La violenza dei giovani nasce dal vuoto

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Una serie impressionante di episodi di violenza, verificatisi in questi giorni, ci costringe a interrogarci su quello che sta accadendo ai nostri giovani. Quello più grave – e che ha avuto più spazio sui mezzi di comunicazione – è l’assassinio di un ragazzo di 21 anni ucciso a calci e pugni, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, a Colleferro, in provincia di Roma. Si chiamava Willy Monteiro Duarte ed era nato nella Capitale da una famiglia di Capo Verde. Willy, che faceva il cameriere, era intervenuto in una discussione per difendere un amico. I responsabili, arrestati con l’accusa di omicidio preterintenzionale, sono quattro ragazzi tra i 22 e i 26 anni, il cui stile violento era noto da tempo.

Violenza senza freni

Ha avuto un esito meno drammatico, ma pur sempre grave (prognosi di due mesi), il pestaggio, la notte di Ferragosto, a Marina di Pietrasanta, di un ragazzo quindicenne che, dopo esser stato scambiato per il presunto responsabile di un’aggressione sessuale ai danni di una sua coetanea, è stato preso a calci e pugni da un gruppo di giovani dai 14 ai 17 anni.

Poco prima, all’inizio di giugno, si erano verificate altre due aggressioni, una nel quartiere EUR di Roma, nei confronti di un ragazzino dodicenne, picchiato selvaggiamente da un gruppo di ragazzi più grandi di lui, di età compresa tra i 17 e i 18 anni; l’altra a Latina, dove un tredicenne era stato bloccato in pieno centro e riempito di botte da un giovane di 16 anni.

Si situa in questo contesto di volenza senza freni – ma stavolta la vittima è un anziano – l’ultimo episodio, in cui, a Vicenza, un ultrasettantenne è stato mandato all’ospedale, col femore rotto, da un giovane di 25 anni che stava malmenando la propria fidanzata e che egli aveva cercato di fermare, ricevendone un pugno in faccia e una scarica di calci.

Una scuola che riflette la società

In un momento in cui, giustamente, gli sforzi del Paese sono protesi a garantire la riapertura delle scuole, realizzando le condizioni logistiche per il loro funzionamento, non può però non inquietarci l’elementare considerazione che i protagonisti di queste tristi storie sono degli alunni o degli ex alunni della nostra scuola. Che cosa ha trasmesso finora a questi ragazzi? Ha avuto una reale incidenza su di essi e sui tanti altri di cui le cronache non si occupano, ma che spesso vivono immersi nelle medesime logiche di branco e nel medesimo clima di violenza irrazionale?

Da troppo tempo il nostro sistema di istruzione, forse per timore di ricadere nel paternalismo del passato – quando in esso si dava per scontata una scala di valori indiscutibile, espellendo o emarginando i “ribelli” –, ha rinunziato a educare, ripiegando su una mera trasmissione di saperi che è sicuramente indispensabile, ma non sufficiente ad accompagnare l’auto-formazione delle nuove generazioni. Sempre più sofisticata nella ricerca dei mezzi – lavagne elettroniche, computer, gemellaggi, viaggi all’estero –, la scuola da tempo dà l’impressione di avere perduto di vista il problema dei fini.

Ed è comprensibile, in una società dove l’estremo pluralismo rende molto difficile al sistema d’istruzione pubblico – soprattutto a quello statale – proporre un sistema condiviso di certezze e di valori. Solo che i mezzi – incluso il sapere – possono dar luogo a esiti del tutto diversi, a seconda degli scopi che chi li utilizza decide di perseguire. E se questi scopi restano fuori dal momento formativo e affidati all’influenza che sui più giovani esercitano i mille stimoli di una società dominata dall’individualismo e dal consumismo, non c’è da stupirsi che alla fine anche studenti modello possano essere tentati di dar fuoco a un barbone, come qualche anno fa è accaduto, o, come avviene oggi, di massacrare un coetaneo.

Non stiamo lasciando nulla ai figli

Si potrà obiettare che a educare al senso della vita dovrebbe provvedere già la famiglia. Ma l’esperienza di ogni giorno ci dice quanto sia ormai ridotta l’influenza di quest’ultima in un contesto in cui ormai, fin da giovanissimi, i figli acquistano un’estrema autonomia dai genitori e, esposti come sono alla tempesta di messaggi provenienti dai social, più che ai modelli familiari guardano a quelli forniti dagli influencer.

Anche la Chiesa non sembra in grado di esercitare, oggi, una funzione educativa paragonabile a quella del passato. Le statistiche ci parlano di un allontanamento massiccio dei giovani dalla pratica religiosa e dalle chiese. L’insofferenza nei confronti degli schemi consolidati del catechismo porta la maggior parte di loro a fuggire, dopo la prima comunione o, al massimo, dopo la cresima. L’insegnamento della religione nelle scuole già da tempo ha mostrato la sua limitatissima efficacia culturale ed è peraltro sempre più penalizzato, soprattutto al centro-nord, dalla crescita del numero dei non avvalentesi. Restano i grandi eventi di massa – come le Giornate Mondiali della Gioventù –, che però, pur avendo una loro funzione, non possono sostituire una formazione duratura e capillare.

La violenza dei giovani è, alla luce di questo quadro, il segnale allarmante di una crisi educativa che sta desertificando la nostra società. Anche in questo ambito – che peraltro è quello decisivo – la nostra generazione non sta lasciando nulla a quelle che la seguono. Perché alla fine la responsabilità di questa crisi non sono i giovani, ma gli adulti. L’emergenza educativa riguarda non i destinatari dell’educazione, ma gli educatori.

E l’ansiosa attenzione di istituzioni e famiglie per la riapertura delle scuole – concentrata su mascherine, banchi a rotelle, carenza di professori – , rischia di essere un alibi per mascherare la nostra incapacità di ritrovare quelle più fondamentali condizioni dell’impresa educativa che sono gli orizzonti di senso della vita individuale e comunitaria.

La condizione peggiore

Potrebbe essere un’occasione per riaprire un confronto, almeno per quanto riguarda la sfera pubblica, l’avvio, quest’anno, dell’insegnamento di «Educazione civica», che per la prima volta avrà un proprio voto, e a cui saranno dedicate almeno 33 ore all’anno. Dovrebbe essere questo lo spazio per una formazione alla cittadinanza responsabile, di cui da troppi anni si sente la mancanza. E qui certamente alcuni valori condivisi dovrebbero emergere dalla lettura onesta della nostra Costituzione.

Ma ancora una volta l’esperienza ci dice che i programmi sono come gli spartiti musicali: restano sulla carta finché non vengono eseguiti. E ogni esecuzione è un’interpretazione, che varia profondamente a seconda dell’orchestra che la realizza. È il fattore umano ad essere decisivo. E tale sarà anche nell’assegnare un ruolo e un significato alla nuova disciplina.

In ogni caso, non bisogna aspettarsi solo da essa il miracolo di una nuova stagione educativa che estirpi alle radici il seme della violenza dal terreno della nostra gioventù. Tutti devono dare il loro contributo. Un passaggio decisivo sarebbe una nuova alleanza fra le tradizionali comunità educanti – la famiglia, la scuola, la Chiesa. Ma questo sarà possibile solo se si prenderà coscienza del problema.

Di fronte alla violenza dei giovani, la gente si indigna: «Dove siamo arrivati!»; «Ai miei tempi…». Non si è disposti ad accettare che questa violenza nasce da un vuoto di senso a cui gli adulti sembrano essersi abituati, mentre i giovani reagiscono ad esso manifestando il loro malessere a pugni e a calci. Indigniamoci pure. Ma, se rifletteremo, ci renderemo conto che la condizione peggiore non è la loro.

  • Dal sito della pastorale per la cultura della Diocesi di palermo www.tuttavia.eu (18 settembre 2020).
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