Costruire la vittima

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Santa Giulia

Visitando il Museo della Città di Brescia, la prima opera che si incontra, all’inizio del percorso, è un grande crocifisso collocato sulla parete color grigio bluastro che fronteggia l’ingresso. La croce lignea è scura, tanto da confondersi quasi con lo sfondo, ma il corpo della figura crocifissa spicca per il suo candore marmoreo: i capelli lambiscono morbidamente le spalle, la testa è leggermente piegata verso l’alto, la bocca è socchiusa, come a cercare un dialogo con Dio; nel biancore del marmo risalta il nero dei chiodi conficcati nelle mani aperte e sui piedi sovrapposti.

L’associazione immediata è al crocifisso barocco, che teatralizza il modello iconografico antico del Christus triumphans, fissando l’attimo, denso di pathos, in cui Gesù, ancora vivo sulla croce, affida lo spirito al Padre. Eppure, qualcosa sconcerta. La nudità del corpo crocifisso è coperta non da un perizoma, ma da un ampio panneggio che scende fino ai piedi, nascondendo interamente le gambe; e il panneggio è, in realtà, una veste da donna, con il corsetto che, strappato e ripiegato attorno alla vita, lascia scoperto il seno. Una donna crocifissa. L’impatto è forte. Viene da pensare all’opera trasgressiva di qualche artista contemporaneo. Ma la didascalia riportata sul cartellino esposto a lato dice:

Giovanni Carra
(notizie dal 1619 al 1677)
Santa Giulia crocifissa
marmo di Carrara

Dallo sconcerto muovono due domande. La prima: chi era santa Giulia? La seconda: perché è stata rappresentata così? Partirò dalla seconda domanda, per provare a rispondere alla prima attraverso un esercizio comparativo solo in apparenza extra-vagante.

Dopo Trento: il culto dei santi e la strategia delle immagini

La statua di santa Giulia è esposta nella sala di un edificio nato non come museo, ma come monastero. Edificato in età longobarda e intitolato a San Salvatore, il cenobio nel corso dei secoli fu soggetto a numerosi rifacimenti e ampliamenti; alla fine del Settecento, a seguito delle soppressioni napoleoniche, venne smantellato e riutilizzato come caserma; quindi, dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, fu acquisito dal comune di Brescia per essere adibito a sede museale.

All’interno del perimetro del grande complesso monastico erano presenti diverse chiese. In conformità alle norme architettoniche dettate dal concilio di Trento, alla fine del XVI secolo ne venne progettata una nuova, dedicata a santa Giulia, oggi trasformata in Auditorium.

I lavori di costruzione vennero completati nel 1599 e l’anno successivo, il 17 dicembre 1600, nel corso di una solenne celebrazione, le reliquie della santa furono traslate dalla cripta della basilica di San Salvatore a uno degli altari laterali della nuova chiesa.

L’evento ebbe grande risonanza; papa Clemente VIII, esplicitando anche in questo la ferma opposizione del cattolicesimo alla Riforma protestante, concesse l’indulgenza a chi fosse stato presente alla celebrazione.

La statua di santa Giulia, commissionata alla bottega dei Carra – due generazioni di scultori, il padre Antonio e i due figli Giovanni e Carlo, dominatori del gusto bresciano per tutto il Seicento –, venne collocata nella nuova Chiesa a distanza di vent’anni dalla solenne cerimonia di traslazione delle reliquie.

La scultura veniva a suggellare l’operazione strategica messa in atto con la costruzione della nuova Chiesa: l’adesione ai principi controriformistici assumeva la forma di una risposta in chiave polemica alle posizioni dottrinali e teologiche delle Chiese riformate, che negavano la devozione alle reliquie e alle immagini sacre e consideravano il culto dei santi mera superstizione.

Per comprendere il significato che artista e committenza si proponevano di veicolare attraverso questa rappresentazione scultorea, è indispensabile cercare di immaginare l’opera, oggi del tutto decontestualizzata, all’interno della sua ambientazione originaria.

La statua costituiva l’elemento centrale di un insieme articolato e complesso: era posta al di sopra dell’altare delle reliquie dei santi, all’interno di un’imponente cornice marmorea ai cui lati verticali si trovavano due sculture con le personificazioni di Fede e Carità, mentre dalla cimasa sporgevano dei putti che mostravano gli strumenti del martirio di Cristo.

L’insieme, secondo un gusto tipicamente barocco, si presentava ai fedeli come una vera e propria scena teatrale, animata da una precisa strategia comunicativa, finalizzata a contrastare le idee riformate, soprattutto in relazione al tema della salvezza: identificazione dell’altare non con la mensa dell’agape, ma con la mensa del sacrificio; imitatio Christi conseguita non solo per Fidem, ma anche per Caritatem, ossia attraverso le opere e le azioni; Cristomimesi di Giulia, alter Christus, risolta secondo un’interpretazione vittimale.

Anno Domini 1600

Non è casuale che la traslazione delle reliquie di santa Giulia fosse stata programmata e realizzata nell’anno 1600, l’anno del Giubileo che, chiudendo il tormentato XVI secolo, ferocemente segnato dalla crisi innescata dalla Riforma, doveva manifestare e rendere visibile al mondo intero la vitalità della Chiesa cattolica.

Preceduto dalla decapitazione di Beatrice Cenci nella piazza di Castel Sant’Angelo e marchiato dal rogo del frate domenicano Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, il grande Giubileo del nuovo secolo – il primo del tutto allineato alle direttive del Concilio di Trento –, può essere considerato come un vero e proprio spartiacque nella storia del cattolicesimo.

La macchina organizzativa guidata da Clemente VIII fece di Roma “il teatro religioso del mondo”, riscattandola dall’umiliazione subita con il sacco del 1527 e dall’onta d’essere stata definita Nuova Babilonia.

Le spettacolari coreografie dei cortei papali e nobiliari e delle processioni con vessilli, croci, reliquie e immagini di santi attirarono nell’Urbe una folla innumerevole di pellegrini e turisti, suggestionati dal senso di grandiosità veicolato da queste manifestazioni religiose, nelle quali trovava piena espressione la dimensione sfarzosa e decorativa propria dell’epoca barocca.

Le cerimonie commemorative e le processioni con le reliquie dei martiri innestavano nel tessuto cittadino dei veri e propri spazi di sacralità; il processo di sacralizzazione dell’Urbe contribuiva all’affermazione del potere temporale del pontefice romano e rafforzava le istanze gerarchiche.

Poiché la figura del martire aveva rappresentato il modello ideale del cristiano nella Chiesa delle origini, in età postridentina la devozione martiriale venne ad assumere una piegatura propagandistica: grazie al culto degli antichi martiri, la Chiesa cattolica poteva proporsi come unica e vera Ecclesia universale.

Il Martirologio Romano, messo a punto dal cardinale Cesare Baronio nel 1584 allo scopo di unificare in un unico elenco i vari martirologi esistenti, dimostrava la continuità tra Chiesa cattolica e radici apostoliche; gli studi e le ricerche archeologiche di Antonio Bosio, confluite nell’opera postuma Roma sotterranea, pubblicata nel 1632, riportando alla luce le primitive catacombe, il cui ricordo nei secoli era andato perduto, avvaloravano l’antichità e, quindi, la legittimità del cattolicesimo in funzione antiprotestante.

È proprio in questa prospettiva che trova ragione e si spiega l’enfasi posta dagli artisti del tempo nella rappresentazione dei particolari più atroci e cruenti del supplizio e dell’uccisione dei martiri.

La traslazione delle reliquie della martire Giulia, avvenuta a Brescia sullo scorcio finale dell’anno giubilare 1600, è parte, dunque, di un preciso quadro d’insieme, di cui possiamo intravedere altri dettagli attraverso una vicenda che, con quella di Giulia, intreccia interessanti analogie.

Un’altra statua, un’altra santa

I preparativi per l’Anno Santo erano iniziati per tempo. Il cardinal nipote Paolo Emilio Sfondrati aveva avviato i lavori di restauro della basilica paleocristiana di Santa Cecilia in Trastevere nella primavera del 1599; nel successivo mese di ottobre, furono riesumate le spoglie della santa, sepolta nella cripta, per valutarne lo stato di conservazione. Una volta aperto il sepolcro di marmo e la cassa di cipresso, apparve il corpo incorrotto: Cecilia, rivestita d’un abito bianco intarsiato di fili d’oro, giaceva adagiata sul fianco destro, con i capelli ricoperti da un velo, il viso rivolto a terra, i segni del sangue e di tre ferite sul collo.

Il carattere miracoloso dell’evento attrasse una folla numerosa; lo stesso papa Clemente VIII si recò personalmente alla Chiesa di Trastevere dove, per un mese, le spoglie rimasero esposte alla venerazione dei fedeli.

Ridata sepoltura al corpo nella cripta, il cardinale Sfondrati commissionò al giovane scultore Stefano Maderno, che era stato presente alla cerimonia di esumazione della salma e ne aveva fatto degli schizzi, una statua che ne riproducesse l’esatta posizione.

anita-vt3Maderno scolpì un capolavoro. Il corpo minuto, quasi da bambina, ha la sinuosità e la morbidezza di un giovane corpo di donna; le mani sono protese in avanti, le ginocchia leggermente sollevate. La torsione del capo, coperto da un velo, impedisce di vedere il volto, ma rende visibile il collo con i segni della scure e delle gocce di sangue.

L’opera, in bianchissimo marmo pario, recupera gli stilemi della classicità, lavorandoli nella prospettiva di quella “piega” che è forse la cifra stilistica più significativa dell’età barocca: pieghe su pieghe fremono nella leggerissima veste e nel velo, ricoprendo tutto il corpo e i capelli di Cecilia.

La statua venne collocata in posizione scenografica sotto l’altare maggiore, in corrispondenza con il luogo di sepoltura della santa nella cripta sottostante, in una magistrale simbiosi tra indicazioni conciliari e sensibilità barocca: l’immagine sacra deve suscitare emozione e commozione, toccando l’anima dei fedeli; la teatralizzazione del sacro fa della statua uno strumento di preghiera e un oggetto di venerazione.

L’opera di Maderno ebbe grande risonanza e influenza sugli artisti dell’epoca. La pagina del Museo del Prado dedicata al famoso dipinto di Francisco de Zurbarán Agnus Dei, mette in evidenza un preciso legame iconografico tra il dipinto del pittore spagnolo, datato al 1635-40 circa, e la statua di santa Cecilia di Maderno, precedente di qualche decennio.

Il fatto che Zurbarán abbia modellato il suo Agnus Dei sull’opera di Maderno attesta, in modo inequivocabile, la qualità sacrificale e la dimensione vittimale espressa dalla statua di santa Cecilia. Qualità sacrificale e dimensione vittimale veicolata anche dalla statua bresciana di santa Giulia crocifissa. Le due statue rispondono, dunque, alla stessa funzione: proporre come modello da imitare la figura di una vittima offerta in sacrificio.

L’inizio della storia

A questo punto del nostro percorso possiamo recuperare la domanda iniziale, ampliandola con un ulteriore interrogativo: non solo “chi è santa Giulia?”, ma anche “chi è santa Cecilia?”.

Secondo le narrazioni agiografiche che tramandano le loro biografie, le due sante vissero a distanza di un paio di secoli l’una dall’altra, Cecilia agli inizi del III secolo, Giulia alla metà del V. Alcune recenti ricostruzioni storiche, però, spostano il martirio di Giulia alla metà del III secolo, all’epoca della persecuzione dell’imperatore Decio, avvicinandola in modo sensibile al tempo in cui visse Cecilia.

Entrambe di nobile famiglia, come rivelano i loro nomi, legati ad alcune fra le più antiche gentes romane, Giulia e Cecilia subirono, dunque, il martirio tra l’inizio e la metà del III secolo, prima dell’editto di Costantino.

Nei primi secoli del cristianesimo la presenza numerosa delle donne e la loro partecipazione attiva alla vita della Chiesa nascente è un dato incontrovertibile. In un tempo e in una società in cui il valore delle donne era meno di niente, scegliere la fede cristiana significava, per una donna, anche percorrere una via di riscatto individuale e sociale: in Cristo non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna; e dunque in Cristo, per le donne, si poteva aprire l’impensabile possibilità di essere e di esistere sullo stesso piano degli uomini.

Emblematici, a questo proposito, gli Acta dei martiri Scillitani, il più antico documento della letteratura cristiana in lingua latina. I dodici martiri provenienti da Scilli, un piccolo centro dell’Africa proconsolare romana, furono martirizzati a Cartagine nell’anno 180, durante l’impero di Commodo.

I martiri vengono solitamente citati con un maschile inclusivo; in realtà, si tratta di sette uomini e di cinque donne, il cui nome proprio ci è stato conservato grazie al formalismo giuridico romano. Al momento della condanna, infatti, il proconsole Saturnino fece proclamare la sentenza dal banditore: «Sperato, Nartzalo, Cittino, Veturio, Felice, Aquilino, Letanzio, Gennaria, Generosa, Vestia, Donata, Seconda sono stati condannati alla pena capitale».

Il Martirologio Romano, ricordandoli alla data del 17 luglio, ne racconta brevemente la vicenda, e così conclude: «confessarono con fermezza di essere cristiani e, al rifiuto di onorare l’imperatore come dio, furono condannati a morte: messisi tutti in ginocchio sul luogo dell’esecuzione, furono decapitati con una spada mentre rendevano grazie a Dio».

Il martirio è martirio per testimoniare la fede, non fa distinzioni tra maschio e femmina, non vive disparità di genere. E, cosa molto significativa alla luce degli sviluppi successivi, non ha bisogno del sigillo della verginità.

Per quale motivo, allora, ad un certo punto della storia, per certificare la santità femminile è diventato necessario aggiungere una sovrastruttura di carattere sessuale, associando alla palma del martirio anche la palma della verginità?

Leggiamo nel Martirologio Romano, alla data del 22 novembre: «Memoria di santa Cecilia, vergine e martire, che si tramanda abbia conseguito la sua duplice palma per amore di Cristo nel cimitero di Callisto sulla via Appia. Il suo nome è fin dall’antichità nel titolo di una Chiesa di Roma a Trastevere». E, alla data del 22 maggio: «Nell’isola di Corsica, commemorazione di santa Giulia, vergine e martire».

Vergine e martire. Vergine. Notazione che non si trova mai quando il santo è un maschio. Cosa è successo, e quando e perché è successo, che verginità e castità sono diventate per le donne sovrastruttura della santità, e l’epiteto “vergine” – dal sapore così impudico e voyeuristico – è diventato l’epiteto qualificativo per eccellenza della santità femminile?

La verginità si addice alle donne

Per capire il meccanismo che ha presieduto quello che si configura come un vero e proprio slittamento semantico, che ha fatto sì che il martirio per la fede sia diventato tout court, per le donne, martirio per l’intangibilità sessuale, è indispensabile una precisazione preliminare, relativa alla differenza di genere letterario tra Acta e Passiones. Mentre gli Acta martyrum sono i verbali dei processi subìti dai cristiani con il resoconto, scarno ed essenziale, dei loro ultimi momenti di vita, le Passiones sono narrazioni di carattere leggendario, arricchite da dettagli miracolistici, redatte diversi secoli dopo il martirio. In sé prive di valore storico-documentario rispetto alla vicenda agiografica raccontata, sono, però, fonti importanti per illuminare il contesto culturale da cui questo tipo di narrazioni è stato promosso.

Il cambio di registro narrativo tra i due generi letterari degli Acta e delle Passiones si gioca su una frontiera cronologica posta tra la fine dell’età antica e i primi secoli dell’alto medioevo, quando per le famiglie nobili comincia a presentarsi il problema della collocazione delle figlie non matrimoniabili per motivi di dote o di successione dinastica.

In una prospettiva antropologica, la verginità come modello sociale permette di sottrarre la donna allo scambio matrimoniale, liberando la famiglia dalla gravosa incombenza della dote.

Il principio dell’Aut murus aut maritus – o del Maritar o monacar, come si diceva a Venezia –, è stato il perno di secolari politiche familiari alle prese con il fastidioso destino di aver messo al mondo delle figlie femmine. L’aut aut non si poneva, però, su un piano orizzontale: verginità e matrimonio spirituale, via maestra per il paradiso, erano presentati su un livello molto più elevato rispetto al matrimonio mondano.

È in questa prospettiva che si capisce come all’immagine della martire per Cristo e per la fede si sia sovrapposta l’immagine della martire per la verginità: la valorizzazione della virtù della verginità diventava funzionale a spingere e a confermare nella loro decisione le numerose donne – spesso poco più che bambine – che, per volontà della famiglia, erano state collocate in convento.

Ed è in questa prospettiva che si spiega come le narrazioni leggendarie contenute nella Passio sanctae Ceciliae, datata intorno agli ultimi decenni del V secolo, e nella Passio sanctae Juliae del VII secolo, leghino in modo indissolubile il motivo del martirio alla volontà di preservare la verginità – il tutto a scapito della testimonianza della fede in Cristo.

Tra VIII e IX secolo i corpi delle due sante vennero traslati dal luogo di sepoltura originario in due luoghi di culto di nuova fondazione – santa Giulia nel monastero di San Salvatore a Brescia, santa Cecilia nella basilica in Trastevere. Le loro reliquie, fondamento di sacralità per gli edifici, contribuirono alla definizione di un immaginario religioso che identificava la verginità con il simbolo assoluto della vita monastica, della santità e della trascendenza della Chiesa stessa.

Oltre la femminilità sacrificale

Con il decreto De regularibus et monialibus, il concilio di Trento riaffermava in modo perentorio, in opposizione alle Chiese riformate, il valore del monachesimo, esaltato come status perfectionis, e, nel dare uno stretto giro di vite alla clausura nei monasteri femminili, connotava sempre più la vita monastica in prospettiva sacrificale, presentandola come una vera e propria fuga mundi: vivere davvero, per una monaca, significava morire al mondo.

Possiamo, a questo punto, ritornare alla statua di santa Giulia crocifissa di Carra, punto di partenza del nostro percorso, per tentare un esercizio di immaginazione. Proviamo a guardare la statua con gli occhi delle religiose che, a motivo della clausura, non avevano accesso alla Chiesa, aperta al culto dei fedeli, ma assistevano alla messa e alle funzioni religiose dal coro, stando dietro una grata. Dalla grata, le monache intravedevano la Chiesa in penombra, illuminata dalle luci delle candele, e là, sul secondo altare laterale a sinistra, la statua di Giulia crocifissa. Non potevano vederla direttamente, ma sapevano che c’era. Lo sapevano. Invisibile a loro ma visibile ai fedeli, quella statua, che le rappresentava tutte, dava ragione della dimensione sacrificale della loro esistenza.

Ci restano da trarre, ora, almeno due considerazioni conclusive.

La prima: l’esercizio di consapevolezza storica messo in atto attraverso la decostruzione dell’immaginario sacrificale permette di liberare le figure di Giulia e Cecilia e di tante altre figure femminili dalle sovrastrutture che nei secoli hanno modellato la ricezione della loro esperienza, restituendole all’intensa essenzialità di un martirio vissuto come pura testimonianza di fede in Cristo.

La seconda: questa consapevolezza può diventare strumento per rileggere in chiave antropologica la questione degli abusi sulle religiose. La vittima silenziosa prende la parola. Le parole delle vittime emergono dal silenzio, destabilizzando il sistema e scardinandolo nel profondo della sua struttura simbolica, oltre che reale.

Ma, e questa è la lieta notizia, forse è arrivato il tempo in cui la religione del sacrificio può ritrovare sé stessa nella religione dell’Amore.

Bibliografia

Ida Magli, Storia laica delle donne religiose, Longanesi & C., 1995.
Per santa Giulia: https://www.diocesilivorno.it/home/la-diocesi/informazioni-generali/i-santi/santa-giulia/; http://brixiasacra.it/PDF_Brixia_Sacra/Anno%202011/brixia%20sacra_1-2_2011_web.pdf.
per santa Cecilia: Alessia Lirosi, Il corpo di santa Cecilia (Roma, III-XVII secolo) in https://journals.openedition.org/mefrim/559#tocto1n1.
Vittorino Grossi, Il Giubileo viaggio nella storia – Il Giubileo del 1600, il secolo dei Giubilei in https://www.vatican.va/jubilee_2000/pilgrim/documents/ju_gp_16062000-5_it.html.
Francisco de Zurbarán Agnus Dei in https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/agnus-dei/795b841a-ec81-4d10-bd8b-0c7a870e327b?searchid=7a8d8b2d-ffb3-640e-8c10-2a1ce9c94a9f.

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2 Commenti

  1. Giuliana Babini 28 marzo 2023
  2. Rita Venturini 20 marzo 2023

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