COP24: l’accordo c’è, ma che fatica!

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Alla fine, l’accordo è arrivato, anche se ai tempi supplementari, nonostante molti avessero temuto il contrario. Tanti si erano adoperati perché i rappresentanti degli Stati riuniti a Katowice per il summit “Conferenza delle parti delle Nazioni Unite sul clima” (COP24) – che si è tenuto nella città polacca dal 2 al 15 dicembre – potessero trovare una condivisione di massima per continuare sulla strada dell’attuazione di quanto era stato deciso a Parigi a dicembre 2015 (COP21).

In testa il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, che nel corso della seconda settimana di negoziati alla Conferenza, aveva usato parole durissime contro le nazioni che, di fatto, stavano bloccando le trattative di COP24: «Nella mia dichiarazione preliminare a questa Conferenza, avevo avvertito che i cambiamenti climatici avanzano più velocemente di noi. E che la COP24 di Katowice, per questo, avrebbe dovuto raggiungere il successo. Eppure, i problemi politici principali restano ancora irrisolti. Pur riconoscendo la complessità del nostro lavoro, la realtà è che non abbiamo più tempo da perdere».

Il riferimento era all’intransigenza di alcuni governi “forti” che avevano dichiarato di non accettare quanto contenuto nel Rapporto Speciale n. 15 dell’IPCC, l’agenzia intergovernativa delle Nazioni Unite che raccoglie i dati provenienti dai maggiori centri di ricerca mondiali sull’atmosfera e il clima e che, nell’ultimo Rapporto, pubblicato nello scorso mese di ottobre, aveva illustrato i modelli nell’eventualità di un aumento di temperatura media globale del pianeta terra di 1,5°C entro la fine del secolo.

Intransigenti dichiarati, il che equivale a “negazionisti”, sono – guarda caso – i Paesi che hanno enormi interessi nel campo dei combustibili fossili – tra i maggiori responsabili dell’aumento dei gas serra nell’atmosfera – e i cui governi non intendono affatto arretrare di fronte a quanto promesso alla loro base: Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait hanno remato contro da mesi per vanificare gli Accordi di Parigi (non è un mistero il dietrofront del presidente Trump, che ha ritirato la firma apposta con tanta convinzione nel 2015 dal vicepresidente americano Kerry, presente a Parigi con la nipotina, in rappresentanza dell’amministrazione di Barak Obama su tutt’altro fronte rispetto a quello attuale).

L’attenzione costante dei cristiani all’insegna del dialogo ecumenico

Tra quanti avevano espresso l’auspicio accorato che si giungesse ad un accordo anche la Santa Sede per voce del Segretario di Stato, il card. Pietro Parolin, presente a Katowice. Come già per la promozione del Global Compact sui migranti al vertice di Marrakech – «un riferimento fondamentale per la comunità internazionale», ha ribadito papa Francesco anche all’Angelus di domenica scorsa –, la Chiesa cattolica segue con un’attenzione particolare gli incontri internazionali dove si gioca il futuro della terra, in nome di quanto scritto dal papa nella sua enciclica sociale «Niente di questo mondo ci risulta indifferente» (LS 3).

«I cambiamenti climatici sono anche una questione morale e non solo tecnica», aveva affermato il card. Segretario di Stato alle battute iniziali di COP24 lo scorso 3 dicembre. Per il Vaticano, il programma della lotta contro il surriscaldamento globale deve avere solide «fondamenta etiche» e realizzare essenzialmente tre scopi: ribadire e rispettare la dignità umana, diminuire ed eliminare la povertà e attenuare i cambiamenti climatici in modo coraggioso e responsabile. «Gli scienziati ci dicono che è ancora possibile “limitare” il riscaldamento globale, ma per farlo sarà necessaria una “chiara, lungimirante e forte volontà politica” di promuovere il più rapidamente possibile il processo di transizione verso un modello di sviluppo libero da tecnologie e comportamenti che influenzano la sovrapproduzione di emissioni di gas serra».

«Per far sì che i problemi del clima diventino etici, è necessario che, oltre agli Stati, anche altri attori offrano un loro contributo», aggiungeva Parolin, che concludeva: «Non abbiamo alternative. Dobbiamo impegnarci per poter lavorare a favore della costruzione di una casa comune». E il cardinale, che parlava a nome di papa Bergoglio, aveva anche illustrato alcuni passi da compiere per realizzare questo lavoro. Nello specifico: la promozione di modelli di consumo e produzione sostenibili; il rafforzamento della prevenzione della speculazione e della corruzione; la piena ed effettiva partecipazione delle popolazioni locali, comprese quelle indigene, ai processi decisionali e di attuazione.

E, in più, sottolineava come imprescindibili l’offerta di più adeguate opportunità di lavoro per tutti, tenendo presenti il rispetto dei diritti umani, la protezione sociale e l’eliminazione della povertà, con particolare attenzione alle persone oggi più vulnerabili nei confronti dei cambiamenti climatici. Una decisa «transizione» dei nostri modelli di società che richiede «formazione, istruzione e solidarietà», diceva il cardinale, auspicando altresì un’azione coraggiosa e rapida all’interno di un contesto all’insegna di etica, equità e giustizia sociale, e decisioni «giuste e lungimiranti», in grado di orientare investimenti finanziari ed economici verso settori che incidano realmente su un migliore futuro dell’intera umanità.

È altamente significativo – ma non certo una novità – che, ancora una volta, le parole della Chiesa cattolica siano andate in parallelo con quelle del mondo ortodosso, in particolare per voce di quello che, a ragione, è definito il “patriarca verde”, vale a dire Bartolomeo I, patriarca ecumenico di Costantinopoli che, l’11 dicembre scorso, aveva indirizzato un Messaggio ai partecipanti al COP24.

«Ci chiediamo quando i leader del nostro mondo si renderanno conto di quanto tempo abbiamo perduto per individuare la nostra risposta alla crisi climatica», ha scritto nel suo Messaggio in Polonia.

Bartolomeo ha ricordato un suo precedente: «alcuni anni fa, abbiamo scritto che si stava raggiungendo un punto di non ritorno. Questa affermazione si è rivelata non essere né un eufemismo né un’esagerazione, perché gli scienziati ci hanno a lungo avvertito che abbiamo raggiunto diversi punti critici; sono piuttosto i governi che sembrano riluttanti a rispondere, preferendo invece ritardare».

Il patriarca di Costantinopoli aveva sottolineato che, come leader religioso, egli va annunciando anche che la grazia di Dio offre perdono e opportunità di riconciliazione, ma avvertiva altresì come la Scrittura ricorda in più sedi che verrà il momento in cui saremo obbligati ad affrontare le conseguenze del nostro azioni oppure omissioni. «Il Vangelo di Matteo descrive il giudizio finale quando non ci verrà chiesto in merito al nostro successo e prosperità, ma della nostra risposta alla sofferenza e alla povertà dei nostri fratelli. In effetti, in una parabola dello stesso Vangelo, il ricco Epulone ignorò il povero Lazzaro e, alla fine, pur supplicando il perdono, gli fu detto che era troppo tardi».

«Il modo in cui noi ci relazioniamo con la natura come Creato riflette direttamente il modo in cui ci relazioniamo con Dio Creatore. Non ci può essere distinzione tra la preoccupazione per il benessere umano, protezione dell’ambiente e cura per la nostra salvezza. Per ripristinare le condizioni del pianeta che abbiamo ricevuto in dono, abbiamo bisogno di una spiritualità che comporti umiltà e rispetto sia per quanto concerne i nostri atteggiamenti che le nostre azioni, ma anche le nostre scelte e i nostri stili di vita. Dovrebbe essere abbondantemente chiaro ormai a tutti che dobbiamo spostare la nostra attenzione lontano da ciò che vogliamo noi, lontano dai nostri interessi, verso ciò di cui il pianeta ha realmente bisogno», ha scritto.

Il Messaggio di Bartolomeo si conclude, fiducioso, con un forte appello all’azione: «Cari amici, dobbiamo ovviamente rimanere ottimisti, confidando nell’amore di Dio e nella risposta dell’umanità. Ma quando capiremo quanto è importante lasciare un’impronta più leggera possibile su questo pianeta per il bene delle generazioni future? La verità è che non possiamo più permetterci di aspettare perché l’indecisione e la mancata azione non sono opzioni. Abbiamo una sola scelta e il momento di scegliere è ora».

Sulla stessa linea anche il comunicato stampa rilasciato a Ginevra dal Consiglio mondiale delle chiese riformate (WCC): «Dio ci vuole amministratori della nostra casa condivisa, l’oikoumene, per tale motivo sollecitiamo a gran voce un’azione decisa al fine di proteggere i più vulnerabili della terra» a riprova che un tema, come quello della responsabilità per il creato, è costantemente all’ordine del giorno del dialogo ecumenico.

Una mediazione faticosa per un accordo che rinvia a future decisioni

COP24 aveva l’obiettivo di fornire alcune linee guida sugli sforzi in atto di riduzione dei gas serra così da monitorare il rispetto degli Accordi di Parigi, ma già sulla Conferenza si stagliava la figura del presidente Trump che, bontà sua, aveva ritirato la firma degli Stati Uniti, nonostante diversi governatori e sindaci di grosse città abbiano contestato apertamente la sua decisione e continuino nella loro azione di rispetto del pianeta, così come milioni di cittadini e famiglie da una parte all’altra della Nazione. Tra questi i cattolici sembrano essere in prima linea.

Nel dicembre 2017, i vescovi avevano parlato di «una decisione profondamente preoccupante» e già nel 2001, in un appello al dialogo e al bene comune, avevano scritto: «Il clima globale per sua natura rappresenta una questione che riguarda l’intero pianeta, riguarda la gestione umana della creazione di Dio e la nostra responsabilità verso coloro che verranno dopo di noi». Forti della pubblicazione della prima enciclica sociale dedicata alla «cura della casa comune» da parte di papa Bergoglio – la Laudato si’ – i cattolici perlopiù non stanno con il governo e, dopo diverse prese di posizione e alcune manifestazioni di piazza, nel giugno scorso è stata la volta di una dichiarazione ufficiale e congiunta che in sintesi recita così: «Da parte nostra, restiamo fedeli agli Accordi di Parigi».

Ammontano a quasi 600 le istituzioni cattoliche del Paese – tra cui intere diocesi, comunità di religiosi e religiose, presidi sanitari, università, parrocchie e scuole – che hanno sottoscritto quella che viene definita la Dichiarazione cattolica sul clima, dove si afferma che l’Accordo di Parigi (COP21) è pienamente valido anche oltreoceano, perché sottoscritto ufficialmente a nome degli Stati Uniti e dove inoltre viene dichiarato solennemente il sostegno a tutte le azioni volte al raggiungimento degli obiettivi fissati nell’accordo stesso.

Motore trainante è il Catholic Climate Covenant (Ccc), organizzazione con sede a Washington DC, che collabora con diciassette istituzioni cattoliche nazionali, e in testa c’è la Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti.

La Dichiarazione si colloca nel contesto di una campagna più ampia dal titolo We Are Still In – Noi siamo ancora dentro (intendendo gli Accordi di Parigi), un movimento variegato che conta già oltre 171 milioni di persone in tutti gli Stati dell’Unione e oltre 2.700 istituzioni: sono sindaci, capi contea, governatori, capi tribù di nativi americani, rettori e docenti e studenti universitari, imprese, gruppi finanziari, comunità religiose e tanti altri che hanno deciso di unire le loro forze per dichiarare pubblicamente che continueranno a sostenere l’azione per il clima e rispettare l’Accordo di Parigi.

Anche tutto questo aleggiava, come testimoniano alcuni partecipanti, nelle riunioni di Katowice e, dopo due settimane di faticose mediazioni – unanime il riconoscimento della capacità di dialogo e di intesa politica da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel – Michal Kurtyka, l’alto funzionario polacco che presiedeva i colloqui di Katowice, poteva annunciare, senza celare affatto il suo entusiasmo, che era stato trovato un accordo finale proprio durante la sessione di chiusura della Conferenza, protrattasi per tale motivo un giorno in più del previsto e si è potuta chiudere pertanto solo sabato 15 dicembre.

I rappresentanti di quasi 200 Paesi concordano su regole universali e trasparenti, se pur minimali, che regoleranno gli sforzi per ridurre le emissioni e tentare di frenare il riscaldamento globale.

Purtroppo, non sono mancati forti disaccordi su altri problemi per cui si rende necessario attendere ancora un anno per contribuire a superare il gap di opinioni sulle migliori soluzioni da adottare, cosa che ha fatto dire ad alcune associazioni ambientaliste in piena frustrazione, come Greenpeace, che si è trattato di un fallimento, ma, oggettivamente, sembra proprio non essere così.

In realtà quanto concordato ai colloqui ONU COP24 sul clima consente ai Paesi di mettere in atto i principi dell’Accordo del clima di Parigi del 2015. «Con questo pacchetto, voi avete fatto mille piccoli passi avanti “insieme”», ha detto Michal Kurtyka a conclusione della Conferenza. Perché è vero che ogni singolo Paese potrà rinvenire nell’accordo qualcosa che si sarebbe potuto migliorare, ma l’importante è che si sia messo in campo ogni sforzo per bilanciare gli interessi di tutti. «Abbiamo tutti qualcosa da guadagnare con questo accordo e soprattutto dovremo essere coraggiosi e guardare al futuro così da compiere ancora un altro passo per il bene dell’intera umanità».

Sabato, Catherine McKenna, ministro canadese per l’ambiente e il cambiamento climatico, ha dichiarato a caldo: «Il multilateralismo lavora in maniera positiva per affrontare un chiaro problema globale come i cambiamenti climatici e questa è la strada giusta: lavorare insieme. Meglio un timido accordo da perfezionare, ma condiviso da tutti, che un ottimo accordo firmato da soli». «Ciò che conta di più è quello che faranno tutti quanti quando, lasciata Katowice, se ne torneranno a casa» aggiungeva Catherine Abreu, direttore esecutivo del gruppo Climate Action Network, peraltro abbastanza critica sulla scarsità di dettagli su come i singoli governi pianificheranno le loro azioni.

Il grosso nodo, per ora irrisolvibile, è la netta presa di distanza dai Paesi negazionisti, tra cui due superpotenze, quali Stati Uniti e Russia, e gli Stati petroliferi del Golfo, come Arabia Saudita e Kuwait: senza di loro, qualunque tentativo di ridurre le emissioni di gas serra rischia di restare a metà.

«L’Arabia Saudita, la Russia, il Kuwait e soprattutto gli Stati Uniti sono nazioni senza scrupoli», ha affermato in una conferenza stampa Mohamed Adow, dell’associazione Christian Aid. Eppure, proprio a Katowice, si è registrata un’inedita “apertura” di un Paese come la Cina, finora restia a qualunque appello. Come dire: non è avvenuta (ma non se lo aspettava nessuno) la “conversione” di Trump e Putin, ma più di 800 milioni di cinesi sono incamminati sulla buona strada, e occorre riconoscere che non è poco, soprattutto se a loro si aggiungono i milioni di cittadini americani e, anche se molti meno, russi che agiscono in direzione opposta ai loro governi nazionali.

Un pianeta ammalato, un’umanità a rischio

Ridurre l’inquinamento atmosferico globale potrebbe salvare un milione di vite all’anno entro il 2050: a dirlo è l’Organizzazione Mondiale della Sanità, spesso additata dai fautori delle teorie del complotto come collusa con le aziende multinazionali dei farmaci. E invece è proprio l’OMS a dirci che non saranno le medicine a salvarci da tutte le malattie indotte dall’atmosfera sempre più irrespirabile.

È solo di fine novembre scorso uno studio pubblicato dal Massachussetts General Hospital dal titolo Il cambiamento climatico, un’emergenza sanitaria, in cui si evidenzia come il Global warming stia diventando fonte di patologie nei confronti di un numero sempre maggiore di cittadini americani. Bambini, anziani, disagiati e poveri sono i più colpiti e molti di più lo saranno nei prossimi anni. Un’affermazione che fa eco a quanto pubblicato recentemente anche da The Lancet, la rivista medica del Regno Unito.

Infatti, se andiamo a guardare all’intero pianeta, le cose diventano ancora più drammatiche: lo scorso anno ammontavano a 157 milioni le persone che sono state colpite da inedite ondate di calore rispetto alla zona di vita, 18 milioni in più rispetto al 2016. E, non è un mistero che l’aumento di temperatura in certe zone del pianeta si associ alla presenza o alla recrudescenza di malattie legate all’ampliamento dell’habitat di alcuni parassiti, vedi i vettori della dengue o il virus Zika.

Il lavoro della rivista inglese, riferito al 2017, calcola oltre 153 miliardi di ore di lavoro perdute nel mondo a causa del caldo e di 16 eventi atmosferici estremi solo negli Stati Uniti tra uragani e incendi boschivi.

Questi eventi hanno prodotto danni superiori a 313 miliardi di dollari (e a questo si devono aggiungere i costi che ancora si stanno calcolando in California a causa dei drammatici incendi del mese scorso e nessuno si nasconde che le sopraggiunte spese finiranno per distogliere i già ridotti stanziamenti a favore della povertà).

Quando gli interessi politici (ed economici) prevalgono sul bene comune

I colloqui in Polonia si sono svolti in un contesto di crescente preoccupazione tra gli scienziati sul fatto che il riscaldamento globale sulla terra stia procedendo più velocemente della risposta dei governi.

Il lavoro pubblicato il mese scorso dall’IPCC (che conferma quanto pubblicato nel The Lancet Countdown on Health and Climate Change), rivela che il riscaldamento globale finirà per peggiorare ulteriormente l’incidenza dei disastri come i micidiali incendi boschivi della California e i potenti uragani che hanno colpito gli Stati Uniti quest’anno, renderà inabitabili diverse città e moltiplicherà il numero di persone che si vedranno costrette a migrare alla ricerca di terre più abitabili.

Il Rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change ha concluso che, mentre è possibile limitare il riscaldamento globale a 1,5°C entro la fine del secolo rispetto ai tempi preindustriali, questo richiederebbe però una drastica revisione dell’economia globale, incluso un coraggioso spostamento dall’uso dei combustibili fossili verso altre forme di ottenimento di energia (in aggiunta all’urgenza di ridurne la richiesta).

Allarmate dal rischio di includere tutto questo nel testo finale, le nazioni esportatrici di petrolio e carbone, quali Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Kuwait, cui si aggiungeva in zona Cesarini anche il Brasile del neopresidente Bolsonaro, hanno bloccato l’approvazione del rapporto dell’IPCC (organizzazione ONU bloccata in un summit ONU!) e ciò ha indotto una levata di scudi da parte dei Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico come le piccole nazioni insulari del Pacifico, i Paesi asiatici e alcuni europei e – com’era prevedibile – da parte di numerosi gruppi ambientalisti.

Il testo finale resta quindi più sul vago e, di fatto, omette il precedente riferimento (COP21) a riduzioni specifiche delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 e si compiace solo di quello che definisce il «completamento nei termini previsti» del Rapporto Speciale dell’IPCC, ma fa cenno alle sue conclusioni.

Un fatto che ha costretto i negoziatori di Katowice ad andare ai tempi supplementari. Un nodo critico erano i termini di un’economia sostenibile dal punto di vista ambientale, un’economia che possa reggersi senza il ricorso ai combustibili fossili: tra i fautori di questa necessaria rivoluzione si è collocata senza discussioni l’intera Unione Europea, mentre l’atteggiamento degli Stati Uniti è stato giudicato «alquanto schizofrenico», per stare alle parole di Elliot Diringer del Center for Climate and Energy Solutions: «Nonostante la decisione del presidente Donald Trump di uscire dall’Accordo sul clima di Parigi e promuovere l’uso del carbone, gli americani hanno lavorato duramente nella stanza dei bottoni per arrivare a forti regole di trasparenza».

«A Katowice, i negoziatori statunitensi hanno svolto un ruolo centrale nei colloqui, contribuendo a mediare un risultato che è fedele alla visione degli Accordi di Parigi nell’ottica di un quadro comune di trasparenza per tutti i Paesi che fornisce anche flessibilità necessaria a coloro che ne hanno bisogno» dichiarava Nathaniel Keohane, esperto in politica climatica, definendo l’accordo «un passo in avanti fondamentale per realizzare gli impegni assunti a Parigi».

Una cosa è certa, però, rispetto al 2015: il panorama politico internazionale è profondamente cambiato, quasi a conferma di quanto va dicendo papa Bergoglio: «non siamo in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca».

Tra i principali risultati ottenuti a Katowice c’è l’accordo su come gli Stati dovrebbero segnalare le loro emissioni di gas serra e informare circa gli sforzi che stanno intraprendendo per ridurli.

I Paesi poveri hanno anche ottenuto garanzie in ordine al necessario sostegno finanziario per ridurre le emissioni (nonostante gli impegni decisi a Copenhagen nel 2009, finora hanno ricevuto meno della metà), adattarsi ai cambiamenti inevitabili come l’innalzamento del livello del mare e pagare i danni purtroppo già subìti.

«La maggior parte del regolamento per gli Accordi di Parigi è a buon punto, e ciò è qualcosa di cui essere grati – ha detto Mohamed Adow, esperto di politica climatica di Christian Aid –, ma il fatto che alcuni Paesi si siano trovati l’un contro l’altro armati fino al traguardo dimostra che alcune Nazioni non si sono rese conto dell’urgente appello del rapporto dell’IPCC sulle terribili conseguenze del riscaldamento globale. Come dire che l’idea che quei Paesi aumentino in futuro i loro sforzi per combattere il riscaldamento globale nel tempo è ancora tutta da dimostrare».

Per modificare la curva delle emissioni, occorre ovviamente il contributo di tutti, come aveva indicato il segretario generale delle Nazioni Unite, ma, alla fine, una decisione sui meccanismi di un sistema di modifica delle emissioni è stata posticipata all’incontro del prossimo anno, in occasione di un vertice delle Nazioni Unite nella sede di New York previsto per il settembre prossimo.

McKenna ha ammesso, nel saluto finale, che non ci fosse altra alternativa, soprattutto nel momento attuale in cui appare chiaro che molti sono «sotto la pressione di un ritrovato nazionalismo», contrario al bene comune internazionale.
«Il mondo è cambiato, il panorama politico è cambiato», ha detto il moderatore di Katowice all’Associated Press. Ma, nonostante tutto, concludeva: «Siamo però stati in grado di fare progressi, di discutere i problemi e di venire alle soluzioni».

La debolezza di casa nostra

In un panorama, se pur debolmente, nel complesso positivo, spicca però l’opaca situazione italiana, dove i cristiani appaiono ancora i meno consapevoli della responsabilità nei confronti del creato, nonostante le Giornate del creato promosse dai nostri vescovi e l’enciclica sociale di papa Francesco.

Pur accomunati dai rigurgiti di nazionalismo che crescono da una parte all’altra dell’Atlantico, restiamo però in testa alla triste classifica dei creduloni a livello europeo: come dire le fake news da noi impazzano alla grande e soprattutto il dato scientifico (cosa incredibile fuori dai nostri confini) viene vanificato dalle parole senza freno (e spesso senza cervello) di chiunque. Non si accetta più un dato di competenza disciplinare: ciascuno è autorizzato a parlare su qualsivoglia argomento: il mio parere vale il tuo, vedi i no-vax e compagnia.

Gli esempi sarebbero parecchi, se la settimana scorsa alcuni studiosi americani hanno scoperto un sito (in italiano, bella figura!) che spiega, con argomentazioni allucinanti, come la terra non sarebbe affatto sferica (schiacciata ai poli e in forma minore all’equatore) come ci hanno spiegato da secoli, bensì piatta! (con tutta evidenza abbiamo lasciato da tempo il prestigio del periodo rinascimentale dei nostri Galileo e Leonardo da Vinci).

Ma, per restare in campo ambientale, un concetto che viene ultimamente ripreso a suon di copia/incolla sui siti italiani, veterocattolici in testa, sarebbe quello secondo il quale gli scienziati che ci avvertono dei danni che abbiamo recato al pianeta, in particolare all’atmosfera, sarebbero affetti da “millenarismo” (!) e quindi ogni impegno per il pianeta sarebbe assolutamente superfluo, a fronte di problemi ben più grossi.

Difficile ipotizzare un’alternativa se non l’impegno di quanti non intendano arretrare dalla promozione di nuove mentalità e comportamenti per rispondere con gratitudine al dono del creato che abbiamo ricevuto (tanti i teologi che si stanno adoperando in questa direzione), ma soprattutto dalla responsabilità che abbiamo nei confronti dei più poveri della terra che implorano il nostro aiuto.

Al microfono della radio francese RFI, il rappresentante della comunità economica del Centrafrica, Honoré Tabuna, diceva: «Il lago Ciad è passato dai 25 mila kmq degli anni ’60 agli attuali 2500: cos’altro deve accadere perché i Paesi occidentali agiscano rapidamente? Quanta sete dovranno ancora patire le nostre popolazioni? Quanti bambini morti dovremo ancora contare?».

Perché è vero: la situazione dei poveri della terra è sempre più drammatica, come testimoniano sul campo, anche i nostri missionari. Forse, almeno a loro si dovrebbe prestar fede.

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