Dibattito pubblico: il caro estinto

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Dare forma a uno spazio pubblico, come luogo di un confronto civile tra la pluralità di idee e delle immagini della coesistenza umana, rappresenta un’istanza centrale per la vita democratica e lo Stato di diritto. Giustamente lo spirito moderno sente come indebita ogni forma di censura che limiti il diritto e il dovere di prendere parola nel dibattito pubblico. La modernità stessa ha però dovuto compiere un notevole lavoro critico su se stessa per immaginare le condizioni necessarie affinché questo luogo del linguaggio che circola tra i cittadini non fosse, di fatto, un privilegio per pochi.

dibattito vuoto

Processi di giuridizzazione

Almeno in linea teorica. Nella realtà, per quanto siano inclusive quelle condizioni, qualcuno (singolo o gruppo) non riesce ad accedervi o, nel migliore dei casi, ne rimane ai margini. Una vera e propria spina nel fianco dell’ideale moderno dell’organizzazione della socialità umana; a cui si è cercato di porre rimedio ricorrendo al diritto, alla legge positiva. Contrafforte importante, forse imprescindibile, al quale però abbiamo finito col dare una sorta di credito magico; come se di per sé il diritto potesse creare la realtà, sociale e civile, del dibattito pubblico stesso.

Appaltato al diritto, lo spazio del dibattito pubblico si è pian piano snaturato – in maniera corrispondente a quella che P. Prodi chiama la giuridizzazione della coscienza, sul piano del singolo cittadino davanti allo Stato. Ciò di cui si può parlare o meno nello spazio pubblico sembrerebbe essere sempre più predeterminato dalla legge positiva. Sacralizzata come istanza ultima sia da coloro che in essa si riconoscono, sia da quelli che a essa si oppongono.

L’alterità perduta

Così si finisce per soffocare il dibattito pubblico, smarrendone la dimensione di alterità rispetto alle istituzioni. Spazio del convenire insieme di tutti i cittadini, a prescindere dalla positività della legge. Responsabilità prima ancora che diritto sancito.

Quando tutto questo viene a mancare, si corre il rischio di fare del dibattito pubblico il luogo di un’istanza dogmatica – un paradosso per la laicità moderna. Impoverendo il linguaggio e l’argomentazione. Accumulando vittorie su vittorie, con l’ossessione di porle sotto il sigillo istituzionale, la modernità rischia di fagocitare se stessa e generare il suo opposto.

Anzi, forse lo ha già generato – se solo ci guardiamo intorno. Ogni istituzionalizzazione produce esclusione e questa, a sua volta, risentimento. Ebbra di sé, la tarda modernità non si è accorta di tutto ciò. A pagarne le spese più alte è stato proprio quel luogo della convivenza civile che chiamiamo dibattito pubblico. Non ci vuole molto per accorgersene, ma stiamo facendo ben poco per riscattarlo dalla sua implosione. Intanto, mettiamo in carico alle generazioni più giovani il prezzo da pagare.

Il simulacro neo-liberale

E questo è l’altro lato della medaglia: siamo tutti attirati nel vortice accattivante di un individualismo spinto e di un particolarismo intransigente, elevati a norma complessiva delle ragioni dello stare insieme (per modo di dire). Diritto rivendicato come imprescindibile, che si nutre della rinuncia a qualsiasi forma di generazione per i tempi a venire. In una condizione del genere il dibattito pubblico è, in radice, impraticabile.

Muore prima ancora di nascere, estinto dalla rivendicazione indiscutibile della propria individualità e dall’intangibilità degli assetti che ne garantiscono il godimento illimitato. Il cittadino, diventato bulimico di se stesso, non sopporta alcuno scarto che gli chieda di andare oltre questa morbosa aderenza a sé.

Cittadino e suddito

In questo modo, la figura della cittadinanza viene indebolita ulteriormente, in quanto il suo soggetto sta lentamente rinunciando alla propria sovranità e slitta verso una condizione servile. Suddito dei molti padroni che simulano di essere il portavoce del suo diritto, oramai sanzionato, di fare dell’individualità isolata il principio organizzatore della socialità umana.

Nella quale, in realtà, assomigliamo tutti sempre di più a dei dispersi che si illudono di aver trovato un approdo sicuro. I cittadini, divenuti isole fluttuanti nel mare sempre più indistinto della digitalizzazione del mondo, non sanno più parlarsi tra di loro. La misura massima della comunicazione formattata è quello di un cinguettio senza argomento.

Si finisce così, volenti o nolenti, a raccogliersi nello specchio di branchi omogenei conducendo da qui, in ordine sparso, una battaglia contro chiunque osi avventurarsi nelle nostre vicinanze senza essere dichiaratamente dei nostri. Ritenendo lo spazio di questa prossimità pubblica un possesso esclusivo e intangibile. Entrarvi senza condividere la legge del branco è ormai ritenuto un gesto di lesa maestà.

La fragile infallibilità del sé

L’infallibilità si è completamente de-istituzionalizzata: passata dalla Chiesa allo Stato nella modernità, sembra essere diventata oggi diritto individuale inviolabile. Senza accorgerci che l’umiliazione dei legami civili che ci tengono insieme, implicata in questa traslazione, ci rende tutti più deboli: asservendoci alle molte manipolazioni di cui, arroccati nello splendido rispecchiamento di noi stessi, neanche ci accorgiamo.

Il cittadino, in cerca unicamente della conferma di sé, è diventato man mano incapace di abbozzare anche le forme più elementari di quello che chiamavamo dibattito pubblico. Semplicemente non lo può reggere e, quindi, ne prende congedo. Nel vuoto così creato pullulano tutta una serie di istanze che si fanno garanti dell’inviolabilità servile a cui ci siamo consegnati.

Le forme del discorso che esse organizzano non sono che un simulacro del dibattito pubblico, dettando ritmi e modi di un vivere-insieme nel quale non si argomentano più le ragioni del proprio dire (per lo più gridato e sgrammaticato) e non vi è motivo per ascoltare quello degli altri.

Per un ethos della regola non positiva

In regime di individualità istituzionalizzata le forme e l’organizzazione del vivere-insieme devono essere ripensate a fondo. Lo devono essere, in primo luogo, proprio da parte del cittadino: come presa in carico di una responsabilità che va a toccare, e mettere in questione, la nuova sacralità dell’io individuale. Non abbiamo altri punti di partenza per dare forma a un dibattito pubblico degno di questo nome.

Jean-Marc Ferry annota anche la necessità di dare dignità pubblica a figure del discorso che non siano solo quelle delle procedure formali e giuridiche: come il registro espressivo e quello narrativo. Che sono quelli che consentono all’individuo di prendere una certa distanza dalla completa istituzionalizzazione di sé.

Ma se il cittadino-individuo è chiamato a essere anche il costruttore della scena del dibattito pubblico (e non solo l’attore), allora deve mettere in esercizio un disciplinamento del sé per la cui realizzazione non può fare sponda su alcuna legge positiva.

Si tratta, cioè, di disposizioni che il cittadino-individuo coltiva perché è persuaso del ruolo imprescindibile del dibattito pubblico per un vivere-insieme in regime di pluralità. Ferry individua tre disposizioni basilari: “il fallibilismo, ossia l’assunzione che nessuna certezza non sia esposta all’errore”; “il criticismo, ossia l’offerta di giustificazioni nel discorso con l’altro”; e, infine, “il prospettivismo” che consiste nella consapevolezza che “tutta la proposizione e il contenuto inteso non ha senso che a partire dal punto di vista sotto il quale viene enunciato”.

La sapienza delle giovani generazioni

Senza la libera assunzione di queste disposizioni non si dà dibattito pubblico in una socialità plurale avanzata. Il problema è quale possa essere oggi il luogo in cui apprendere queste disposizioni virtuose del sé destinato allo spazio pubblico del vivere condiviso con tutti.

giovani

Chi introduce a quest’arte del vivere-insieme? In merito, mi sembra essere percepibile una rottura generazionale; ossia l’impossibilità che a queste disposizioni si venga introdotti da una sapienza civile che si passa di mano tra l’una e l’altra generazione.

Nelle generazioni più giovani, però, scorre molta più disponibilità di quanto si pensi verso questa sapienza civile del vivere-insieme. Si stanno attrezzando come possono, e se c’è una bottega in cui si dà la possibilità di apprenderne i rudimenti la frequentano senza pregiudizi.

Farei poi attenzione a imputare loro la fragilità di questa invenzione a cui cercano di mettere mano, che li espone anche a molte sottili manipolazioni: stanno cercando di rimediare a un vuoto che abbiamo creato noi.

E non sono neanche così ingenui e sprovveduti come ci piace descriverli molte volte. In quelle trappole si muovono già meglio di noi. Chi riuscirà ad intercettarne le aspirazioni, e metterà su un laboratorio capace di accompagnare il loro affinamento di una nuova sapienza civile del vivere-insieme, troverà la propria legittimazione grazie al loro desiderio di far tornare lo spazio pubblico a essere il luogo di circolazione di un linguaggio/discorso all’altezza delle esigenze del nostro tempo e della nostra comune dignità umana.

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