di operare in ogni nostra attività con il massimo dell’efficienza. Per quanto ci faccia sentire bene, riesce in realtà a renderci meno produttivi. Senza dimenticare quanto la tecnologia sia carente dal punto di vista dell’“educazione ai sentimenti”: se reiterato, il multitasking si associa a depressione, ansia sociale e difficoltà nell’interpretare le emozioni umane».[7]

Oggi viviamo in quella che viene definita

«condizione postmediale, che ha superato l’idea di una presenza dei media in seno alla società liquidando di fatto i media otto-novecenteschi. Tale condizione chiede la messa a punto di idee, concetti e modelli radicalmente nuovi rispetto a quelli che nel passato ci hanno aiutato a fare i conti con i media e a regolare le nostre relazioni (ludiche, critiche, professionali) con essi».[8]

Le caratteristiche dell’epoca postmediale che Eugeni individua sono: la naturalizzazione della tecnologia, la soggettivazione dell’esperienza e, infine, la socializzazione, che «esprime il superamento della distinzione tra individualità del soggetto e convenzioni del suo contesto sociale».[9]

Più radicalmente, se fino a pochi anni fa di riscontrava un certo equilibrio tra la pervasività dei media nella dimensione sociale e la loro individuabilità, oggi «tale equilibrio si è rotto e un’ulteriore spinta verso la pervasività sociale viene pagata con una de-individuazione dei dispositivi. È appunto questo processo di de-individuazione dei dispositivi mediali che definisco “fine dei media”».[10]

In altri termini, oggi non è più possibile «stabilire con chiarezza cosa è “mediale” e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo: siamo piuttosto immersi in sistemi e ambienti di relazioni e di scambi, pronti a usare le differenti risorse che tali ambienti ci mettono a disposizione rispetto agli obiettivi che ci vengono proposti o ci proponiamo […]. I media sono ovunque. Noi stessi siamo media. Ed è per questo che i media non esistono più».[11]

Edoardo ViganòRiprendiamo una parte del saggio di Dario Edoardo Viganò, Connessi e solitari. Di cosa ci priva la vita online, EDB, Bologna 2017. Viganò è Prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, l’organismo da cui dipendono i mezzi di informazione del Vaticano. Ordinario di Teologia della comunicazione alla Pontificia Università Lateranense, insegna Linguaggi e mercati dell’audiovisivo alla Luiss «Guido Carli». Per EDB ha illustrato l’Inter Mirifica per il Commentario ai documenti del Vaticano II (a cura di Serena Noceti e Roberto Repole, 2014) e ha scritto Il brusio del pettegolo. Forme del discredito nella società e nella Chiesa (2016).


[1] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
[2] Cf. S. Turkle, Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other, Basic Books, NewYork 2011 (trad. it. Insieme ma soli: perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Codice, Torino 2012).
[3] S. Turkle, Reclaiming Conversation. The Power of Talk in a Digital Age, Penguin Press, New York 2015 (trad. it. La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, Einaudi, Torino 2016, 7).
[4] Papa Francesco, Omelia alla santa messa nella solennità di Maria ss.ma Madre di Dio, domenica 1 gennaio 2017.
[5] Cf. Viganò, Dizionario della comunicazione.
[6] Eugeni, La condizione postmediale, 45.
[7] Turkle, La conversazione necessaria, 57.
[8] Eugeni, La condizione postmediale, 10.
[9] Ivi, 84.
[10] Ivi, 27.
[11] Ivi, 28.

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