I rischi della «società comoda»

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L’anno dalla pandemia ha segnato il trionfo del delivery in tutte le sue forme. Durante i mesi del lockdown più duro è stata un’àncora di salvezza fondamentale. Ma l’inedita «esperienza domiciliare» di questi mesi è andata molto oltre: a casa nostra non sono arrivati soltanto inconsueti quantitativi di pacchi o di cibo pronto, ma anche (per la prima volta nel corso della modernità) il lavoro e la scuola. Remote working e Didattica a distanza sono diventati esperienza quotidiana per moltissimi, talvolta per quasi tutti.

La trasformazione in esperienza di massa della triade delivery + remote working + DAD, con l’aggiunta della chiusura di ogni forma di intrattenimento extra domestico e la rarefazione coatta delle relazioni sociali, ci sta rendendo sempre più avvezzi alla sedentarietà. A cui, forse, siamo ormai fin troppo abituati. Dovremo dunque fare i conti con la stabilizzazione di una inedita «società comoda»: un modello di cui vedevamo le tracce già prima, ma che con la pandemia si è imposta come possibile forma di organizzazione sociale. Un modello certamente ricco di vantaggi, ma anche di non pochi rischi.

Molto comodo, ma con un «lato oscuro»

Tutte le trasformazioni determinate da questa triade ci hanno spinto a ridisegnare la vita direttamente a casa nostra. Con l’unica fatica di un click.

Abbiamo scoperto certamente molte cose interessanti e utili: non è più necessario uscire di casa per fare certi acquisti; è possibile ripensare l’organizzazione del lavoro superando il quotidiano obbligo della vita in ufficio (con i suoi costi in termini di denaro, di tempo, di stress), aiutando la conciliazione dei ritmi della vita con quelli professionali; abbiamo molti strumenti per evitarci inutili viaggi, attese, scocciature; l’istruzione a tutti i livelli può essere «digitalmente aumentata», innovando un modello di istruzione per molti versi superato.

Se questa esperienza potrebbe apparire luminosa, viverla in prima persona ce ne ha fatto tuttavia scoprire un «lato oscuro» che occorre mettere a fuoco in fretta. Perché l’impatto più generale e pervasivo della pandemia si è abbattuto sulle relazioni. Ed è proprio da qui, come consigliano Donati e Maspero nel recentissimo Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni, che occorre mettersi al lavoro per iniziare la ricostruzione. Sapendo però (ce lo insegna la Storia) che ricostruire mal si concilia con la comodità.

Ciò vale anche nelle relazioni, poiché l’Altro è sempre scomodo.

Tirare le somme di un’esperienza contradittoria

Dovremo capire innanzitutto se sono davvero plausibili (e, soprattutto, utili all’inestinguibile bisogno di felicità dell’uomo) le narrazioni incantate sul futuro del «lavoro agile» e addirittura sulla «fine dell’ufficio»: se il lavoro non è solo produzione, ma innanzitutto relazione sociale, la sua eccessiva remotizzazione (o addirittura la sua domiciliarizzazione) toglie un pezzo rilevante del suo significato. E appare simbolicamente rilevante che i primi a capirlo siano stati giganti del digitale, come Google Cisco, orientati a un rapido rientro in ufficio (seppur nella prospettiva di un hybrid workplace). Lavorare in un team senza incontrare quasi mai i colleghi rischia di non generare una squadra, di rendere difficile la costruzione di un senso di appartenenza e di comune identità.

Nella scuola e nell’università dovremo poi capire tutti, docenti e studenti, come maneggiare la «didattica aumentata digitalmente». Ne abbiamo compreso le potenzialità, ne abbiamo benedetto l’esistenza che ha evitato lo stallo. Ma ne abbiamo visto i limiti insuperabili, perché la presenza in un rapporto educativo non è mai sostituibile. Soprattutto, quando dovremo decidere quale mix tra presenza e distanza inventarci, dovremo fare i conti proprio con la comodità che tanto nei docenti quanto negli studenti si propone come seduzione non priva di minacce.

Dovremo capire se la didattica remotizzata (in forma blended o addirittura registrata) possa essere un’opportunità per garantire il diritto allo studio (per chi lavora, per chi vive in aree lontane dai poli universitari di eccellenza, o semplicemente per chi non ha voglia di scomodarsi) oppure una pericolosa illusione che complica la relazione educativa trasformandola in un trasferimento funzionalistico di contenuti specialistici.

Così come illusoria (per i giovani innanzitutto) ci appare già oggi la narrazione del south working, l’idea cioè di lavorare per un’azienda del Nord continuando a vivere nella zona in cui si è nati. Nello studio come nel lavoro (e innanzitutto nella ricerca del lavoro, così come nella progressione di carriera) le relazioni dirette, i dialoghi tra pari a lezione o tra colleghi in ufficio, le chiacchiere nei chiostri o alla macchinetta del caffè, sono elementi insostituibili. Già negli anni Settanta il sociologo Mark Granovetter parlava di “forza dei legami deboli” come di un elemento indispensabile per sviluppare pienamente i propri talenti, per trovare lavoro, per costruire una carriera.

I riti che rendono resistente la vita

C’è un ultimo aspetto, che mette in guardia dai rischi della “società comoda”. Nel suo recente La scomparsa dei riti il filosofo sudcoreano (ma tedesco di adozione) Byung-Chul Han ci avverte del fatto che la scomparsa delle dimensioni rituali dell’esistenza rappresenta una perdita non sostituibile per la vita umana. La loro ripetitività rappresenta infatti un elemento centrale nella stabilizzazione dell’esperienza, rendendo così la vita resistente e capace di un rapporto armonico tra ciascuno e il complesso delle altre persone e delle «cose» con cui siamo soliti rapportarci.

Se scompaiono i riti (anche quelli della vita quotidiana come l’andare a scuola, in università, al lavoro, con i loro tempi, i loro luoghi, le scomodità che richiedono) si impone la logica del consumo applicata a tutte le dimensioni dell’umano, si perdono per strada la durata e lo scopo a favore di un unico obiettivo: performare meglio per produrre di più. Il digitale può essere un (imperfetto) succedaneo in termini produttivi, ma la corporeità resta insostituibile per umanizzare la realtà.

La «società comoda» e on-life (secondo la visionaria definizione di Luciano Floridi) può dunque rappresentare un guadagno ma nasconde un inganno. Ci potrà restituire più tempo di vita, forse. Ma ci potrà anche togliere relazioni e spazi di libertà, riducendo l’umano alla logica produttivista. Proprio per questo, sarà bene avere a mente (ce lo ricordano Magatti e Giaccardi nel loro Nella fine è l’inizio) che «l’obiettivo sensato per la prossima fase della crescita non è più l’aumento quantitativo della produzione» bensì «scommettere sulla qualità delle persone e dei legami sociali».

Con uno slogan potremmo ricordare che bisogna scomodarsi per prendersi cura di sé, dell’altro e del mondo. In un tempo di ricostruzione, la “società comoda” ci imporrà insomma ogni giorno una scelta figlia di un negoziato che andrà fatto innanzitutto con noi stessi: appartarci (seppur in collegamento) o connetterci (ovvero, intrecciarci con le vite degli altri).

Luca Pesenti è docente di Sociologia generale nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Collabora a OPeRA (Osservatorio Povertà e Reti di Aiuto) nello stesso ateneo. Nel 2010-2012 ha fatto parte della Commissione nazionale di indagine sull’esclusione sociale (CIES). Pubblicato sul numero di VP plus del 24 aprile 2021.

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