Disabilità

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La Convenzione ONU 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità – recepita nella legislazione italiana con la legge 3 marzo 2009, n. 18 – definisce persona con disabilità chi presenta “durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri” (art. 1).

I principi della Convenzione costituiscono un punto di riferimento di grande rilevanza per le associazioni di famigliari di pazienti con disabilità, per gli operatori dei servizi dedicai e  per gli amministratori degli Enti locali, in vista di una riforma della Sanità pubblica e dello Stato Sociale  ora così profondamente attraversati dalla pandemia da Covid-19: si pensi  al numero delle morti nella Residenze sanitarie per anziani e alle sofferenze da rigido isolamento a cui sono sottoposti gli ospiti delle strutture, sia per anziani che per disabili.

A mio avviso, i punti salienti della Convenzione – a cui attentamente guardare – sono contenuti nell’articolo 19, ove si tratta della facoltà della persona con disabilità di scegliere il proprio luogo di residenza e le persone con cui vivere, ove si tratta della libertà di scelta, della possibilità di rifiutare le sistemazioni non gradite e di disporre di servizi domiciliari e di assistenza personalizzata; ove si previene da ogni forma di segregazione e azione stigmatizzante. Insomma, le parole da tenere sempre a mente sono: libertà, indipendenza, dignità, contrasto delle discriminazioni, partecipazione alla vita sociale, esercizio dei diritti di cittadinanza.

Sono queste prescrizioni che – se effettivamente adottate e coniugate nella prassi – ad essere in grado di trasformare modi di pensare da troppo tempo radicati e diffusi nell’opinione pubblica, tra gli stessi operatori sociosanitari e, a volte, persino nel mondo dei volontari. Parlo di un certo “paternalismo” secondo il quale la persona con disabilità deve solo fare quello che le viene detto e imposto: stare cioè dove viene deciso che il disabile debba stare, perché senz’altro pensato per il suo bene, supposto a priori che la persona disabile (e la famiglia) non possieda capacità e competenze per esercitare la propria libertà fondamentale di scelta.

Io arrivo a definirlo “paternalismo forte” quando, sulla base di tali assunti, si passa alla coazione, alla limitazione dei movimenti, alle legature, alle “porte chiuse”, alle situazioni denunciate con particolare vivacità nel mondo dell’assistenza psichiatrica. Questo è ancora un mondo di coercizioni fisiche e di grandi sofferenze personali, un mondo di isolamento e di emarginazione, che continua ad essere segnato dallo stigma.

Consideriamo che la persona con disabilità è – sì – limitata, per difficoltà di vario grado e natura, ma proprio per questo può e deve essere sostenuta nella sua libertà elementare e quindi accompagnata con profondo rispetto, sia nella propria abitazione che in struttura residenziale.

Ciascuna ha diritto non solo a buone cure mediche ed infermieristiche, ma anche a trattamenti abilitanti, alla scolarizzazione, al lavoro, ad opportunità di vita sociale, al sostegno economico per il massimo della autonomia possibile. Tutto questo, secondo la Convenzione del 2006, dovrebbe essere garantito da progetti individuali di vita discussi col paziente, contrattati – insieme –  tra utente, servizi sanitari e servizi sociali territoriali, coinvolgendo normalmente la famiglia, le associazioni dei famigliari e dei volontari, le comunità confessionali e territoriali.

In Italia – secondo recenti stime – sono più di tre milioni le donne e gli uomini, di tutte le classi di età, limitate nelle proprie scelte di vita quotidiana e che abbisognano di assistenza per esprimere la loro vita in libertà: una assistenza personalizzata a diversi gradi di intensità, tipologia e durata.

Il passaggio dal modello assistenzialistico tuttora vigente – irrigidito da troppi interessi privati in gioco – ad un modello effettivamente fondato sui diritti non è – e non sarà mai – facile: richiede una convinta e diffusa moralità e quindi un corrispondente impegno della politica a tutti i livelli, nazionale, regionale, locale.

La notizia della istituzione – nel Governo Draghi – di un Ministero dedicato alle disabilità è incoraggiante, se va in questa direzione.

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Un commento

  1. Paola 27 marzo 2021

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