Energia in tempo di guerra

di:

guerra ucraina

Nicola Armaroli è autore del volume “Emergenza energia. Non abbiamo più tempo”, Edizioni Dedalo. Lo abbiamo intervistato sul tema del gas e dell’energia in Italia nei giorni della guerra.

  • Dottor Armaroli, vuole presentarsi ai lettori della nostra rivista?

Sono un chimico, ho studiato in particolare fotochimica – ossia i processi chimici indotti dalla luce -, quindi la conversione dell’energia solare in altre forme di energia. La mia formazione mi ha portato a sviluppare interesse per la transizione energetica in relazione ai cambiamenti climatici. Ho pubblicato saggi e testi su questa materia. Ho scritto in passato sui temi ambientali per la Rivista di Teologia morale diretta da padre Luigi Lorenzetti, di cui ho un ricordo di grande stima.

Lavoro per il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Non è mio compito insegnare ma mi capita di tenere lezioni in Università e Centri di ricerca. Collaboro con il Ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile.

  • Per ragioni di attualità, qui le pongo domande sul tema del “gas naturale”. Vuole innanzi tutto chiarire che cosa si intende con tale denominazione?

Questa è la denominazione tradizionale che continua ad essere usata benché in qualche modo superata dalla storia: per gas naturale si intende quel gas che si sprigiona naturalmente dalla terra in alcune località.

Chiaramente il gas naturale viene estratto artificialmente, in grandi quantità, dai giacimenti. Si tratta di una miscela di gas in cui il metano costituisce il componente più rilevante, dall’80% al 100%. Il gas estratto in Algeria, ad esempio, contiene l’83% circa di metano; il gas estratto in Russia contiene il 98% di metano, ed è quindi un gas di ottima qualità. Altri gas contenuti nel gas naturale sono l’etano, il biossido di carbonio – o anidride carbonica – e l’elio.

È possibile produrre gas naturale anche dalla fermentazione dei rifiuti organici, da reflui zootecnici o dalle acque nere fognarie; in questo caso si tratta di biogas, ossia di una miscela di metano e di anidride carbonica: una volta ripulito dalla anidride carbonica, il metano può essere utilizzato come biometano, un gas ancora più naturale – se così si può dire – di quello già definito come tale.

La dipendenza italiana
  • Quanto il gas naturale determina la produzione di energia in Italia?

I dati mostrano una dipendenza – che non esito a definire patologica – del nostro Paese dal gas per la produzione energetica. Cito, da una fonte britannica molto attendibile, i dati relativi al mix energetico del nostro Paese nell’anno 2020: dal gas proviene il 41,55% dell’energia totale prodotta in Italia, dal petrolio il 36,3%, dall’acqua in caduta (energia idroelettrica) il 7,0%, dal sole (energia solare) il 4,0%, dal carbone il 3,5%, dal vento (energia eolica) il 2,8%, da altre fonti rinnovabili il 3,5%.

Come facilmente si può notare il nostro mix energetico è fortemente spostato sull’impiego di gas: oltre il 40%, il che vuol dire 76 miliardi di metri cubi all’anno. Si consideri che la percentuale di gas nei mix energetici degli altri Paesi europei si aggira in media sul 25%.

  • Per quali ambiti di produzione di energia viene impiegato tutto questo gas – 76 miliardi di metri cubi – in Italia?

La parte maggiore – 30 miliardi di metri cubi – viene impiegata per produrre energia elettrica nelle centrali termoelettriche, 20 miliardi vengono consumati nelle abitazioni per gli usi domestici, 10 nell’industria, 3 nel commercio e 2 per altro.

Questi sono dati dell’ARERA, l’autorità di regolazione per l’energia. Come nota, la somma non dà esattamente il totale di 76 miliardi di metri cubi l’anno di cui stiamo parlando. In Italia ci sono ben sei agenzie che forniscono dati che non sempre collimano tra loro. Gli ordini di grandezza sono comunque questi.

  • Da quali Paesi proviene il gas impiegato in Italia?

Dei 76 miliardi di metri cubi, 29 miliardi di metri cubi – quindi il 38,15% – provengono dalla Russia, 25 miliardi dall’Africa (principalmente dall’Algeria), 7 dall’Azerbaigian, 3 dalla produzione nazionale; 10 miliardi di metri cubi vengono immessi nella rete dagli impianti di rigassificazione posti sul mare e provengono da altri Paesi vari.

Ciò che ci dicono i dati ancora – e che può apparire sorprendente – è che dall’Italia sono pure usciti nel 2021 – quindi sono stati esportati – 1,5 miliardi di metri cubi, una quantità pari alla metà della produzione nazionale, la stessa che ora si vuole incrementare per il fabbisogno interno. Da qualche anno, infatti, i punti di ingresso del gas in Italia possono funzionare anche da punti di uscita.

  • Perché dall’Italia viene esportato del gas, visto che ne abbiamo tanto bisogno?

Dobbiamo avere ben chiaro che non è lo Stato a commercializzare il gas, così come non è lo Stato a commercializzare il petrolio. Sono le aziende private – sia pure a partecipazione pubblica – a farlo. Lo Stato dà in concessione i pozzi di estrazione e soprattutto le reti di adduzione e di distribuzione.

Ma sono le aziende a decidere da chi acquistare e a chi vendere, secondo una propria logica di mercato. In Italia, quindi, non è, almeno in primo luogo, il governo a decidere dove acquistare, a chi vendere e dove trasmettere gas, bensì le aziende energetiche e delle reti. La parte del leone sul gas la fanno ENI e SNAM. Nel mercato interno italiano operano poi altre aziende, che operano anche nella distribuzione al cliente finale.

Un gas da usare
  • Quali sono i punti di ingresso (e dunque di uscita) dei gasdotti nel territorio nazionale?

Dal gasdotto in ingresso dal passo di Gries in Piemonte arriva il gas norvegese e olandese, dal Tarvisio il gas russo (che arriva in più modica quantità anche da Gorizia), da Meledugno in Puglia arriva il gas dall’Azerbaigian, da Mazara del Vallo e Gela in Sicilia arrivano rispettivamente i gas dall’Algeria e dalla Libia. I tre impianti di rigassificazione sono a Panigaglia in Liguria, nei pressi di Livorno (per quanto riguarda il Tirreno), a Cavarzere in provincia di Rovigo (per quanto riguarda l’Adriatico).

  • Che differenza c’è tra gas da gasdotti e gas da impianti di rigassificazione? Quali vantaggi e svantaggi?

Chiaramente il gasdotto è una struttura fissa. Ha il vantaggio di essere ammortizzata da lungo tempo e a costi di trasporto più contenuti – con compressori piazzati ogni 20-50 km per sospingere il gas nella tubazione -, ma ha lo svantaggio di essere legata solo a ben precisi fornitori.

Gli impianti di rigassificazione sul mare hanno il vantaggio di poter ricevere gas liquefatto da qualsiasi fornitore nel mondo, ma hanno lo svantaggio di una maggiore complessità di esercizio e quindi maggiori costi.

  • Il presidente americano Biden avrebbe promesso ai Paesi europei più gas dagli Stati Uniti, per sopperire all’eventuale interruzione delle forniture dalla Russia. Di quale gas si tratta, ottenuto e trattato come?

Il gas statunitense viene estratto in numerosi stati con la tecnica del fracking o fratturazione idraulica. A differenza del gas russo e algerino, il gas statunitense non è estratto per semplice trivellazione verticale. Per farlo fuoriuscire in superficie, si inietta infatti acqua ad alta pressione in profondità, producendo la spaccatura delle rocce che lo imprigionano; il gas liberato viene convogliato in condutture sino al golfo del Messico, ove viene liquefatto abbassandone la temperatura sino a 162 gradi sotto lo zero riducendone il volume di 600 volte, in maniera da poterlo stoccare sulle navi metanifere che solcano gli oceani e i mari sino all’Asia e all’Europa.

Tutto questo complesso processo – e lungo percorso – ha ovviamente dei costi economici e ambientali decisamente più alti. Tra l’altro, lungo la filiera descritta, avvengono perdite di significative quantità di metano nell’atmosfera. Ricordo che la molecola del metano è clima-alterante, decine di volte più della stessa anidride carbonica.

  • Come viene determinato il prezzo del gas che consumiamo in Italia?

Il mercato del gas è complicato e, in buona misura, oscuro. Esistono infatti due tipi di mercati. C’è il mercato basato sui contratti a lungo termine da fornitori fissi (principalmente via tubo, ma anche via mare) a cui ho fatto in precedenza riferimento e c’è il mercato cosiddetto spot.

Nei contratti a lungo termine la determinazione del prezzo e il pagamento avvengono in anticipo rispetto alla fornitura: il prezzo in questo caso può subire oscillazioni, ma minime. Se quindi il prezzo di mercato sale – come è salito in questi ultimi mesi – le aziende titolari dei contratti, rivendendolo al cliente finale, realizzano extra-profitti: è quello che è accaduto e sta accadendo.

Il mercato a spot – basato in Olanda – è soggetto a più grandi fluttuazioni, anche di giorno di giorno, secondo le disponibilità e le speculazioni. Le notizie di guerra ovviamente lo hanno fatto lievitare. Ma l’aumento del prezzo era in atto già da prima della guerra in Ucraina.

Da tutto ciò che ho detto deriva l’aumento – di per sé totalmente ingiustificato – delle bollette del gas e dell’energia pagate degli italiani. Ora il gas costa in Italia dieci volte tanto rispetto ad un anno fa, ma non c’è nessuna ragione fisica o di mercato che giustifichi un tale incremento.

  • Perché ha parlato di oscurità nei costi?

Perché i contratti a lungo termini sono oscuri: nessuno ne conosce i termini. Ad esempio, nessuno sa quanto la società italiana ENI paghi il gas alla russa Gazprom: è un vero e proprio segreto di stato.

  • Quanto gas statunitense – da rigassificare – giunge attualmente in Italia?

Dei 10 miliardi di metri cubi all’anno che giungono in Italia e passano attraverso la rigassificazione, meno di 1 miliardo proviene attualmente dagli Stati Uniti.

Il resto, ossia la maggior parte, proviene da Qatar, Algeria, Nigeria, Angola: è gas appunto liquefatto per consentire il trasporto via nave, ma in questi paesi è estratto con la tecnica tradizionale della trivellazione verticale.

  • Quanto gas da rigassificare potrebbe provenire dagli Stati Uniti per l’Italia e per l’Europa?  

Al massimo 50 miliardi di metri cubi all’anno per tutta l’Europa. Solo una parte potrebbe finire in Italia. Se l’obiettivo è fare a meno dei 29 miliardi che attualmente giungono dalla Russia, saremmo lontani.

  • Servirebbero nuovi impianti di rigassificazione?

Sì e no. Consideriamo che i 3 impianti a disposizione – di cui uno galleggiante e 2 fissi – stanno lavorando al 70% delle loro potenzialità. Per scaricare una nave servono dai 4 ai 5 giorni. Per realizzare nuovi impianti fissi servono parecchi anni.

Pare però che si stia cercando sul mercato qualche impianto galleggiante già disponibile, ossia una nave o più navi attrezzate allo scopo. Il rigassificatore di Livorno è di questo tipo.

Il gas russo
  • Si dovrà necessariamente andare in questa direzione?

Francamente non penso che la Russia voglia chiudere il rubinetto del gas all’Europa: la Russia è nella necessità di venderlo – incassando 800 milioni di euro al giorno – ma, allo stesso tempo, l’Europa è nella necessità di acquistarlo.

Lo stesso gas non può essere deviato verso altri Paesi destinatari: non esistono gasdotti dal nord della Siberia verso la Cina e, per farli, servono almeno 3 anni. I fornitori alternativi citati non sono poi – se guardiamo alle aree geopolitiche – così affidabili. Ma in un mondo guidato da una politica irresponsabile e irrazionale tutto può succedere.

  • Supponiamo che questo accada, ossia che la Russia chiuda il rubinetto ovvero che l’Italia – con l’Europa – voglia farne a meno…

Per quanto mi riguarda, l’obiettivo del nostro Paese non può e non deve essere soltanto quello di fare a meno del gas russo: l’obiettivo deve essere chiaramente quello di fare a meno del gas!

Non dimentichiamo che il problema più serio che ha di fronte l’umanità – intanto che si fa ancora la guerra – è un cambiamento climatico dagli effetti devastanti, determinato dall’uso sconsiderato dei combustibili fossili, petrolio e gas.

  • Come fare per emanciparci dal gas russo e non solo russo?  

La prima cosa da fare è diminuire i consumi di gas. In ogni caso. Col semplice risparmio è possibile abbattere il consumo di 7-8 miliardi di metri cubi all’anno, circa il 10% del totale (il 25% del gas russo).

Diminuire i consumi vuol dire tenere un atteggiamento molto più responsabile come consumatori, recuperando un senso della sobrietà e del limite che abbiamo smarrito da tempo.

Anche solo l’abbassamento di un grado di temperatura nelle abitazioni e una doccia di 3 minuti anziché di 10 – moltiplicato per milioni di abitanti – significa un grande risparmio. Questa è l’unica cosa che si può fare subito. In Germania hanno già cominciato.

L’altra cosa da fare al più presto è sostituire i 30 miliardi di metri cubi di gas con cui viene prodotta energia elettrica con energie rinnovabili.

Ricordo che l’Italia sino al 2011 era giunta a una buona crescita del settore elettrico rinnovabile – circa 11 gigawatt installati in un solo anno -, ma poi, di punto in bianco, tutto si è fermato o quasi: sono quindi più di dieci anni che non si investe più in modo significativo in impianti rinnovabili.

Energia rinnovabile
  • Perché ci si è fermati in Italia nella installazione di rinnovabili?

È stata unicamente una scelta politica, evidentemente sbagliata. Ci siamo legati al gas e ci siamo negati le rinnovabili. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti.

  • Possiamo in breve tempo riprendere l’installazione di impianti ad energie rinnovabili? Quanto tempo serve?

Il gruppo di aziende di Confindustria impegnato nella produzione di energie rinnovabili dice di essere pronto a realizzare progetti per 60 gigawatt.

I progetti sono già pronti e depositati da tempo: se fossero approvati entro giugno di quest’anno, potrebbero essere portati a produzione nel giro di due anni. 60 gigawatt significherebbero l’equivalente di 15-20 miliardi di metri cubi di gas, un altro 20% almeno del totale (il 60% circa del gas proveniente dalla Russia).

Questo – sì – sarebbe un colpo esiziale alla dipendenza dal gas, russo o non russo che sia.

  • Quali aziende sono in grado di realizzare questi progetti in tali tempi?

L’Enel, ad esempio. Ha 20 miliardi di euro pronti da investire in progetti in Italia, il che vuol dire numerosi gigawatt.  Dobbiamo sapere che l’Enel è in questo momento la più grande azienda di rinnovabili al mondo: ha installato e sta installando soprattutto in America, sia in nord America che in sud America.

Ma non lo sta facendo ancora, nella stessa misura, in Italia. Le autorizzazioni che possono dare il via libera a tali progetti dipendono solo dalla politica, a vari livelli: dal governo – ministeri della transizione ecologica e beni ambientali in primo luogo – alle Regioni, agli enti locali.

  • Il famoso P.N.R.R. ha a che fare col sostegno a questi progetti?  

Il P.N.R.R. prevede investimenti in ricerca, specie sul vettore idrogeno e sulla conversione energetica dei trasporti. Con le risorse del P.N.R.R. si investe sul futuro.

Mentre io sto parlando di ciò che si può e si deve fare da ora senza perdere altro tempo, chiaramente con le tecnologie disponibili ad oggi. Per quanto riguarda il fotovoltaico, non si tratta di mettere a punto, con la ricerca, ad esempio, altri tipi di pannelli solari, bensì di installare quelli che già abbiamo a disposizione.

Ripeto a questo proposito quanto ho già detto prima: nel nostro sistema, allo Stato spetta dare orientamenti e incentivi, ma poi sono i privati a dover fare gli investimenti. I fondi del P.N.R.R. da sé, evidentemente, non bastano per compiere la transizione energetica.

  • Quando parla, dunque, di rinnovabili, si riferisce innanzi tutto al fotovoltaico?

Certamente sì, almeno per l’80%. Impianti fotovoltaici possono essere facilmente installati in grande numero in siti già individuati, quali grandi impianti industriali dismessi, sui tetti dei capannoni delle aree industriali, su cave abbandonate, su terreni non utilizzati e non utilizzabili in agricoltura, in zone di degrado che potrebbero essere così pure risanate. Gli spazi non mancano. Ma bisogna correre!

  • Disponiamo in Italia dei materiali che servono per le installazioni fotovoltaiche su così larga scala?  

Quasi tutti i materiali provengono attualmente da Cina, Taiwan, Giappone, perché questi Paesi hanno prodotto e producono tuttora a prezzi più bassi. Mi vien da dire che è stato grazie a loro che i prezzi dei materiali per il fotovoltaico sono crollati nel tempo, anche in Italia.

Ma ora ci sono 200 nazioni al mondo interessate a questi materiali. C’è una quantità enorme da mettere a disposizione dell’umanità. Per questo l’Unione Europea sta pensando di realizzare progetti industriali di produzione di pannelli fotovoltaici in Europa. Qualcosa si sta muovendo anche in Italia. Le produzioni manifatturiere stanno tornando nel nostro Paese.

Ciò che serve per il fotovoltaico lo possiamo tranquillamente produrre in Italia e in Europa. Inizialmente potrà costare di più. Ma questo passaggio è inevitabile e necessario, se vogliamo emanciparci da tutte le attuali dipendenze.

Materie prime
  • Resterebbe il problema delle materie prime: sentiamo dire di litio, cobalto e altro che non abbiamo. Come fare?

Per quanto riguarda i pannelli fotovoltaici serve soprattutto il silicio che è uno degli elementi più disponibili sulla terra.

Semmai potrebbe esserci qualche problema di reperimento del rame e dell’argento per le connessioni elettriche. Litio, cobalto e altro servono per le batterie di accumulo. Rischi nelle forniture potrebbero esserci. Ma ora siamo in grado di concepire una tecnologia di carattere diverso dal passato: circolare, non più lineare. Questo è decisivo.

  • Che cosa vuol dire economia circolare, anziché lineare, nel nostro caso?

Abbiamo usato e continuiamo ad usare le risorse fossili – tra le quali il gas – in maniera lineare, ossia aperta, a perdere, combinando così un grande disastro. Spiego.

Bruciando del gas per riscaldare dell’acqua che ci serve in casa per gli usi domestici quotidiani, oppure della benzina che serve per muovere le macchine, produciamo calore e anidride carbonica che va in atmosfera. Una volta bruciata la risorsa fossile è già estinta: non si può recuperare più nulla. Ma noi viviamo in un mondo in cui queste risorse sono limitate. Non ci possiamo permettere di sprecarle così, sino all’esaurimento.

E questo resta vero anche se non avessimo il gravissimo problema del cambiamento climatico. Perciò dobbiamo necessariamente prevedere il recupero e il reimpiego di ogni materia prima. L’unica risorsa che possiamo ritenere illimitata è la luce del sole.

Il fotovoltaico, con altre rinnovabili, impiega dunque la risorsa illimitata del sole e ricorre a materie prime che possono essere recuperate e reimpiegate. È questo il passaggio – da lineare a circolare – che dobbiamo ormai decisamente realizzare nel settore della energia, così come in tutti i settori.

  • Possiamo dire le stesse cose dell’energia eolica, ossia dal vento?

L’eolico costituisce una rinnovabile per cui si possono dire le stesse cose, ma la tecnologia eolica ha meno prospettive di realizzazione, in Italia, per ragioni paesaggistiche.

Io sono d’accordo che queste ragioni vadano salvaguardate, ma con equilibrio e coerenza: non capisco, ad esempio, come si possano vietare le pale eoliche in un progetto di Renzo Piano per il porto di Genova, per poi continuare a farne lo scalo del carbone per le centrali termoelettriche. Inoltre, non ovunque si può praticare l’eolico.

I siti favorevoli sono concentrati in Puglia, Sardegna, Sicilia e sull’Appennino meridionale. In pianura padana non avrebbe ovviamente senso mettere pale eoliche, perché non c’è vento.

Politiche di governo
  • Tuttavia, il governo italiano, nell’immediato, sembra voler ripristinare le centrali a carbone.

Se venissero riattivate tutte le centrali a carbone dismesse o in via di dismissione, si recupererebbero al massimo 7.000 megawatt, su una richiesta giornaliera di picco che varia dai 45.000 e i 55.000 megawatt: parliamo quindi di poco.

Enel sta peraltro dicendo che lo farà solo se glielo chiederà il governo, perché i loro programmi prevedono la chiusura di tutte le centrali a carbone e, come ho detto, grandi investimenti in energie rinnovabili.

  • Si ritorna a parlare – a livello di governo – anche di nucleare: lei cosa ne pensa?

Parlare di nucleare in Italia è, per me, una perdita di tempo, per almeno quattro ragioni, l’ultima delle quali è divenuta evidente proprio in questi giorni. La prima ragione è che in Italia non esistono siti favorevoli per l’installazione di centrali nucleari e per il deposito delle scorie: il 94% dei Comuni italiani è a rischio idrogeologico e/o sismico.

La seconda ragione è che non ci sono investitori pronti per questo. La terza è che non c’è più tempo: se oggi la politica decidesse di fare le centrali nucleari, la prima sarebbe pronta a funzionare, nella migliore delle ipotesi, verso il 2040, mentre ci siamo impegnati a completare la nostra transizione entro il 2050, il che vuol dire, in buona parte, entro il 2030.

La quarta ragione – a cui evidentemente nessuno aveva mai pensato prima di vedere i carri armati e le trincee accanto alla centrale di Chernobyl – è che la guerra è uno degli eventi più probabili nella storia dell’umanità. Sono state costruite per 70 anni centrali nucleari senza mai pensare a questa eventualità. È incredibile, ma è così.

  • Qual è, per tutto questo, il suo personale impegno?  

Da consulente ministeriale, per quanto di mia competenza, mi sto spendendo con convinzione per tutto ciò che ho detto qui: un piano immediato di risparmio di gas e di energia, un cambio radicale nel settore dei trasporti, un programma di installazione nel minor tempo possibile di impianti ad energie rinnovabili e soprattutto un’azione educativa che porti ad un cambio radicale di mentalità.

Dobbiamo davvero renderci tutti consapevoli che viviamo su un pianeta dalle risorse limitate e in un Paese estremamente esposto. Dobbiamo cercare in tutti modi di uscire al più presto da questa situazione molto pericolosa.

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