Covid-19: lo scontento e l’urgenza

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A differenza di quello che era accaduto prima dell’estate – quando era sembrato che il Paese si stringesse intorno al governo, perdonandogli le non poche incertezze e contraddizioni con cui aveva affrontato la pandemia –, il clima che si respira in questi giorni in Italia appare fortemente deteriorato.

Le proteste di piazza sono solo la punta dell’iceberg. Il malcontento, la sfiducia, la rabbia si sono diffusi con la stessa rapidità del virus. Anche qui, naturalmente, ci sono livelli diversi di contagio: dietro quelli che gridano, ce ne sono molti altri – gli asintomatici – che la preoccupazione e la disillusione se la portano dentro.

Ad essere sul banco degli imputati, in questo processo virtuale, è naturalmente il governo, e, prima di tutti, il presidente del Consiglio. Gli si rimprovera di non avere saputo prendere le misure necessarie – né sul piano sanitario, né su quello economico – per fronteggiare la prevedibile (e ampiamente prevista) “seconda ondata”.

Oggi ci ritroviamo con l’acqua alla gola, come e peggio che a marzo, costretti di nuovo a contare con ansia i posti ancora liberi negli ospedali, soprattutto nei reparti di terapia intensiva, e a prendere atto della carenza di personale medico e infermieristico. Si ha la netta sensazione che sia mancato un progetto organico e che siamo stati di nuovo “colti di sorpresa”, come a marzo. Con la differenza che allora la sorpresa era legittima, adesso no.

La mancata elaborazione di un piano complessivo

Anche sul piano economico, non sembra che il governo abbia elaborato un piano complessivo per fronteggiare la crisi che inevitabilmente – lo si sapeva – avrebbe colpito il Paese, soprattutto la piccola imprenditoria e alcuni settori. E anche quando ha cercato di predisporre misure per proseguire alcune attività, queste non sono state abbastanza tempestive e risolutive da evitare che il ritorno in forze del virus costringesse, dopo tante spese, a una parziale chiusura o – come è stato nel caso delle lezioni nella scuola superiore – a un sostanziale ridimensionamento.

Abbiamo dunque un colpevole da lapidare? A farne dubitare è la prova offerta, a sua volta, dall’opposizione. I leader dei partiti di destra hanno ragione di criticare lo stile verticistico del premier.

Ma, quando si va a vedere nel merito quali sono state, in questi mesi, le loro proposte, si constata che esse hanno oscillato da un estremo all’altro, come se fossero ispirate più alla necessità di far sentire la propria voce critica nei confronti del governo che non a una coerente progettualità.

Ed anche per quelle poche rivendicazioni su cui l’opposizione è stata schierata univocamente, è difficile rimpiangere che non siano state prese in considerazione. Basti pensare alla richiesta ossessivamente ripetuta di nuove elezioni, del tutto irrealistica, nel contesto attuale di emergenza, o a quella di chiudere i porti, accusando i migranti di essere la causa dell’aumento dei contagi. Accusa smentita dai dati oggettivi, secondo cui solo il 3-5% degli immigrati erano positivi e molti a causa delle disumane condizioni dei nostri centri di accoglienza.

Le responsabilità delle regioni

Insomma, se il governo ha fatto degli errori, neanche i partiti di opposizione sono innocenti. Tanto più che ad essi appartengono i governatori di ben quindici regioni su venti, tra cui la Lombardia, che è stata e rimane l’epicentro della pandemia. E, per quanto riguarda i servizi relativi alla tutela della salute dei cittadini, dal punto di vista giuridico, la competenza delle regioni e quella dello Stato si intrecciano strettamente, rendendo difficile stabilire le rispettive responsabilità di ciò che sta accadendo.

La colpa di tutto, allora, è della classe politica nel suo insieme? Ancora una volta, si tratta di una risposta troppo semplice e troppo comoda, anche se molti se ne accontentano e la traducono in slogan qualunquisti.

La verità è che anche gli italiani nel loro complesso hanno sottovalutato la minaccia. Pur con l’attenuante del comprensibile bisogno di libertà e di svago, dopo la cupa stagione del lockdown, i nostri giovani si sono scatenati nelle discoteche e nella movida, e anche gli adulti hanno preso spesso alla leggera le raccomandazioni degli esperti che invitavano alla prudenza, affollandosi nelle code delle vacanze e sulla spiagge – ovviamente senza mascherina –, o festeggiando senza alcuna cautela, in locali privati e pubblici, matrimoni, lauree, battesimi, successi professionali.

Certo, il governo avrebbe potuto bloccare tutto questo con rigorosi divieti. Ma dobbiamo dargli atto che a impedirlo erano due ordini di difficoltà. Le prime, quelle derivanti delle esigenze oggettive di categorie legate al turismo e alla ristorazione, che avevano particolarmente sofferto per le chiusure dei mesi precedenti.

L’altro ordine di difficoltà è stato costituito dalle prese di posizione di quegli scienziati che, contrapponendosi alla maggioranza dei loro colleghi, hanno dato man forte al partito di coloro (ancora una volta l’opposizione in questo ha avuto il suo peso) che accusavano il governo di sfruttare il virus per limitare le libertà personali. Ricordiamo tutti i nomi di questi medici che irresponsabilmente – oggi posiamo dirlo senza esitazioni – hanno cavalcato la voglia diffusa di spensieratezza, invitando le persone a non preoccuparsi più del virus e a vivere la propria vita “normalmente”.

«Essere positivi non significa essere malati», è stato lo slogan di questi illustri studiosi, applauditi dalla folla dei negazionisti o semi-negazionisti. Ed è vero. Ma hanno dimenticato di aggiungere quello che essere positivi significa: poter infettare altri, che invece il virus fa ammalare e può uccidere o menomare gravemente (sempre più i medici segnalano dei seri danni anche nell’organismo di coloro che risultano guariti).

Gli scenari mondiali ed europei relativizzano i nostri errori

Che l’aumento vertiginoso dei positivi “non significhi nulla” lo smentisce clamorosamente il rapporto con la crescita dei casi di malattia vera e propria. Oggi in Italia ci sono più 16.000 pazienti che hanno avuto bisogno di essere ricoverati in ospedale e di essi 1.500 sono in terapia intensiva. E si tratta di numeri purtroppo in costante, rapidissima crescita. Per non parlare dei decessi, che in sole ventiquattr’ore ormai raggiungono e superano la soglia dei 200. Chi ha convinto gli italiani a sfidare le regole della prudenza, suggerite e ribadite dalla maggioranza del corpo scientifico, forse dovrebbe riflettere sulle responsabilità dei cattivi maestri.

Nessuno, in questo contesto, ha il diritto di tirare la prima pietra. Tanto più che, per quanto grandi siano stati gli errori commessi da tutti nel nostro Paese, la situazione degli altri – a livello mondiale, come a quello europeo – ci avverte che le difficoltà oggettive create dal virus sono immani. Questo vale anche per il governo. Avremmo voluto Macron, o Johnson, o Sánchez oppure Trump, al posto di Conte? I loro Paesi stanno peggio del nostro. Perfino la Germania, le cui strutture sono da sempre ben più solide ed efficienti di quelle italiane, si trova oggi a decretare misure ancora più drastiche di quelle che suscitano le proteste degli italiani.

Lasciamo cadere le pietre e tendiamoci a vicenda le mani

Forse sarebbe il caso, allora, di cambiare tutti atteggiamento e di passare, dalla caccia ai colpevoli, al riconoscimento degli sforzi che ognuno comunque, con i suoi limiti, ha fatto e sta facendo e alla decisione di collaborare al bene comune del Paese in questo concreto momento storico.

L’urgenza vera non è un governo di unità nazionale – che sarebbe, nel clima attuale, solo l’occasione per una diversa suddivisione delle famose “poltrone” –, ma l’unità nazionale, di cui questo governo se mai potrebbe essere, successivamente, l’espressione. A questo ognuno può fin da ora contribuire, tendendo la propria mano, dopo aver lasciato cadere la pietra che stringeva.

  • Ripreso dal sito della pastorale della cultura della diocesi di Palermo Tuttavia.eu
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