Le radici del razzismo occidentale

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Il grande studioso della genetica delle popolazioni Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dimostrato che l’uomo appartiene alla grande famiglia Hominidae la quale, oltre ad Homo sapiens, comprende l’orangutan e le scimmie antropomorfe africane (gorilla, scimpanzé e bonobo); provando che il DNA umano ha moltissime affinità con quello dei gorilla e degli scimpanzé (col 98% delle stesse sequenze nucleotidiche) e che la separazione fra le due categorie è avvenuta tra 7 e 5 milioni di anni fa in Africa Centrale. Il nostro comune antenato homo abilis – considerato per la capacità di costruire utensili – è vissuto circa 2,5 milioni di anni fa[1].

I dati della più aggiornata ricerca scientifica ci direbbero dunque che siamo – tutti – biologicamente sorelle e fratelli. Nel mentre, i gruppi umani sono tuttora attraversati da forti pregiudizi e da ostilità che hanno radici profonde nell’etnocentrismo e nel razzismo “scientifico” del nostro recente passato. Ricordiamone alcune.

La disputa di Valladolid

Nel XVI secolo – nella disputa teologica di Valladolid – gli intellettuali del tempo discussero della natura spirituale e giuridica degli indios. La Giunta di Valladolid che dette vita alla disputa era costituita da personalità esperte di diritto e di teologia convocate da Carlo V d’Asburgo in due sessioni distinte tra il 1550 e il 1551. Si dovette in particolare dirimere la controversa questione del possesso o meno dell’anima da parte degli indigeni del “nuovo mondo”.

Alla fine l’anima fu rintracciata, creando così una solida base teologica e giuridica per la legittimazione della evangelizzazione di quei popoli, di fatto accompagnata dalla brutale operazione di conquista e di sfruttamento dei territori e delle genti da parte europea. Come noto, la Giunta di Valladolid vide contrapposti, da una parte, il frate domenicano Bartolomé de Las Casas, strenuo difensore e protettore degli indios, dall’altra, l’umanista Juan Gines de Sepulveda, convinto sostenitore del diritto degli spagnoli a sottomettere i nativi, affiancato dal portoghese fra’ Tommaso Ortiz di cui in letteratura è riportata  l’affermazione: “gli uomini di terra ferma delle Indie mangiano carne umana e sono sodomiti più di qualunque altra gente”.

Nel secolo dei Lumi la retorica settecentesca si è riproposta di portare la luce della ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza, ma, allo stesso modo, nel secolo successivo, la retorica coloniale dell’uomo occidentale ha ritenuto del tutto legittimo portare la propria idea di civilizzazione nel “cuore di tenebra” dei continenti diversi dall’Europa.

La modernità occidentale

Fu il botanico Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778) ad iniziare a classificare le specie naturali raggruppandole in generi posti in una precisa gerarchia, secondo somiglianze morfologiche ed anatomiche. Nella sua tassonomia Linneo posizionò ovviamente il genere HOMO in cima al regno animale, distinguendo tuttavia due specie: l’uomo “diurno”, o homo sapiens, e l’uomo “notturno” o homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste.

Linneo classificò l’Homo sapiens in sei varietà secondo la provenienza geografica, il colore della pelle e le rispettive qualità morali.

  • Tra gli “uomini diurni” (normali) ha posto:
    Homo sapiens europaeus: descritto come bianco ordinato, ingegnoso, inventivo, retto da leggi; homo sapiens americanus: rosso, amante della libertà, soddisfatto del proprio destino, irascibile; homo sapiens asiaticus: giallastro, orgoglioso, avaro, melanconico; homo sapiens afer: nero, indolente, infido, scarsamente intelligente e incapace di autogoverno.
  • Tra gli “uomini notturni” (anormali) ha posto:
    Homo sapiens ferus o uomo selvaggio: muto, quadrupede, villoso che comprende anche gli enfants sauvages (ossia i bambini abbandonati a sé stessi ritenuti incapaci di parlare e di apprendere, peraltro molto numerosi nella letteratura settecentesca); infine: homo sapiens monstruosus o uomo teratologico, portatore di “forme devianti”, ovvero di malformazioni congenite e deficit cognitivi.

Con questi presupposti alle spalle è facile comprendere come il razzismo scientifico si sia affermato, a partire dal secolo XIX, in Europa e Nord America, sulla convinzione che la diseguaglianza sia biologicamente fondata e perciò trasmessa per via ereditaria, legittimando una netta gerarchia degli umani. E questo – si badi bene – a modo di risposta, ovvero di integrazione od emendamento dell’affermazione razionale dell’eguaglianza universale degli umani proclamata dalla Rivoluzione francese.

Fu un’onda lunga se in Italia, ancora nel 1946, Giulio Mòglie, nel suo Manuale di Psichiatria[2],  così parlava dell’importanza della “razza” in psichiatria: “Molto comune è l’alienazione mentale, specialmente con forme eredo-degenerative, nella razza israelitica, secondo il parere di molti psichiatri […] tra noi, SERGI, VERGA e GIANNELLI che si interessò dell’argomento con una ricerca statistica molto accurata e dimostrativa, dalla quale risulta che nella sola pro­vincia di Roma, ove gli israeliti non sono molto numerosi, dal 1881 al 1900 la loro razza è rappresentata dal 5,26 di alienati su 10.000 abitanti; mentre quella ariana dal 3,72. La causa più probabile del fatto è […] la grande frequenza dei matrimoni tra consanguinei e quindi l’intervento del fattore ereditario convergente; il DE SANCTIS vi aggiunge che il carattere instabile della personalità psichica è specifico della razza. […] Oggi è da tutti riconosciuto che il perfezionamento della razza ha un grande significato nella profilassi delle malattie mentali”.

Quanto al meticciato e alle sue conseguenze individuali e collettive, Mòglie concordava con gli autori che sostenevano come dalla unione di individui di razze di­verse – pure se apparentemente sani e normali – derivassero discendenti tarati e si dovesse quindi ritenere che il rischio di anomalie fisiche in genere – e neuro-psichiche in specie – nei discendenti dovessero essere tanto più gravi quanto più disparati etnologicamente i gruppi di appartenenza dei genitori.

Supremazia bianca

In Europa e in Nord America, le scienze antropologiche e quelle mediche si sono impegnate a studiare le correlazioni fra patologie psichiatriche ed appartenenza etnica costitutiva. La psichiatria scientifica occidentale ha decisamente contribuito ad alimentare la supremazia bianca, facendo credere che la gente nera soffrirebbe in maggior misura di ritardo mentale e sarebbe, per ragioni genetiche, caratterizzata da comportamenti iper-sessuali[3] e iperaggressivi, da cui non possono che discendere famiglie patologiche, inadeguate alla buona educazione della prole[4].

Nonostante l’evidenza mostri che non sussistono differenze significative nella clinica dei disturbi psichiatrici fra neri e bianchi nord-americani, una serie di studi mette in evidenza che il pregiudizio razziale presente nei clinici influenza i loro giudizi diagnostici: un maggior numero di diagnosi di schizofrenia continua, ad esempio, ad essere attribuito ai neri e ai portoricani, ma con un minore accesso ai trattamenti psicoterapici.

Voglio qui sostenere che il razzismo – vale a dire la generalizzazione, l’istituzionalizzazione e il conferimento di valore a differenze reali o immaginarie fra le persone al fine di giustificare e legittimare uno stato di privilegio, aggressione, violenza, disuguaglianza ed esclusione – continua pericolosamente a circolare, negando o ignorando i dati più aggiornati di carattere scientifico e culturale. Il razzismo è una ideologia che comporta l’affermazione esplicita ed implicita della superiorità – e quindi del mantenimento di potere – di un gruppo su altri, giustificando in tal modo la dominazione sociale, economica e culturale.

Cavalli Sforza ha parlato di un pensiero occidentale europeo “contrassegnato dalla prepotenza” e dall’esercizio di un potere a priori che si gioca sull’attribuzione o destituzione di sensatezza: proprio la sensatezza e la ragionevolezza sono le doti umane che sono state negate per secoli a primitivi, neri, donne… così come agli animali.


[1] Luigi Luca Cavalli Sforza, Daniela Padoan, Razzismo e noismo: le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, Einaudi, Torino, 2013. 

[2] Roma, terza edizione, 1946, p. 22.

[3] vedi Serge Bilé, La légende  du sexe surdimensionné des noirs,  Le Serpent à plumes, Monaco, 2005.

[4] Cf.  Laurie Jo Moore Contributions to understanding racism, «Transcultural Psychiatry», vol. 37, 2000, 147-182.

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