Diotallevi: Cristianesimo, fine corsa?

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crisi del cristianesimo come religione confessionaleLuca Diotallevi, nato a Terni nel 1959, è professore di sociologia presso l’Università Roma Tre. Laureato in filosofia presso “La Sapienza” e dottore in sociologia presso l’Università di Parma, ha perfezionato i suoi studi all’estero. È autore di diversi testi che trattano di laicità, di secolarizzazione, di rapporto Chiesa-Stato. Presso l’editrice Rubbettino ha recentemente pubblicato L’ultima chance. Gli abbiamo posto alcune domande a partire dal libro Fine corsa. La crisi del cristianesimo come religione confessionale.

 – Professor Diotallevi, il suo nuovo libro, appena pubblicato da EDB, si intitola Fine corsa. La crisi del cristianesimo come religione confessionale. Perché, a suo giudizio, la forma confessionale del cristianesimo, prevalente in Europa dal Cinquecento ai nostri giorni, è andata in crisi? 

Era una forma, una delle tante che il cristianesimo ha assunto nella sua storia, forme senza le quali semplicemente non avrebbe rilevanza pur non riducendosi mai solo a qualcuna di esse, … era una forma, dicevo, che dipendeva e insieme cercava di influire su alcune condizioni sociali. In particolare, era il frutto dell’impatto dello Stato sul cristianesimo, del primato della politica su tutta la società e dunque anche sul cristianesimo. Oggi, semplicemente, lo Stato non c’è più e le condizioni che lo rendevano possibile neppure. E dunque è in crisi piena un cristianesimo identificatosi con una religione di forma confessionale.

– E da cosa è stata sostituita?

La sostituzione non è avvenuta. Essenzialmente per tre ragioni. Perché una nuova forma religiosa standard non si è ancora imposta. Perché lo Stato sta lottando per ritornare (e per questo a bisogno di comprare l’alleanza degli specialisti della religione confessionale che così trovano un po’ di nuovo sostegno). Perché il cristianesimo, quando riconosce i rischi del clericalismo (sottoprodotto del confessionalismo), comprende di non poter essere solo-religione.

– La forma confessionale del cristianesimo ha suscitato strutture sociali e organizzazioni che amministrano i mezzi di salvezza, consentendo alla religione di fungere da “infrastruttura statale” e di contribuire alla definizione dell’identità pubblica e alla legittimazione del potere politico, anche attraverso il contenimento delle espressioni eversive rispetto all’ordine sociale. Quali effetti sociali può produrre la fine della forma confessionale del cristianesimo?

Il principale è che la religione (che non se la passa affatto male, anzi è in corso un religious booming per ogni forma di religione diversa da quella confessionale), quando si libera dal disciplinamento confessionale, vaga per la società a disposizione per qualsiasi strumentalizzazione: economica (religione come intrattenimento e bene o servizio a disposizione nel mercato ricreativo) o politica (si pensi alla strumentalizzazione della religione a fini elettorali da parte dei più improbabili leader politici).
In questo contesto maturano anche forti tentazioni nel mondo cattolico, come quella di liberarsi della forma-Chiesa. L’ipertrofia delle “pastorali” e il consenso del magistero verso le forme più estreme di differenziazione interna dell’offerta religiosa cattolica ne sono solo alcuni degli aspetti. L’indulgenza verso movimenti o culti o gruppi auto-cefali (forse detti “ecclesiali” perché sono di fatto “chiese diverse da quella cattolica”) così come l’invenzione e il crescente ricorso alla forma della prelatura personale sono due tra gli indizi più visibili, due delle politiche interne che, al di là delle superficiali differenze, ci mostrano elementi di forte continuità tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco.
Sullo sfondo incombe l’abbandono della riforma conciliare (poco cambia se operato “verso destra” o “verso sinistra”) e la riduzione e del cattolicesimo ad una religione a bassa intensità (low intensity religion).

– Lei afferma nel libro che la crisi del cristianesimo come religione confessionale potrebbe evolvere ed eventualmente risolversi in tanti modi, forse anche in termini non neoconfessionali e più in generale neostatali. In che senso?

Nel senso che una grossa fetta di imprenditori religiosi cattolici (clero e paraclero) possono trovare molto interessante la nuova alleanza offerta loro dai protagonisti del neostatalismo e del “sovranismo”. Si pensi ai silenzi dell’ortodossia su Putin, di tanto mondo cristiano USA su Trump o francese su la Le Pen. Non diverso dal silenzio di tanto mondo islamico turco su Erdogan, o di tanti settori ecclesiali sudamericani sugli autoritarismi tanto di destra quanto di sinistra. Il clericalismo e il confessionalismo sono per costituzione inclini a derive populiste e illiberali.

– Le espressioni di insoddisfazione nei confronti della riduzione confessionale del cristianesimo consentono di cogliere segnali che invocano una ripresa della forma ecclesiale. A cosa si riferisce?

Al fatto che, sempre più nitidamente, l’evento e l’insegnamento del Vaticano II, la lettura che ce ne offrì Paolo VI nell’Ecclesiam suam e nell’Evangelii nuntiandi, che si riflettono nella significativa vitalità di alcune Chiese locali, di certi settori del nuovo monachesimo, di certi settori del vero apostolato dei laici (è il caso, tra gli altri, dell’Azione Cattolica), continuano rispettivamente a significarci e a mantenere aperta una strada altra. Non la riduzione del cristianesimo a religione a bassa intensità, non le nostalgie confessionali di un neoclericalismo debole, ma la “larghezza, lunghezza, altezza e profondità” della forma ecclesiale.

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2 Commenti

  1. Rag. Giovanni Diabolik 9 maggio 2020
  2. carmelina 21 febbraio 2017

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