Giovani: una parola alla Chiesa /3

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© Tony Antoniou

© Tony Antoniou

Jacopo Solzi è studente del Liceo Artistico Giulio Romano di Mantova, Classe V; Caterina Nicolini è studentessa del Liceo Classico Virgilio di Mantova, Classe V – sono Scout in servizio extrassociativo presso l’associazione “Con vista sul mondo”.

Si dice che ormai viviamo in un mondo globalizzato. Nel corso degli anni, grazie ad internet e alle varie piattaforme social, si sono accorciate le distanze geografiche, rendendo possibile una connessione, diretta e in tempo reale, con la maggior parte del mondo. Eppure, sembra sempre più difficile trovare la forza di uscire dalla propria bolla e cercare di confrontarsi con realtà diverse, toglierci il paraocchi e vedere il mondo nella sua interezza e complessità, distogliendo per un attimo lo sguardo dalla nostra vita che, per quanto ci riservi sempre degli ostacoli, ha il privilegio di essere vissuta in un Paese in pace.

L’indifferenza ci scorre densa nelle vene, abbiamo tutti i mezzi possibili per interessarci e informarci, ma ci sembra sufficiente leggere la testata del giornale online o i titoli di qualche post che ci capita sul feed di instagram o facebook, indignarci un po’ e poi metterci il cuore in pace, dicendo di aver fatto la nostra parte. Quando però queste realtà vengono a bussare alla porta del nostro Paese noi, insieme a tutta l’Europa, voltiamo prontamente le spalle.

Siamo Caterina e Jacopo, due scout del gruppo Mantova 7.

Grazie al servizio svolto con l’associazione “Con vista sul mondo”, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere una famiglia fuggita dall’Eritrea. È di soli cinque membri, ma racconta la realtà di un intero popolo, dominato dalla paura, da incertezze, ma anche da determinazione e grandi sogni.

La loro storia non ci ha lasciati indifferenti e ci ha spinti a scrivere questo articolo, per partecipare, con quante più persone possibili, la loro esperienza e la disastrosa guerra che si sta svolgendo in Eritrea e in Etiopia, nella più totale indifferenza dei media.

Qui abbiamo raccolto le testimonianze del viaggio che ha portato questa famiglia a lasciare la propria casa in Eritrea, fino ad arrivare in Italia, a Mantova, attraverso un corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio.

L’Eritrea è un Paese, da anni, dilaniato da conflitti interni e con gli Stati confinanti; è affidato ad un governo autoritario che controlla e influenza pesantemente la vita dei suoi cittadini, in un clima di paura e povertà.

Il primo a lasciare casa è stato Thomas, il figlio più giovane. Egli ha approfittato dell’apertura dei confini per un mese, nel 2018, per raggiungere in autobus l’Etiopia, dove si rifugia la maggior parte di coloro che lasciano l’Eritrea in cerca di un futuro migliore. Rimanere a casa avrebbe infatti significato dover interrompere gli studi per essere arruolato permanentemente nell’esercito.

Tutti i ragazzi eritrei e tutte le ragazze eritree, per poter concludere il ciclo di studi secondari, devono prestare un anno di servizio militare, e coloro che non riescono a superare gli esami vengono arruolati a vita.

La seconda a partire, 10 mesi dopo, è stata Soliyana, con il figlio di soli sei mesi sulle spalle.  Anche lei voleva evitare il servizio militare. I confini erano già stati richiusi ed ora erano sorvegliati. I soldati non volevano farla passare. Così dopo aver aspettato a lungo, non conoscendo la via, si aggregò ad un gruppo di persone che tentavano di passare di nascosto. Ci riuscirono. Però la strada per arrivare in Etiopia era ancora lunga. Dopo tre ore sotto il sole cocente, tra salite e discese, con Even sulle spalle, è arrivata in un punto dove passavano i pullman e ha raggiunto così il fratello Thomas, a casa della zia.

Non tutti riescono a passare senza problemi.  I militari sorvegliano costantemente il confine eritreo e chi viene catturato, mentre cerca di fuggire, viene scortato a piedi fino a dei campi di prigionia e lavoro. Lì le persone vengono trattenute a tempo indeterminato: si tratta di campi all’aperto, circondati da militari, in cui sono stipate circa 5000 persone, nutrite da tre porzioni di lenticchie al giorno. L’unico modo per farsi rilasciare è la certificazione di una malattia o di una particolare condizione fisica.

Nel settembre del 2019 è partito anche l’ultimo fratello, Temesgen, rimasto fino ad allora per concludere il ciclo di studi che l’aveva successivamente portato ad essere mandato a lavorare come maestro in una scuola vicino alla regione del Tigray. Per raggiungere il posto di lavoro doveva percorrere in bicicletta una strada di due ore, molto pericolosa in quanto vicina al confine. Il suo stipendio era molto basso, a malapena sufficiente per mantenersi. Giunto anch’egli alla conclusione che sarebbe stato meglio uscire dall’Eritrea, partì per raggiungere i fratelli in Etiopia dove si delineava una prospettiva migliore anche se, come rifugiati, non avrebbero potuto lavorare o studiare come desideravano. Almeno, però, potevano vivere senza la costante paura di essere costretti a combattere. Sapevano già che non sarebbero potuti rimanere per sempre in Etiopia, perché anche lì la situazione era instabile.

La guerra interetnica è scoppiata esattamente un anno fa nell’Etiopia del primo ministro – e paradossalmente premio Nobel per la pace 2019 – Abiy Ahmed. I minoritari ribelli tigrini alleatisi con quelli oromo della maggiore etnia del Paese, ormai lanciati alla conquista della capitale, Addis Abeba, facevano scattare lo stato di emergenza, tra le denunce dell’Onu sugli orrori perpetrati da entrambe le parti.

Infine, per l’Etiopia è partita anche Tsige, la madre di Temesgen, Solyana e Thomas.  Lei è riuscita a passare regolarmente, nonostante alcune difficoltà. I documenti necessari all’espatrio li avrebbe dovuti firmare il marito, assente da dieci anni, in quanto malato in gravi condizioni in Svezia, anche lui fuggito dalla vita militare. È stato necessario trovare dei testimoni che affermassero che lei effettivamente manteneva da sola la famiglia e farsi inviare, direttamente dalla Svezia, la documentazione sanitaria del marito che ne confermasse l’infermità.

Finalmente anche Tsige riuscì a passare il confine. In Eritrea la madre aveva lavorato un po’ come infermiera, in una clinica gestita da suore, prima che venissero chiusi tutti i centri religiosi. La casa, in cui abitava la famiglia, aveva un affitto basso perché era proprietà di parenti.  Ciò permetteva a Tsige di mantenere la famiglia con il poco che riceveva dagli stipendi statali. Tutti speravano che in Etiopia avrebbero avuto più possibilità. C’era molta buona volontà ma ben poco di concreto. Infatti, essendo rifugiati, per loro l’unica possibilità di trovare impiego era lavorare in nero, in quanto non disponevano dei documenti necessari. Non potevano andare in Svezia dal padre malato in ospedale: essendo tutti i figli maggiorenni non c’era per loro la possibilità di entrare in quel Paese.

Due mesi dopo l’arrivo della madre in Etiopia, grazie ad un corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, per interessamento delle parrocchie del centro cittadino di Mantova, Temesgen, Solyana, Thomas e il piccolo Even sono partiti dall’Etiopia il 13 novembre 2021, per giungere in Italia, Si sono lasciati alle spalle alcuni amici in Etiopia e altri, divenuti militari, in Eritrea. Alcuni loro amici erano fuggiti, tentando la strada per la Libia, altri sono morti nel percorso verso il Sudan, altri in mare. Gli ultimi rimasti nel Corno d’Africa stanno aspettando che alcuni parenti in Canada e negli Stati Uniti li portino via.

Tsige ha raggiunto i figli il 6 gennaio scorso, dopo alterne vicende. Ora Even, Solyana, Temegen, Thomas e Tsige stanno bene e sperano di riuscire a crearsi un futuro e a rendersi indipendenti nel nostro Paese. Per loro il dono più grande ricevuto è essere riusciti a rimanere uniti in famiglia. Nonostante sentano la mancanza del proprio Paese d’origine, la tranquillità e la consapevolezza di non dover sostenere la paura di vivere è per loro un sollievo. Possono iniziare di nuovo la loro vita, scrivere una nuova pagina, anche se le difficoltà non cessano: si ritrovano in un ambiente completamente estraneo, a partire dalla lingua fino alla cultura.  Inoltre, i titoli di studio da loro conseguiti in Eritrea non è certo che possano essere riconosciuti validi in Italia e consentano quindi di continuare gli studi.

Le loro vite e la loro storia sono il riflesso di una realtà che appartiene a migliaia di persone che non sempre riescono a raggiungere la meta, perché il vero viaggio non comincia quando salgono sull’aereo o sul barcone che porta verso le nostre sponde, ma comincia nel momento in cui lasciano la propria casa, per accingersi ad attraversare confini e deserti, spinti dal desiderio di una vita nuova e libera.

Queste realtà, poco o per nulla rappresentate dai media, nascono da conflitti nascosti che si consumano nel silenzio del resto del mondo.  Di essi le grandi potenze – che li definiscono semplicemente come ‘guerre etniche e religiose’ – spesso sono complici.

Allo stesso tempo, chi riesce a sfuggire e arriva alle porte dell’Europa si ritrova in una società spesso restia all’accoglienza e alla vera integrazione, sia a causa della mala gestione di tutto il sistema che dovrebbe garantirle, sia perché ormai il tema dell’immigrazione è diventato una delle colonne portanti della propaganda politica, utilizzato spesso impropriamente e in maniera semplicistica e superficiale per trovare un “nemico” su cui poter scaricare la colpa di tutti i problemi.

Oggi possiamo ricercare per nostro conto la verità e costruirci un’opinione nostra, che vada al di là delle rare notizie che si sentono al telegiornale e agli slogan propagandistici che invadono la scena politica, si tratta solo di trovare la volontà di scavare più a fondo per poter avere una visione più completa di cosa voglia dire vivere nel mondo che si trova al di là della soglia di casa nostra.

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