La stigmatizzazione dei pazienti psichiatrici

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pazienti psichiatrici

È esperienza personale di ciascuno di noi – quando malato – di “funzionare” meno nella vita quotidiana, di patire qualche impedimento, di dover ridurre o persino annullare le frequentazioni sociali. Nel corso della pandemia da Covid 19, nell’intento di prevenire il contagio, abbiamo tutti sperimentato e sofferto quel distanziamento che ancora ci angustia.

Ma, a tenerci lontani gli altri dagli altri – a respingere i malati fuori dalla città degli umani -, non ci sono solo le preoccupazioni per le malattie infettive trasmesse per contagio diretto: ci sono anche i timori per i ritenuti “folli” o “matti”, ossia le persone con problemi di salute mentale e, magari, insieme a loro,  gli “handicappati”, o i migranti più o meno “clandestini”: ancora a molti, a troppi, la loro vicinanza  procura disagio, fastidio, quando non vera e propria paura, in ragione della loro presunta pericolosità.

Tali diffuse percezioni hanno prodotto, nelle nostre civilissime società, da una parte, discriminazioni e giganteschi fenomeni di emarginazione e di reclusione, dall’altra, insicurezza, frustrazione, sensi di vergogna.

Cito il caso della Lombardia, regione nella quale – quando si è trattato di scegliere ove collocare le REMS, ossia le Residenze per l’Esecuzione della Misure di Sicurezza istituite in via sperimentale nel 2014, dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) – furono individuati edifici idonei a Limbiate, Leno, Mariano Comense, oltre che a Castiglione delle Stiviere, nel mantovano, in un’ampia struttura già dedicata.

Gli amministratori locali di Leno e Mariano Comense si opposero fermamente in ragione del danno derivato alle loro comunità dalla presenza, nei pressi, di persone “folli” e socialmente pericolose.  Diverso – in parte – il caso di Limbiate, ove si intendeva collocare la residenza in un’area dell’ex manicomio di Mombello.

Un recentissimo esempio è rappresentato dalla stizzita e vivace reazione di Silvio Berlusconi alla possibilità di essere sottoposto ad una perizia psichiatrica.

Di questi giorni è pure il modo imbarazzato, ma alla fine compiaciuto, con cui le cronache hanno trattato e stanno trattando la drammatica vicenda del bambino napoletano precipitato dal balcone di casa, una volta ventilate le responsabilità del collaboratore familiare presentato come afflitto da “disturbi mentali”, “strano” e “anormale”. Il tutto in spregio alla riservatezza dei dati personali più sensibili e intimi, dei fallimenti e delle fatiche del vivere che questa persona – più di altre – magari sin dalla nascita o dall’infanzia è stata costretta a portare e a sopportare.

Insomma, le vicende continuano a dimostrare quanto forte continui ad essere lo stigma negativo sui pazienti psichiatrici e i loro curanti. A ciò va aggiunto che nelle persone con disturbi mentali – e nei loro familiari – la vergogna e lo stigma, oltre a minare la qualità della vita quotidiana, ostacolano la ricerca delle buone cure e spingono all’autoisolamento, foriero di altri mali.

Per tentare di interrompere, ancora una volta, una tale deriva, si deve andare al riconoscimento delle persone con sofferenza mentale, prese individualmente, una ad una, con i loro familiari: rispettare le loro storie e i loro vissuti, lavorare per farne venir fuori i desideri, i progetti di vita e di umanità da supportare nella cura, aiutandoli, favorendone per quanto possibile la realizzazione, valorizzandone le capacità intrinseche di resilienza e tutte le risorse umane che possono essere loro prossime, sostenendone l’autostima, garantendo in ogni caso le condizioni di vita più rispettose della loro dignità di esseri umani.

Costruire tali percorsi richiede ancora un importante cambio di paradigma a fronte del fatto che. come vediamo, nella società continuano a prevalere sentimenti di diffidenza e pregiudizi.

Intanto, un obiettivo che possiamo raggiungere è quello di far sì che al centro delle nostre comunità stiano davvero le persone più fragili con le loro esigenze, aspettative, desideri, piuttosto che servizi assistenziali con gestioni di stampo paternalistico e autoritario, contrassegnati da risposte burocratiche o da risposte che mirano solo a tacitare i sintomi.

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