Emergenza climatica: i rischi

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Un appello pubblicato su Nature la scorsa settimana, e firmato da sette esperti in climatologia, oceanografia, ecologia e sostenibilità, richiama l’attenzione sui tipping points, o punti di non ritorno, dei cambiamenti climatici. L’appello esamina le crisi più probabili ed evidenzia come, nonostante vi sia ancora molta incertezza su quando avverranno quelle discontinuità che potrebbero accelerare il collasso climatico e ambientale del pianeta, rischiare non sia affatto un’opzione responsabile. Immagine fornita dall’U.S. Geological Survey (USGS) EROS Data Center Satellite Systems Branch. Fonte: NASA/USGS Landsat 7; NASA Earth Observatory.

groenlandia

Sette ricercatori esperti in climatologia, oceanografia, ecologia e sostenibilità hanno lanciato una settimana fa su Nature un appello circostanziato che suona così: la scienza non può ancora dire se non con molta incertezza quando avverranno quelle discontinuità che potrebbero accelerare il collasso climatico e ambientale del pianeta. Ma scommettere contro i punti di non ritorno (tipping points) non è affatto saggio. Bisogna agire subito. Segue la disamina delle crisi più probabili, e del rischio che facciano massa portando il sistema fuori controllo.

Minaccia dagli oceani

Il primo rischio è l’innalzamento dei mari a seguito dello scioglimento dei ghiacci, in particolare dell’Antartide occidentale (mare di Amundsen) e orientale (bacino di Wilkes) e della Groenlandia. Sommando i tre scioglimenti, si arriverebbe alla bella cifra di 13 metri di innalzamento dei livello dei mari. La catastrofe non è dietro l’angolo (dai 1.000 ai 10.000 anni a seconda che si fermi a +1.5°C o a 2°C). Ma se, per una serie di feedback la temperatura in questo secolo aumentasse di più, anche molto di più?

La carambola climatica

Altro sorvegliato speciale è l’Artico, il cui scioglimento non aumenta il livello dei mari, che ha una probabilità del 10-35% di essere libero da ghiaccio in estate se ci fermiamo a 2°C, con conseguenze sul Capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (AMOC). A sua volta, l’AMOC è fondamentale per il trasporto del sale e del calore globale attraverso l’oceano. Quindi, in una sorta di carambola che coinvolge tutto il Pianeta, il rapido scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia e l’ulteriore rallentamento dell’AMOC potrebbero destabilizzare il monsone dell’Africa occidentale, innescando la siccità nella regione del Sahel in Africa. Un rallentamento dell’AMOC potrebbe anche alterare il ciclo dell’acqua dell’Amazzonia, perturbare il monsone dell’Asia orientale e causare l’accumulo di calore nell’Oceano Australe, il che potrebbe accelerare la perdita di ghiaccio in Antartide.

Un’altra vittima del riscaldamento globale sono i coralli, che possiamo dare per persi con un aumento complessivo di 2°C, per il combinato di riscaldamento, acidificazione degli oceani e inquinamento.

Amazzonia e permafrost 

Uno dei tipping point potrebbe riguardare anche l’Amazzonia una volta raggiunto un tasso di deforestazione compreso fra il 20 e il 40%. Il 17% della copertura forestale è stato già perso dal 1970. Altro coprotagonista del collasso è lo scioglimento del permafrost nella zona dell’Artico nei prossimi 100 anni, con conseguente rilascio accelerato di CO2 e metano, gas serra 30 volte più potente della CO2.

La cascata globale dei punti di non ritorno

La previsione di una “cascata globale di tipping point” con effetti catastrofici è affetta da un margine di incertezza ancora notevole, come lo sono previsioni più ottimistiche. Scommettere sulla prima è precauzione, scommettere sulla seconda è azzardo. Peraltro, i sette scienziati rivelano che i lavori in corso del sesto report IPCC (che verrà reso noto nel 2021) fanno pendere l’ago della bilancia verso il primo scenario. “Alcuni dei primi risultati dei più recenti modelli climatici indicano una sensibilità climatica molto maggiore (definita come la risposta della temperatura al raddoppio della CO2 atmosferica) rispetto ai modelli precedenti”. Alcuni ricercatori si sono spinti a dare il 45% di probabilità a questo scenario di collasso globale, in cui i diversi tipping point occorrono contemporaneamente.

Cosa fare allora?

Abbiamo al massimo 30 anni per arrivare ad azzerare le emissioni nette di gas serra. Il che comporta una straordinaria accelerazione dei processi di decarbonizzazione se è vero che abbiamo ancora una riserva di 500 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2 da emettere prima di eccedere l’obiettivo più ambizioso di fermare il riscaldamento a 1.5°C. «Le emissioni di permafrost potrebbero ammontare a 100 Gt di CO2 (un quinto della riserva), senza includere il metano proveniente dal permafrost profondo o dagli idrati sottomarini. Il collasso dell’Amazzonia potrebbe rilasciare altri 90 Gt di CO2 e le foreste boreali altri 110 Gt di CO2. Con emissioni globali totali di CO2 ancora superiori a 40 Gt all’anno, il budget rimanente potrebbe essere cancellato».

Per questo, concludono gli autori, rischiare non è un’opzione responsabile, ed è del tutto legittimo dichiarare l’emergenza climatica, oltre a investire ancora di più nella ricerca per ridurre i margini di incertezza dele nostre previsioni.

Fonte: Timothy M. Lenton, Johan Rockström, Owen Gaffney, Stefan Rahmstorf, Katherine Richardson, Will Steffen, Hans Joachim Schellnhube, «Climate tipping points: too risky to bet against», Nature 575 (2019), 592-595. Articolo pubblicato su Scienza in rete il 5 dicembre 2019.

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