Genova 2001: non solo Carlo Giuliani

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Una coincidenza irriverente, a quindici anni dai fatti di Genova, vede la nostra democrazia ancora accartocciata e incapace di definire il reato di tortura.

I tre giorni del G8 di Genova di quindici anni fa – venerdì 20, sabato 21 e domenica 22 luglio – sono entrati nel libro nero della storia della Repubblica. Perché  fu ucciso da un carabiniere un giovane, Carlo Giuliani, durante uno degli scontri di piazza, la prima vittima dai lontanissimi  anni ’70 nel corso di una manifestazione; perché forze dell’ordine compirono violenze inaudite e perfino torture su inermi cittadini, come stabilirono le sentenze della magistratura italiana passate in giudicato e come sentenziò perfino la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo;  perché segnarono l’inizio della fine del movimento no global così come fino ad allora si era espresso, almeno in Italia, in tutta la ricchezza delle sue componenti, compresa quella cattolica. Niente fu più come prima.

Pensavamo che il peggio fosse passato

Quella mattina di sabato 21 luglio 2001 Genova ci accolse con un sole che sprizzava gioia da ogni raggio. Eravamo almeno in centomila nel corteo che lentamente, per il lungomare, si avviava verso il centro della città dove in quei giorni si riunivano i capi di governo degli otto paesi più industrializzati del mondo e dove si erano dati appuntamento, già da alcuni giorni, i movimenti no global, pacifisti, ecologisti, riuniti per lo più sotto la sigla di Genoa social forum, che contestavano le politiche neoliberiste della globalizzazione imperante, che nelle periodiche riunioni degli otto “grandi” celebrava il suo massimo rito politico.

Ma l’atmosfera tra i manifestanti era dimessa, c’era tristezza, c’era rabbia, perché il giorno prima durante uno scontro in piazza Alimonda nel capoluogo ligure era stato ucciso da un carabiniere il giovane Carlo Giuliani. C’era però anche la ferma determinazione a non mollare, a non cedere ai violenti, a non rinunciare al diritto di affermare tutti insieme che «un altro mondo è possibile». Quella mattina, mentre sfilavamo sotto il sole, pensavamo che il peggio fosse passato, che dopo la morte di Giuliani fosse diventato inevitabile per tutti un soprassalto di nonviolenza e responsabilità. Pensavamo che l’anima vera e grande dei movimenti di contestazione delle politiche neo liberiste della globalizzazione avesse il dovere di mostrarsi all’Italia e al mondo in tutta la sua forza nonviolenta, positiva, operosa anche festosa.  Fu una ingenuità. I violenti avevano deciso, programmato, altrimenti.

Molte idee, un unico corteo

Genova G8 2001

Il corpo di Carlo Giuliani, il ragazzo morto in piazza Alimonda a Genova durante gli scontri del G8, circondato dagli agenti di polizia, in un’immagine d’archivio del 20/7/2001 (Luca Zennaro / ANSA)

Nel corteo che procedeva lentamente c’era di tutto: scout e famiglie con bambini, sindacalisti e studenti, militanti della sinistra che avevano portato la bandiera a tutte le manifestazioni degli ultimi decenni e giovani alle prime armi, magari cresciuti in parrocchia, ecologisti, persone di ogni regione italiana e di ogni età che da anni erano impegnate nel volontariato e nella costruzione di frammenti di vita, personale  e comunitaria, sottratta alla logica del profitto. Io ero col gruppo dei trentini, seicento, arrivati coi pullman. Rappresentavo il Forum per la pace. Anche in Trentino, come in altre regioni italiane, quell’appuntamento col G8 di Genova era stato accuratamente preparato da mesi, con riunioni, dibattiti, iniziative di formazione e sensibilizzazione. Un’attività diffusa e partecipata. Mentre scrivo queste note ho qui davanti le schede che diffondeva la Rete di Lilliput dove si spiegava cosa erano, come funzionavano, quali politiche adottavano  il G8, il WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio), Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, e quali conseguenze concrete avevano soprattutto sui paesi più poveri. Schede chiare e accurate che venivano utilizzate negli incontri come traccia di riflessione e discussione.

Per capire cosa era il movimento no global – che non erano solo i gruppetti che assaltavano i bancomat, spaccavano le vetrine di certe aziende e che si prendevano sempre le prime pagine dei giornali e dei telegiornali, per la gioia loro e di tutti i conservatori e reazionari – diamo un’occhiata anche a un volantino diffuso alcuni giorni prima, sempre in un paese del Trentino, Lavis, con il quale si invitava a una «fiaccolata per uno sviluppo solidale» in programma il 19 luglio e intitolata «Col G8 non ci sto».

Vi si affermava:  «Riprendiamo a ragionare insieme, per uno sviluppo sostenibile, per partecipare attivamente, per ridurre le ingiustizie sociali, per non diventare sudditi e merce. Diamo un piccolo segnale!». Si ricordava «dove ci sta portando la globalizzazione selvaggia»: «Mentre il 20% della popolazione mondiale gode dell’86% della ricchezza, tre miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno, il 16% della popolazione del Nord vive in condizione di povertà, il clima è alterato dall’effetto serra, l’acqua è diventata un bene scarso, lo strato di ozono che ci protegge è a rischio, la biodiversità viene drasticamente ridotta».

E poi «Cosa chiediamo per cambiare rotta»: «Ci battiamo per l’affermazione di nuove e più giuste relazioni internazionali e per individuare regole che a partire dalla salvaguardia dell’ambiente, dall’equo accesso alle risorse e dal riconoscimento dei fondamentali diritti sociali, politici e sindacali, si pongano l’obiettivo di garantire a tutti gli abitanti del pianeta, attuali e futuri, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali e la possibilità di ereditare e lasciare un pianeta bello e vivibile».

In calce, 19 adesioni di organizzazioni alla fiaccolata, tra le quali il Gruppo Scout, la Caritas, l’Intesa progressista per l’Ulivo, il Circolo scacchi Cavallo pazzo, il Gruppo speleologico CAI-SAT, l’oratorio, il Gruppo missionario, l’Associazione teatrale Iride, i donatori di sangue, la filodrammatica, la parrocchia, gli Amici dello Sport…

Ecco: a Genova c’era un pezzo di questo mondo così composito, così singolare, così nuovo, che stava segnando in maniera originale, anche nel linguaggio e nello stile, una stagione di impegno sociale e politico che non era più quella degli anni o dei decenni precedenti. Una nuova generazione stava riscoprendo l’impegno attorno ai temi così ben riassunti nel volantino di Lavis.

Fine di una speranza politica

I fatti di Genova distrussero sul nascere quel movimento. Lo distrussero con la repressione inaudita operata da alcuni settori delle forze dell’ordine, che agirono in un contesto politico segnato dal ritorno, poche settimane prima, del centrodestra di Berlusconi alla guida del governo, con Fini di Alleanza Nazionale vicepresidente del Consiglio.

Lo distrussero con la delegittimazione operata scientificamente tramite l’uso propagandistico di buona parte dei media italiani che fecero passare, almeno per alcuni giorni – ma decisivi – l’immagine del movimento no global come dominato dai violenti.

Lo distrussero anche grazie all’incapacità dei leader del movimento no global non violento di isolare e delegittimare a loro volta i violenti. Non era facile, in quel contesto. Ma i leader sapevano cosa stava accadendo e dovevano anche sapere cosa poteva accadere. Dovevano prendere delle contromisure adeguate alla situazione e ai rischi evidenti. Quei centomila manifestanti pacifici dovevano essere protetti. C’era un nuovo movimento da proteggere. Una nuova generazione, anche, che si affacciava per la prima volta al mondo affascinante e pericoloso della politica e anche dello scontro politico. Che non era più, a Genova, il mondo delle fiaccolate di Lavis.

Così non fu. Forse perché molti di quei leader erano “vecchi”, ragionavano da “vecchi”, contrattavano col potere – “vecchio”, “stravecchio” –  da “vecchi”. A Genova non fu ucciso solo il povero Carlo Giuliani (una morte che si poteva evitare, magari non dando la pistola a una carabiniere ventenne durante una manifestazione), non si pestarono e torturarono soltanto degli inermi cittadini (fatto inaudito, di una gravità spaventosa), ma fu uccisa anche una nuova speranza politica.

Disfatta del corteo

Torniamo al corteo. Si cammina. A un certo punto vediamo arrivare improvvisamente un gruppo di manifestanti con caschi e bastoni. Si infilano nel corteo. Poi noi non li vediamo più. Come sono arrivati fin lì con i bastoni e con i caschi? Nessuno li ha fermati. Con migliaia di uomini in divisa in quei giorni a controllare ogni angolo e ogni accesso della città, anche in mare, anche in aria, come mai quei bastoni e quei caschi? Ma non c’era nemmeno un servizio d’ordine a salvaguardare i manifestanti. Se ci fosse stato, gli infiltrati sarebbero stati cacciati,  e forse non si sarebbero nemmeno presentati. I leader, poi, giustificarono con nobili intenti l’assenza di un servizio d’ordine. Ma fu irresponsabile non predisporlo, in quel contesto, sapendo cosa era successo il giorno prima, sapendo che alcune centinaia di Black Bloc avevano agito impunemente distruggendo nel centro di Genova quanto capitava loro a tiro, senza che le forze dell’ordine intervenissero.

Si continua a camminare. A un certo punto piombano davanti a noi, a pochi metri, saltando fuori da nascondigli ai lati della strada, poliziotti in tenuta antisommossa che ci aggrediscono e lanciano lacrimogeni. La strada è stretta, la folla si pigia, non si respira, non si sa dove andare, c’è il rischio di calpestarsi. A fatica, a gran fatica, si riesce a tornare indietro. Il corteo viene frantumato, le persone si disperdono. Mi ritrovo con un gruppetto di trentini a vagare per la città, lungo strade lontane dal centro, cercando di tornare al parcheggio dei pullman. Il nostro peregrinare durerà ore. Chi ha il telefonino cerca di capire dove ci sono punti critici da evitare. Veniamo a sapere che alcuni dei nostri sono stati picchiati dalle forze dell’ordine mentre vagavano per la città. Al loro ritorno alcuni sporgeranno anche denuncia, tra cui un padre con un figlio ragazzo, manganellati solo perché individuati come manifestanti. A sera si arriva al parcheggio, ritroviamo i nostri pullman. Alla spicciolata arrivano gli altri. L’atmosfera è cupa, i racconti cupi, l’amarezza è totale. Si raccolgono notizie, frammenti di fatti dei quali ancora non possiamo comprendere i reali contorni. Il rientro è come il ritorno da una disfatta.

Diaz e Bolzaneto

Ma mentre rientriamo mestamente a Trento, quella stessa notte di sabato 21 luglio alla scuola Diaz si consuma il misfatto. In quella scuola c’è uno dei centri di coordinamento del Genoa social forum. Attivisti, volontari, giornalisti, studenti. Molti stranieri. Alcuni già dormono. Improvvisamente, intorno alla mezzanotte, fanno irruzione nella scuola duecento poliziotti, mentre i carabinieri circondano l’edificio. Nessuno dei presenti oppone resistenza. Eppure, 93 persone vengono arrestate  e picchiate. Anche torturate. I feriti sono 63, in ospedale finiscono in 28. Il vicequestore Michelangelo Fournier lo definirà un pestaggio«da macelleria messicana» (A. Mantovani, Diaz. Processo alla polizia, Fandango 2011).

Intanto, nella caserma Bolzaneto, dove erano portati i fermati e gli arrestati di quei giorni e di quelle ore, si consuma l’altro, vergognoso, misfatto. Decine e decine di inermi cittadini vengono anche qui, e per tre giorni, pestati, umiliati, torturati dalle forze dell’ordine. Rimando per questi ultimi fatti all’impressionante e inoppugnabile libro di Roberto Settembre (Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto, Einaudi 2014), magistrato estensore della sentenza d’appello, poi resa definitiva per la quasi totalità dalla Corte di Cassazione il 14 giugno 2013, con la quale veniva accertata la sussistenza di quasi tutte le 120 condotte illecite da parte di rappresentanti delle forze dell’ordine e si dichiarava che nella caserma Bolzaneto ci fu un «clima di completo accantonamento dei principi cardine dello Stato di diritto».

Processi su processi anche per i fatti della Diaz. Tra mille fatiche dei magistrati, e mille reticenze delle forze dell’ordine. E condanne. Poi, il 7 aprile 2015 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo emette una sentenza nella quale, riferendosi al caso di un manifestante veneto, Arnaldo Cestaro, che vi aveva fatto ricorso, si dichiara che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz «deve essere qualificato come tortura», confermando quanto sentenziato dai tribunali italiani, e si condanna l’Italia al risarcimento della vittima. La Corte rileva anche «la mancata cooperazione da parte della polizia» nell’identificazione dei responsabili. Lamenta anche l’assenza nella legislazione italiana del reato di tortura. Nel gennaio di quest’anno, il governo italiano, di fronte ai numerosi ricorrenti alla Corte di Strasburgo, ha proposto, quale conciliazione amichevole, un risarcimento di 45 mila euro per le vittime delle torture alla Bolzaneto.

Nessuno gridò “Basta! Basta!”

Nella conclusione del suo libro su Bolzaneto, il magistrato Roberto Settembre fa una considerazione che vale la pena riprendere: «A Bolzaneto nessun funzionario gridò “Basta!Basta!” come fece alla Diaz G. N., uno degli uomini di Canterini [comandante del Primo reparto mobile di Roma], per interrompere la mattanza iniziata e conclusa in una manciata di minuti. A Bolzaneto per tre giorni (dal venerdì pomeriggio del 20 luglio al lunedì 23) quegli “ospiti indesiderati assolutamente innocenti” vennero torturati senza soluzione di continuità, mentre l’unico esplicito dissenso venne dalla voce di un carabiniere, subito zittita, quando si accorse dell’immissione del gas in cella» (p. 257).

C’è di che riflettere anche su questo. Certo, sul male, sull’abisso che acceca e inghiotte padri di famiglia e giovani e donne. Cresciuti e allevati con premura, magari anche nella fede cristiana. Ma c’è da riflettere anche sulle nostre istituzioni, quelle preposte alla difesa dei cittadini. Su come formano i difensori dell’ordine costituzionale. Lo stato di diritto è stato sospeso in quelle infelici ore nel nostro paese anche perché nessuno dei protagonisti si è ribellato all’ordine ingiusto. All’azione disumana.

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