Dalla marcia su Roma alla dittatura

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Il 16 ottobre 1922, di fronte all’assemblea dei capi della neonata Milizia fascista, Benito Mussolini decise di scegliere la linea dura e radicale per risolvere la crisi del governo guidato da Luigi Facta, già ministro della Giustizia nel gabinetto Orlando.

Il nuovo presidente del Consiglio non riusciva a controllare le mire di potere espresse dal sistema bancario e industriale a danno delle classi medie e operaie/contadine, ma nemmeno era in grado di porre un freno alla incontrollata illegalità delle squadre d’azione fasciste. Proprio queste ultime, nell’estate del 1922 avevano preso il controllo di alcune aree del Paese e di città come Ravenna e Cremona.

La crisi politica del ’22

L’immobilismo del governo era il segno di una più ampia crisi, sociale ed economica, apertasi in Italia nel dopoguerra. Lo sciopero generale dell’agosto era stato represso in modo anche violento dagli squadristi che, in tal modo, avevano dimostrato alla politica che non si poteva fare a meno di loro. Altre importanti città erano state occupate con la forza: Bologna, Ferrara, Trento, ove le autorità pubbliche erano state praticamente sostituite dagli squadristi.

Il «regolamento organico» della Milizia fascista, pubblicato all’inizio di ottobre, di fatto, costituiva la prova dell’esistenza di un esercito fuori dalla legalità, strutturato e centralizzato, in vista di azioni forti e capaci di sovvertire l’ordine istituzionale.

Facta, preso atto della situazione, era intenzionato a condurre delle trattative con la destra filofascista, mentre, a fronte di chi, come il ministro dell’interno Paolino Taddei, era pronto a una repressione del movimento mussoliniano, altri suoi collaboratori si preparavano a un accordo diretto con Mussolini.

Nel contrapporsi frontalmente e nelle piazze al movimento operaio e contadino, i miliziani del fascismo volevano apparire come una guardia nazionale al servizio del potere economico ma insieme presentarsi come promotori di una nuova visione del mondo e della società, antagonista di quella del socialismo.

Mentre l’occupazione delle città da parte degli squadristi dilagava (Adria, Viterbo, Novara, Ravenna, Rimini, Pavia, Biella si unirono alle altre già in mano alle milizie), il governo Facta lanciava appelli alla concordia civile.

Anche Genova e Milano vennero prese d’assalto e nella capitale lombarda i fascisti si impadronirono di Palazzo Marino, sede del Comune. Il «Corriere della sera» e la magistratura milanese si affrettarono ad affermare che ciò che stava accadendo non era né illegale né inopportuno.

A questo punto, Mussolini si trovava di fronte al rischio, molto grosso per lui, che gli venissero offerti alcuni dicasteri, ma non la presidenza del consiglio. D’Annunzio, Giolitti e Salandra si prestavano a dare corpo a tentativi in questa direzione.

La marcia su Roma

Il 27 ottobre, il capo del governo Luigi Facta presentò le dimissioni al re Vittorio Emanuele III. Nello stesso momento le colonne di uomini in camicia nera si misero in marcia. La mattina successiva, il re rifiutò di firmare lo stato d’assedio, sostenuto in questa sua decisione dal pronunciamento della Confindustria in favore di una soluzione Mussolini.

Dopo l’occupazione di molte città dell’Italia centro-settentrionale, alcune colonne di miliziani mossero su Roma. A guidare tutte le operazioni era un comitato ristretto insediatosi a Perugia: il segretario del Partito nazionale fascista Michele Bianchi; Cesare Maria De Vecchi, torinese molto vicino ad ambienti monarchici e militari; Italo Balbo, il maggiore comandante dello squadrismo padano; infine, Emilio De Bono, un ufficiale dell’esercito regio. Mussolini era rimasto a Milano, pronto a rifugiarsi in Svizzera se l’operazione fosse fallita.

In quei mesi, «le autorità periferiche dello stato erano ormai abituate a considerare i Fasci come organizzazioni vicarie nella gestione della pubblica sicurezza […]. Così molte prefetture, gli uffici postali e pubblici vennero occupati dai fascisti; le comunicazioni tra la capitale e le periferie furono interrotte» (Salvatore Lupo).

Una guarnigione di circa trentamila soldati dell’esercito, al comando del generale Emanuele Pugliese, presidiavano le strade per Roma ed era assai improbabile che le colonne fasciste di ventiseimila uomini male armati potessero prevalere in uno scontro in campo aperto.

La marcia su Roma con la presa della città fu possibile solo perché il re non firmò mai il proclama di stato d’assedio. Vittorio Emanuele III non avrebbe mai voluto scatenare una sorta di guerra civile, ma in parte sapeva bene che la neutralità dell’esercito andava incontro a una volontà di cambiamento espressa dal mondo della grande industria, del capitale finanziario e delle istituzioni.

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Il governo Mussolini

La marcia su Roma non fu, dunque, un atto rivoluzionario poiché i fascisti in quel frangente ottennero l’appoggio di tutto l’establishement nazionale e, come abbiamo visto il sostegno degli apparati locali e statali dello Stato. Non fu nemmeno un colpo di Stato, perché alla fine tutto si risolse in una modalità corretta dal punto di vista costituzionale, in quanto il re diede l’incarico a Mussolini di formare il nuovo governo che ottenne la fiducia della Camera dei deputati.

Il tanto ricordato «discorso del bivacco» che Mussolini tenne alla Camera il 16 novembre del 1922, in cui si soffermò tra l’altro sui trecentomila giovani che presidiavano le strade, altro non fu che un modo plateale di mostrare i muscoli, quando tutte le formalità del suo dicastero erano state espletate, secondo le leggi della monarchia.

Di fatto, i mesi che seguirono e fino al delitto Matteotti del giugno del 1924, il governo Mussolini fu caratterizzato dalla politica delle alleanze del movimento fascista con le forze clerico-moderate e conservatrici. Una fase di normalizzazione che servì a ottenere il consenso verso il regime di ampi strati della popolazione, con il conseguente controllo e la moderazione delle violenze squadriste che avevano caratterizzato gli anni precedenti.

Nei mesi a venire, questa fase di normalizzazione procedette con la sostituzione del personale politico e amministrativo negli organi dello Stato con uomini di fiducia del fascismo; a essa seguì la riduzione del peso parlamentare delle opposizioni e l’avvio di un atteggiamento operativo a metà strada tra l’illegalità e la legalità formale.

Sebbene già dal 1922 il Gran Consiglio del fascismo fosse diventato anello di congiunzione tra il Partito fascista e lo Stato, solo tra il 1924 e il 1926, dopo il delitto Matteotti, il fascismo accelerò i tempi di trasformazione istituzionale per scardinare definitivamente il vecchio Stato liberale, decidendo di abolire tutte le libertà individuali e occupare sempre più spazi di potere autoritario, svuotando tutti gli istituti costituzionali.

Il periodo culminò con l’entrata in vigore delle leggi «fascistissime» del 1926, con le quali si posero le basi della dittatura.

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Un commento

  1. Tobia 30 ottobre 2022

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