Felice Gimondi, nato per vincere

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Parto da un ricordo personale: io ragazzino tredicenne, lui giovane promessa poco più che ventenne. Corre con la maglia del suo paese, la Sedrinese, maglia a strisce bianconere verticali (a quei tempi la pubblicità sulle maglie era vietatissima!). La gara è a Tirrenia, sul lungomare pisano, si tratta di una selezione voluta dal cittì dei dilettanti Elio Rimedio perché ai campionati del mondo sarà introdotta la cronometro a squadre.

L’anno deve essere il 1963. I corridori, selezionati tra i più forti passisti italiani, gareggiano a squadre di quattro. Il giovane Gimondi viene incluso nel quartetto guidato da un atleta già noto, Dino Zandegù, e dà un apporto determinante alla vittoria.

Ricordo il dopocorsa, quando i tifosi si aggirano tra le ammiraglie, ciascuno in cerca del suo beniamino. Il giovane Felice (e tale sarà molte volte, per le sue cento e più vittorie) se ne sta seduto per terra, si rinfresca versandosi un po’ d’acqua in testa, circondato da suoi compaesani. Ho ancora negli occhi il fotogramma di quel volto che pochi anni dopo avrei ritrovato tante e tante volte in televisione, sul podio del vincitore.

Perché era davvero “nato per vincere”, come il titolo del libro di uno psicologo americano.

Vince il Tour dell’avvenire, vince la cronometro a squadre alle Olimpiadi, debutta tra i professionisti. È terzo al Giro d’Italia e poi la sua squadra – la Salvarani, che grazie al ciclismo incrementa la vendita di cucine negli anni del boom economico, quando le famiglie buttano via antichi mobili di legno per sostituirli con la formica – lo iscrive al Tour in sostituzione di un altro atleta che ha marcato visita. Doveva fare qualche tappa e poi eventualmente ritirarsi, aiutando finché può il suo capitano Vittorio Adorni, già trionfatore al Giro. E invece si ritira Adorni e il giovane rincalzo veste la maglia gialla, la perde, la riconquista e, come ai tempi di Bartali cantati da Paolo Conte, di nuovo i francesi si incazzano: aspettavano la vittoria di Raymond Poulidor, eterno secondo dietro a Jacques Anquetil, ma questa volta che Anquetil non c’è, dovrà arrendersi di fronte al giovane bergamasco.

Nato per vincere, Felice davvero. Come fino ad allora aveva saputo fare solo Anquetil, Felice da Sedrina vince i tre grandi Giri: d’Italia, di Francia e di Spagna. Impresa per pochissimi eletti, l’ultimo dei quali è Vincenzo Nibali.

Nato per vincere, finalmente l’Italia vede il lui il corridore capace di rinverdire le glorie di Binda e Guerra, di Coppi e Bartali. Ma la sua strada è attraversata da un nato per vincere più di lui, più giovane di lui, forte quanto e più di lui: Eddy Merckx, il più forte di tutti, più a cronometro, più in salita, più in volata, più nelle classiche, nei grandi giri, in pista, nei circuiti di paese. Non a caso lo chiameranno il Cannibale.

Gimondi diventa un grande campione sulla scia di Merckx, nonostante Merckx e anche grazie a Merckx. Anche quando sa di essere battuto non rinuncia mai alla sfida, da vero combattente mai domo, atleta potente e intelligente, scaltro il giusto e sempre nel vivo della battaglia, non si nasconde mai da vero amante della corsa in testa.

Estraggo dall’album dei ricordi un altro fotogramma sulle strade della mia Toscana, Gran premio di Camaiore del 1971. Ultimo passaggio dalla salita del Monte Magno, una rampa non dura, da affrontare a tutta. Soli davanti a tutti, ormai imprendibili, passano Gimondi e Merckx. Inutile dire chi vincerà, ma il ricordo bello è aver applaudito due grandi campioni che volano appaiati verso il traguardo.

Quello di Gimondi è un modo di essere e poi di correre – esserci, esserci sempre, è l’unico modo per prima o poi vincere – che gli frutterà uno dei più bei trionfi, il mondiale spagnolo di Montjuic nel ’73, col grande Merckx stavolta soltanto quarto.

Del Gimondi corridore ma anche uomo, marito, padre avevano già raccontato vari servizi e interviste, che in questi giorni sono rimbalzate in tv e sui social. Gimondi che racconta le sue imprese, le sue sconfitte, la sua tenacia, le storie di un ciclismo forse oggi irrecuperabilmente snaturato, i tentativi (purtroppo inutili) di stare accanto a Marco Pantani, il rispetto degli avversari a cominciare da Merckx. Gimondi per il quale le gioie più grandi non sono le vittorie, ma il matrimonio e la nascita delle figlie. Gimondi che, sceso di bicicletta, ha distribuito saggezza, equilibrio, senso del dovere, tenacia, fedeltà.

Non possiamo che dirgli un grande grazie. Glielo dico anch’io, che a quel tempo fui tifoso di Gianni Motta.

don Antonio Cecconi

Calci, 18 agosto 2019

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