Il Covid e la sua eredità

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Nessuno più dubita che la pandemia sia tra quegli eventi che segnano uno spartiacque nella storia dell’umanità, una svolta epocale. Forse neppure in tempo di guerra la vita era cambiata in modo così radicale.

È legittima la previsione che un cambiamento di questa portata sia destinato non solo a segnare il nostro attuale modo di vivere, ma anche a lasciare tracce profonde su quello che avremo quando la pandemia sarà superata.

Probabilmente queste tracce si depositeranno anzi sul nostro stesso essere. Come saranno, da grandi, i figli della generazione del lockdown, quella che non ha potuto frequentare, nel migliore dei casi, in modo regolare, la scuola, per un periodo di tempo ancora non determinabile? Che non ha potuto vivere quelle esperienze di relazioni, di svaghi, di viaggi, che le generazioni precedenti, almeno nei Paesi industrializzati, avevano vissuto?

Per quanto riguarda le conseguenze della chiusura delle scuole, è prevedibile che questi ragazzi avranno per sempre dei vuoti culturali, più o meno gravi a seconda delle loro condizioni sociali ed economiche, perché è dimostrato che la Dad (Didattica a distanza) penalizza molto di più i poveri (minore disponibilità di strumenti tecnici adeguati, abitazioni anguste dove non è facile isolarsi, mancanza dei supporti familiari di cui godono spesso i figli di famiglie socialmente più favorite). Le differenze di opportunità di lavoro e di guadagno, già adesso enormi, saranno perciò inevitabilmente accresciute.

Ma anche i figli dei ricchi porteranno sulla loro pelle lo stigma di un’esperienza di isolamento che non ha precedenti e che sta incidendo sulla loro gioia di vivere e sulle loro capacità di sperare. Anche i più maturi ed equilibrati non possono non avvertire la sofferenza per mesi ed anni destinati naturalmente all’espansione della loro esperienza di vita e invece di fatto perduti. Che cosa comporterà questo nei loro equilibri di adulti? Non possiamo dare risposte, ma l’interrogativo rimane inquietante.

Smart-working

È vero però che questi effetti duraturi della pandemia possono essere visti non solo come conseguenza negativa di una catastrofe, ma anche, per altri versi, come un’opportunità.

Si pensi allo smart-working. Il virus ci ha costretto a scoprire che in molti casi non era necessario affrontare ogni giorno lunghi ed estenuanti viaggi di trasferimento (andata e ritorno!), in treno o in automobile, per recarsi in ufficio, e che la stragrande maggioranza di quello che si faceva all’interno delle grandi strutture fisiche di cemento, di acciaio e di vetro si poteva egualmente svolgere affidandosi alle vie impalpabili della rete.

Non si tratta solo del lavoro dipendente. Lo stesso sta accadendo anche per molte riunioni d’affari o perfino per convegni che comportavano la convergenza dei partecipanti da località diverse, impiegando giorni interi per il viaggio e la permanenza lontano da casa. Almeno per alcune di esse, si sta constatando che, incontrandosi su zoom o su meet, si possono scambiare egualmente delle idee e stabilire delle intese, guardandosi negli occhi (questa è una differenza fondamentale rispetto al telefono).

Una scoperta che è difficile sia dimenticata quando si tornerà alla vita “normale”. Troppi sono i vantaggi – in termini economici, ma soprattutto di tempo e di qualità della vita – di questa drastica riduzione degli spostamenti per lavoro.

Le ricadute sulle città

Se questa prospettiva, che non sembra azzardata, troverà conferma, enormi saranno le conseguenze. Già da adesso gli esperti prevedono che, in città come Milano, enormi spazi attualmente adibiti ad uffici dovranno essere rimodulati per nuove finalità. Questo è vero per tutte le grandi metropoli, che vedranno cambiare il loro volto. Si parla di nuovi spazi dove ospitare attività che favoriscano la vita comunitaria dei rispettivi quartieri. Ma è aperto tutto un ventaglio di possibilità che ancora dev’essere esplorato. Anche in collegamento con la redistribuzione delle aree destinate all’edilizia e quelle, invece, dedicate al verde pubblico.

Tutto ciò comporta già e comporterà sempre di più una ricaduta sui rapporti tra periferie e centro. Venendo meno l’esodo quotidiano che portava ogni giorno gli abitanti delle prime a spostarsi verso il secondo, diventerà più plausibile una riqualificazione di quartieri finora adibiti a semplici dormitori, restituendoli a una piena dimensione umana.

Anzi molti pensano che la possibilità del lavoro da casa, unitamente al problema del distanziamento (che rimarrà, probabilmente, anche quando la fase peggiore della pandemia sarà superata), favorirà un rilancio dei borghi – nel nostro Paese ce ne sono di bellissimi e quasi disabitati –, dove la qualità della vita, grazie al contatto con la natura, sarà sicuramente migliore che nelle sovraffollate città di oggi.

Con benefici per il traffico, che resterà inevitabilmente snellito da questo rarefarsi degli spostamenti fisici. Anche perché la necessità di evitare gli affollati mezzi pubblici sta favorendo la diffusione di monopattini elettrici e biciclette, facendo scoprire a molti la loro comodità e lasciando prevedere che, anche dopo la fine della pandemia, questi mezzi continueranno ad avere una diffusione impensabile un paio di anni fa.

Aspetti problematici dello smart-working

Anche per lo smart-working, tuttavia, sarebbe unilaterale limitarci agli aspetti positivi dell’eredità che il Covid sembra destinato a lasciarci. Già oggi si segnalano aspetti estremamente problematici di cui bisogna tener contro, per evitare che si perpetuino e gravino sul nostro futuro.

Perché è vero che lavorare da casa esonera da una serie di problemi, ma ne lascia e a volte ne crea altri. Uno è il rapporto con i figli, soprattutto se bambini. È noto che nel periodo del Covid sta diminuendo l’accesso delle donne al lavoro, anche da casa. E la ragione è evidente: la chiusura delle scuole rende impossibile non solo lasciarli soli a casa – e questo, anzi, lo smart-working lo eviterebbe – ma anche delle attività diverse dall’accudirli. Qui però la responsabilità non è del tipo di lavoro, ma dell’assenza di asili e di altre strutture in grado di intrattenere i figli più piccoli. Già da prima del Covid, l’Italia non è un Paese per le madri.

Invece è strettamente legato alla formula del lavoro da casa un altro problema, molto sofferto in questo periodo da tutti i lavoratori, che è l’invasività delle attività professionali nella loro vita personale. Di fatto si lavora di più, perché si lavora sempre.

La rivincita dello spazio, sconfitto con la possibilità di evitarne la tirannia, si manifesta nel fatto che, senza di esso, il confine tra l’ambiente di lavoro e quello della vita personale e familiare si assottiglia e diventa permeabile. Chi usciva dalla scuola o dall’ufficio poteva lasciare dietro di sé i problemi che aveva in quell’ambito. Ora invece tutto è diventato per così dire, ambiente di lavoro. Non si stacca mai del tutto.

Una delle minacce più gravi sulla vita delle nostre società “evolute” era già da prima il carattere troppo assorbente del lavoro. Non che questa dimensione non faccia parte della vita in modo essenziale e non costituisca un valore in sé. Non si lavora solo per vivere. Ma non può e non deve esaurire l’essere umano in tutti gli aspetti del suo essere e del suo realizzarsi. Non si vive solo per lavorare. Il lavoro da casa rischia di aggravare questa tendenza e di renderla inarrestabile.

Prevedere per progettare responsabilmente

Qualcuno si potrebbe chiedere perché – in un momento in cui, in Italia e nel mondo, si registra la catastrofica “terza ondata” della pandemia, con decine di migliaia di contagiati e un tributo corrispondente di morti – dedicarsi a previsioni che non riguardano le brucianti urgenze del presente. La risposta, molto semplice, è che al presente gli esseri umani, a differenza degli animali non umani, sono sempre stati capaci di guardare non solo per farvi fronte nell’immediatezza del suo presentarsi, ma per interpretarlo e cogliervi i segni degli sviluppi in esso potenzialmente contenuti.

Il Covid non lascerà il mondo così com’è. Ed è illusorio credere che quello di domani debba essere necessariamente migliore di quello attuale, che già lascia tanto a desiderare. La verità è che, in realtà, potrebbe essere anche peggiore. Siamo noi, gli esseri umani, a determinare gli effetti degli eventi naturali nella nostra convivenza.

Ma per farlo responsabilmente, dobbiamo imparare a leggere l’impatto che hanno sulla società e a capirne il senso. Lo smart-working è solo un esempio. Progettare il futuro, sentirsene responsabili, non è meno importante che gestire il presente. Il nostro destino non è scritto nelle stelle. E non lo è quello della nostra civiltà dopo il coronavirus.

  • Dal blog dell’autore pubblicato sul sito della pastorale della cultura della diocesi di Palermo Tuttavia.
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