Il “primato degli azionisti”: un (falso) mito al capolinea?

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Gli amministratori delegati di 181 delle più importanti multinazionali degli Stati Uniti, tra cui Blackrock, Amazon, Whirlpool e GM, hanno firmato nei giorni scorsi un manifesto, pubblicato da «Business Roundtable», associazione che annovera tra i suoi soci i colossi dell’economia mondiale, nel quale si afferma che il profitto e il primato degli azionisti non possono essere più i soli principi che guidano una società. Si tratta di una svolta piuttosto radicale, se si tiene conto che, a partire dal 1997, la «Business Roundtable» in ogni documento ha sempre sostenuto e approvato il principio del “primato degli azionisti”. Fino a oggi le grandi società esistevano solo per servire gli interessi dei portatori del loro capitale. Con questa nuova dichiarazione, gli amministratori delegati si impegnano a guidare le proprie aziende a beneficio di tutte le parti interessate, ovvero: clienti, dipendenti, fornitori e l’intera comunità di riferimento. Sulla notizia abbiamo chiesto un commento all’economista Stefano Zamagni.

zamagni

La notizia che duecento tra le principali aziende di Wall Street e colossi finanziari come JP Morgan, Amazon, BlackRock, General Motors hanno pubblicato un documento dove si richiamano le aziende a non perseguire solo l’aumento dei proventi degli azionisti è buona. Non è però del tutto inattesa. Da tempo, infatti, da almeno dieci anni, nel mondo anglosassone vanno diffondendosi prese di posizione di questo tenore. Meno di un anno fa, ad esempio, il più grande fondo di investimento degli Stati Uniti ha inviato ai suoi azionisti una lettera dal contenuto del tutto simile.

La notizia fa giustizia della concezione tuttora dominante, secondo cui le imprese esistono solo per fare l’interesse dei propri azionisti. L’idea di massimizzare il profitto è un pilastro fondamentale del pensiero liberista e neoliberista, che è il paradigma tuttora dominante in campo economico. Così, trovare 200 grandi imprese che prendono posizione contro il mito del cosiddetto “primato dell’azionista” è una notizia che va salutata con interesse.

Un falso, potentissimo mito

Ovviamente dobbiamo farci la domanda: questo mito del “primato dell’azionista” come è nato? Fino agli anni Settanta del secolo scorso, infatti, non era così… basta consultare articoli, libri, saggi scritti prima di quegli anni: l’impresa doveva servire gli interessi della comunità in cui si sviluppava. Ma questo oggi nessuno lo ricorda o lo evidenzia più. Si tratta dunque di un mito che è sorto negli anni Settanta grazie all’opera di un gruppo di economisti accademici americani (che facevano base a Chicago) i quali, coi loro scritti e modelli matematici, ritenevano di avere dimostrato – su base scientifica – come l’impresa che massimizza il profitto fa in realtà il bene di tutta la comunità, perché utilizza le risorse nel modo più efficiente, creando il massimo di valore aggiunto. Da qui il noto aforisma secondo il quale se si alza la marea tutte le barche – anche le più piccole – si sollevano di conseguenza. Se si produce più valore aggiunto ce ne sarà di più per tutti. Per 50 anni abbiamo vissuto all’ombra di questo mito, alimentato da quella che va sotto il nome di “Trickle-Down” Theory, teoria della “ricaduta favorevole” o dello “sgocciolamento”, secondo la quale quando il liquido (la ricchezza) all’interno del bicchiere cresce, a un certo punto tracima e sgocciola in basso, provocando ricadute favorevoli anche sui più poveri.

Gli economisti di cui parlo – alcuni dei quali li ho conosciuti di persona – portano una grave responsabilità per queste teorie e spero almeno che le abbiano elaborate e difese in buona fede. Perché hanno prodotto disastri a motivo della fede riposta in un modello matematico. Questi economisti hanno finito per dare una copertura scientifica alle brame meno nobili degli imprenditori più ricchi e spregiudicati del tempo.

Perché questo mito è in realtà un falso? Per almeno tre ragioni.

Una di carattere giuridico: nessuna legislazione al mondo – ripeto, nessuna – impone alle imprese il vincolo legale di massimizzare il profitto. Una seconda di carattere economico: l’impresa ottiene il profitto grazie al concorso di una pluralità di soggetti. Non solo chi mette il capitale; ma anche chi offre il proprio lavoro; chi compra le merci o i servizi; e anche il territorio, la comunità locale, che se non è organizzata in modo adeguato non consente all’impresa di nascere e svilupparsi. Il profitto, dunque, è il frutto di tutte queste 4 classi di stakeholders ed è ovvio che non può spettare in esclusiva a uno dei soggetti. Si tratta di una logica elementare che capisce anche un bambino: se si consente a un solo soggetto di godere del profitto in esclusiva si legittima un vero e proprio furto a danno delle altre parti in causa. L’impresa non dipende solo dai capitali. Infine, c’è una ragione di carattere etico: la proprietà privata ha senso solo in vista del bene comune e non del bene particolare di un gruppo. È vero – come si dice – che la dottrina sociale della Chiesa giustifica la proprietà privata; ma lo fa per massimizzare il bene comune e non il profitto di una categoria particolare (i più ricchi).

La forza profetica della dottrina sociale

Queste cose erano tutte già scritte dal 2009 nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI. Le stesse denuncie sono state ribadite con forza e chiarezza da Francesco nella Evangelii gaudium e nella Laudato si’. Al numero 54 della Evangelii gaudium si legge: «Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare». Mi fa piacere sottolinearlo ancora una volta proprio adesso. Perché quando questi documenti sono stati pubblicati si è sollevato un coro di critiche, anche da parte di economisti cattolici, secondo le quali era bene che i papi non si occupassero di economia e si dedicassero ad altro. Oggi le stesse cose le scrivono 200 grosse imprese. Bene: adesso gli economisti che hanno deriso il papa dovrebbero almeno avere l’umiltà di ammettere che si erano sbagliati! Può capitare nella vita… ma temo che nessuno sarà capace di questo nobile gesto.

Cosa dire? Che mi rallegra poter costatare come la Dottrina sociale della Chiesa abbia saputo ancora una volta giocare d’anticipo, denunciando che è scientificamente sbagliata la tesi sottostante il modello economico che ha regolato la vita delle nostre società negli ultimi 30 anni. È il destino della profezia: vedere in anticipo le cose che accadranno ma non essere creduta, essere derisa o fatta tacere (come accade al profeta Geremia). Ma alla fine i conti tornano. Credo che il mondo cattolico debba trarre incentivo da questa ulteriore smentita della tesi secondo la quale l’economia sarebbe regolata da leggi naturali e intoccabili. Un paradigma che ha minato le nostre società e rovinato la cultura cattolica.

Hanno firmato per convinzione?

Sento oggi riproporre la domanda: ma queste 200 imprese hanno firmato per convinzione o lo hanno fatto in modo strumentale, per qualche interesse? Che è la domanda degli ipocriti, i quali confondono i piani. Non potendo giudicare la coscienza di nessuno le ragioni non le sapremo mai … Ma la cosa importante è che queste cose siano state scritte e firmate, indipendentemente dal giudizio sulla coscienza. Deve interessarci che oggi si dica alle imprese che esse esistono a servizio di una prosperità inclusiva, di tutti, non solo di alcuni a scapito di altri.

Esiste in psicologia una teoria secondo la quale a forza di ripetere un gesto (buono) una persona, anche se inizialmente scettica, si convince della sua bontà. È il fondamento di ogni pedagogia: noi tutti facciamo ripetere ai bambini dei gesti senza la pretesa che siano convinti, perché vogliamo che li imparino per poi assumerli liberamente come propri. È la via della virtù, ovvero di un habitus che si sviluppa attraverso la ripetizione di un gesto buono. Ed è un ulteriore incentivo al pensiero cristiano affinché si convinca di poter compiere, nel futuro prossimo, un passo importante in materia economica.

A tal proposito, per il prossimo mese di aprile, il papa ha voluto convocare ad Assisi alcuni giovani imprenditori (tutti sotto i 35 anni) per affrontare insieme a loro queste tematiche. È il prima volta che accade e mi sorprende che nelle nostre comunità non se ne parli. Si tratta infatti di un evento di portata rivoluzionaria. Perché il papa non li convoca per fargli la morale, ma perché vuole affrontare con loro questi temi economici ed ecologici di portata mondiale. E vuole dei giovani, perché saranno loro a cambiare le cose. Mi dispiace costatare che la Chiesa italiana su questi temi non si esprime. Il clero purtroppo non studia più… ma sono questioni che toccano la vita e sulle quali gente avrebbe desiderio di ascoltare una parola sensata e capace di fondare la speranza evangelica in un mondo diverso, più solidale, e dunque più umano.

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Un commento

  1. Giampaolo Centofanti 24 agosto 2019

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