Delitto e follia

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Alla fine del mese di ottobre, in Lombardia, due persone adulte sono state protagoniste di drammatici fatti di sangue.

In un caso, la persona era stata ricoverata presso un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) e quindi esaminata da una Commissione medica che ne aveva autorizzato il rientro in servizio, in caserma. Nell’altro caso, la persona era in attesa di una prima visita specialistica psichiatrica.

Il primo caso, come noto, investe un graduato dei Carabinieri, sposato, autorizzato a portare le armi, che, sentendosi perseguitato e danneggiato dal suo diretto superiore, lo ha freddato con la pistola di ordinanza.

Il secondo riguarda un soggetto letteralmente “solo”: incensurato, celibe, senza lavoro, ossessionato dalla propria condizione di salute, dopo un banale intervento chirurgico per ernia. Così ha aggredito, con un coltello, clienti e addetti di un supermercato, uccidendone uno. Frustrato, avrebbe dichiarato di aver letto «la felicità negli occhi degli altri».

I folli nella società

I due episodi hanno, naturalmente, molto impressionato l’opinione pubblica, riproponendo l’annoso tema della pericolosità sociale dei folli: una presunzione tipica dell’epoca manicomiale da sempre associata all’incapacità di intendere e di volere, anche quando i folli non avevano commesso e non commettono alcun reato.

Sino al 2014 – ossia sino a quando una persona riconosciuta quale folle commetteva un reato – veniva assegnata una “misura di sicurezza” in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG), stabilimenti penitenziari specializzati del Ministero della giustizia. La durata della misura di sicurezza era rapportata più che alla gravità del delitto, alla valutazione della permanenza della pericolosità sociale.

La “misura di sicurezza” è in realtà rimasta inalterata anche dopo la chiusura, per legge, degli OPG, concomitante all’attivazione delle Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (REMS), strutture dei Dipartimenti di salute mentale (Dsm) del Servizio sanitario nazionale attivate dalla legge 81/2014, precisamente per l’accoglienza e la cura delle persone autrici di reato non processabili perché affette da disturbi mentali.

Dagli esordi della psichiatria quale branca della scienza medica, i protagonisti dei casi descritti, e delle due tragiche vicende, sono definibili pazienti affetti da “psicosi”. Con tale termine ci si riferisce alla gravissima patologia di persone la cui vita quotidiana è sconvolta da allucinazioni, grandi angosce, terrori, invidie, rancori e idee di grandezza, permeabilità dei confini del proprio mondo, turbamento del senso di sé, compromissione del rapporto critico con la realtà.

La vita come dramma

Queste persone vivono la vita come un dramma, fanno fatica a mantenere il lavoro, gli affetti e le relazioni sociali utili, positive, con gli altri: c’è chi per tali problemi riesce a chiedere aiuto, ma c’è anche chi rifiuta di riconoscerli, quindi si nasconde, si isola, si barrica. Queste ultime sono chiaramente le situazioni più pesanti e cariche di rischio.

Cosa si può fare per prevenire con efficacia tali situazioni?

Non c’è evidentemente una soluzione semplice per problemi esistenziali così complessi. Naturalmente è utile – persino in molti casi indispensabile – l’assunzione di farmaci efficaci. Ma serve tempo. Soprattutto ai servizi di salute mentale e ai loro operatori serve il tempo per ascoltare attentamente i pazienti, per capirli, interpretare, prendere atto di quanto favorisca o, al contrario, guasti la qualità della vita quotidiana di queste persone nelle loro vicende esistenziali; serve tempo per valorizzare e per mobilitare positivamente tutte le risorse presenti nella persona e nelle sue relazioni affettive, familiari e sociali.

Ma, intanto, bisogna combattere la vergogna che allontana le persone e le famiglie dalla cura. È fondamentale, ed è compito di tutti.

Ripeto qui che le esperienze migliori nel lavoro di cura della salute mentale sono quelle in cui alle persone con gravi disturbi mentali si offre la possibilità di godere comunque della libertà di inclusione nella vita familiare, amicale e sociale. E non viceversa.

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