Per una legge sul fine vita

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suicidio assistito

Sul delicato tema del fine vita la Puglia tenta la strada della legge regionale. È il primo caso in Italia, la prima volta che una regione prova a fare da sé. La proposta di legge è stata approvata in Commissione regionale non all’unanimità: hanno votato contro Fratelli d’Italia e due consiglieri regionali del PD, mentre il M5S si è astenuto. Secondo la voce dei promotori. La proposta di legge, che vede come primo firmatario Fabiano Amati (PD), assorbe il dettato della sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 e prevede l’assistenza sanitaria per la morte serena e indolore di pazienti terminali.

Sono dell’avviso che un tema così compresso e delicato esiga il coinvolgimento del Parlamento. La tutela di ciò che concerne diritti civili e sociali non tollera una diversità di questi diritti sul territorio che vanno obbligatoriamente assicurati per tutto il territorio nazionale a beneficio di tutti i cittadini e residenti sul territorio nazionale.

Pertanto, penso che non giovi alla causa delle delicate problematiche in questione e ancor meno alla promozione di un comune sentire, ingaggiare una sorta di competizione o antagonismo istituzionale quasi a voler dimostrare chi arriva prima.

È indispensabile «deporre le armi», abbandonando tutti le trincee delle posizioni ideologiche o dei principi astratti e rinunciando a trasformare in vessilli le persone fragili e vulnerabili alla cui tutela la Corte, e soprattutto la Costituzione, ci chiedono di dare priorità.

L’obiettivo non è quello di avere una legge, ma di averne una buona, che si inserisca nel saldo impianto personalista della nostra Carta costituzionale, tutelando il diritto alle cure e all’assistenza e promovendo forme di prossimità e di solidarietà che rendano il riscorso a decisioni estreme un’opzione a cui tendenzialmente nessuno senta il bisogno di ricorrere.

Morire come «diritto»?

Il morire è questione che riguarda singolarmente ciascuno di noi, ma mai puramen­te individuale, nel senso che accade all’interno di una trama di relazioni, che la progressiva complessificazione dei rapporti sociali rende ancora più ricca ed estesa. Anche se può essere efficace in chiave retorica per forzare il consenso sulla propria posizione, è fuorviante ragionare sul tema del fine vita a prescindere da questa trama di relazioni.

Questo principio personalista, che è anche alla base della nostra Costituzione, è l’orizzonte al cui interno non possiamo non situare la comprensione dei concetti chiave del dibattito che la recente sentenza ha suscitato.

Proprio il principio personalista aiuta a mettere in una corretta prospettiva un elemento che di frequente compare nel dibattito, cioè la rivendicazione del diritto a morire, spesso declinato come diritto a un suicidio medicalmente assistito.

Certo, non è contemplato dalla nostra legislazione ed è estremamente problematico comprenderlo tra i diritti inviolabili della persona o farlo derivare dal diritto alla libertà personale. Da questi diritti deriva piuttosto l’imperativo alla tutela della vita come base per il godimento di ogni altro diritto, con particolare riguardo per chi è più debole e vulnerabile.

È la Corte costituzionale stessa a metterci in guardia contro «una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni [di suicidio] vengono concepite» (Ordinanza n. 207/2018, n. 7).

Contro questo rischio ribadisce la legittimità di disposizioni penali che vietino «condotte che spianino la strada a scelte suicide», ma soprattutto ricorda che il primo dovere dello Stato nei confronti delle persone anziane, malate, sole, psicologicamente provate è predisporre politiche pubbliche che garantiscano cure e sostengano un contesto di prossimità e di solidarietà, cioè rinforzino quel tessuto relazionale in assenza del quale la rivendicazione dell’autonomia si ritorce contro se stessa.

Depenalizzare non vuol dire legalizzare

Anche se nel mondo occidentale viene ormai chiamato un «nuovo diritto», la possibilità di chiedere di porre fine alla propria vita o a quella di un congiunto, va notato che la sentenza n. 242/2019 riconosce non un diritto al suicidio, ma la facoltà di chiedere aiuto per compierlo, a certe condizioni. Inoltre, in nessun caso è configurabile, a carico di alcuno, un’obbligazione di prestare assistenza al suicidio di un’altra persona.

Ciò che la Consulta ha fatto non è stato aprire la possibilità a queste forme di «dolce morte», ma giudicare non punibile chi aiuta coloro che hanno deciso di morire, trovandosi in situazioni abbastanza circoscritte. Deve trattarsi, infatti, di persone con una malattia irreversibile, tenute in vita da trattamenti medici di sostegno, afflitte da sofferenze gravi sia di natura fisica che di natura psicologica.

Sembrano pertanto privi di fondamento sia l’esultanza di chi ha attribuito alla sentenza il merito di aver conferito maggiore libertà nel «decidere della propria morte», sia lo sconcerto e la promessa di battaglie in nome del principio di sacralità della vita di matrice cattolica.

La sentenza non apre alla legalizzazione dell’eutanasia o del suicidio assistito, ma tende a depenalizzare chi aiuta il paziente terminale (nelle condizioni sopra citate) determinato a darsi la morte. Depenalizzare non vuol dire legalizzare, né tanto meno approvare moralmente; quanto riconoscere la situazione limite di cui si tratta!

Sapiente discernimento

Tuttavia, l’imperativo alla tutela della vita non si trasforma mai nell’obbligo a rimanere vivi a tutti i costi. Anche se spesso confuso con il diritto al suicidio assistito, il diritto alla sospensione delle cure è qualcosa di profondamente diverso.

Il diritto a rifiutare le cure o a sospenderle, quando ritenute sproporzionate e quindi troppo onerose, tutela infatti sia la libertà sia l’inviolabile integrità della persona, di cui il controllo degli interventi a cui il corpo è sottoposto è un corollario ineliminabile. In questo caso non ci si dà la morte, né si chiede a un altro di darla, ma la si accetta, ricevendo un adeguato trattamento palliativo, inclusa la sedazione profonda, nell’attesa che essa sopravvenga. È un diritto ben attestato nel nostro ordinamento giuridico, a partire dall’art. 32 della Costituzione.

Una più articolata mediazione politica e culturale aiuterebbe a cogliere meglio la densità antropologica dell’argomento e il collegamento con il significato del morire, che a loro volta rimandano al senso del vivere e della cura reciproca all’interno della comunità.

Riteniamo che la riflessione etica, abbandonando una volta per tutte la sterile contrapposizione tra laici e cattolici, spesso irrigiditi sulle proprie posizioni e restii a un dialogo fruttuoso, dovrebbe tener conto di alcune importanti questioni.

È necessario però aiutarci tutti a uscire dalle ideologie. Non serve ribadire una verità perenne senza confrontarsi con la storia che cambia, con le situazioni particolari. È necessario non fermarsi solo a ribadire i princìpi generali, non trincerarsi dietro ad essi, ma bisogna avere il coraggio di prendere in mano i casi uno per uno e con essi confrontarsi con sapiente discernimento.

Dominio e responsabilità

Può sembrare paradossale ma i riferimenti sia di quanti sostengono il suicidio assistito, sia di quanti l’avversano sono in apparenza gli stessi: l’autodeterminazione, la libertà, la qualità della vita. Ciò che li distingue e che determina opzioni contrapposte è il quadro antropologico (e teologico) complessivo: l’autonomia priva di relazioni da un lato, la vita come dono ricevuto e dato, dall’altro.

Sulle questioni di fine-vita si scatenano battaglie ideologiche tra chi, in nome di un radicalismo individualista, invoca il diritto di morire come, quando e dove si vuole, e chi difende la vita in maniera oltranzista, senza se e senza ma, sempre e in ogni caso. Urge una piattaforma di dialogo per superare ogni deriva ideologica e oltranzista su tematiche che esigono un approccio condiviso e maturo.

In particolare, si assiste al delinearsi di due culture nei confronti del morire che si possono riassumere in due modelli in tensione tra di loro. Un modello di controllo e un modello di cura. Potremmo anche parlare di un modello di dominio e di un modello di responsabilità.

«In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte, lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società. Una particolare attenzione va riservata ai più deboli, che non possono far valere da soli i propri interessi. Se questo nucleo di valori essenziali alla convivenza viene meno, cade anche la possibilità di intendersi su quel riconoscimento dell’altro che è presupposto di ogni dialogo e della stessa vita associata. Anche la legislazione in campo medico e sanitario richiede questa ampia visione e uno sguardo complessivo su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete».[1]

Una società dove si muore male

Senz’altro il progresso medico è assai positivo. Ma, nello stesso tempo, le nuove tecnologie, che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano, richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando questi non giovano più alla persona. In particolare, quando non c’è più proporzionalità tra reale miglioramento e dignità del paziente.

Le mutate condizioni in cui oggi si muore sono in gran parte riconducibili alle aumentate potenzialità tecniche della medicina. Ci siamo accorti, finalmente, di quanto si muoia male nella nostra società. Per tanti motivi: non ultimo quello culturale, vale a dire la rimozione della morte come momento inevitabile e necessario della vicenda umana. Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue insufficienze, bensì – paradossalmente – a causa della sua efficacia.

«Anche le Chiese devono riposizionarsi di fronte alle sfide della vecchiaia e della morte. Questo significa, fra l’altro, non condannare immediatamente ma prendere sul serio le attese, le paure e i bisogni della gente. La ricerca di una buona morte ha oggi bisogno di risposte nuove e credibili».[2]

Non è possibile gestire le situazioni complesse che la medicina tecnologica rende oggi possibili con uno strumento normativo vecchio di quasi un secolo.

Resta chiaro che la sentenza della Corte ha prodotto un assetto che resta precario: l’intervento legislativo non è dunque meno urgente. Il primo compito che come cittadini abbiamo il dovere di assumerci è quindi stimolare il sistema politico a uscire dalla propria inerzia e farsi carico della questione.

Il suicidio non è parte della cura

Prima di affrontare altre decisioni legislative sulla materia, sarebbe auspicabile lavorare per applicare due leggi: la L. n. 38/2010 e n. 219/2017. Un impegno che tocca dimensioni non soltanto politiche e logistiche, ma anche culturali e formative, e che potrebbe favorire una discussione più consapevole delle risorse disponibili per alleviare la sofferenza.

Prima di tutto occorre una più adeguata applicazione della L. n. 38/2010 sulle cure palliative, al momento ampiamente disattesa: alleviare il dolore e far sentire ai malati di essere destinatari di cure anche nelle fasi terminali è di grande efficacia nel contrastare i vissuti di abbandono e di sofferenza in cui spesso si radicano le richieste di eutanasia.

È altresì opportuno partire dalla legge n. 219/2017 su «Consenso informato e Disposizioni anticipate di trattamento» (DAT). Pur non mancando elementi problematici e ambigui, essa è frutto di un laborioso percorso, che ha consentito di raccordare una pluralità di posizioni divergenti. La legge permette di sospendere i trattamenti che – nel dialogo tra operatori sanitari, malato e (per quanto possibile) familiari – sono ritenuti sproporzionati. Essa regolamenta anche, in previsione di una «futura incapacità di determinarsi», l’espressione anticipata del proprio giudizio e la nomina di un fiduciario. Inoltre, promuove le cure palliative e il trattamento del dolore.

Il suicidio non è parte della cura della salute. Perché prendersi cura dei morenti infatti non è aiutarli a togliersi la vita. La medicina oggi è perfettamente in grado di controllare il dolore fisico, l’ansia da soffocamento e l’angoscia dell’avvicinarsi della morte.

La Corte europea dei diritti[3] ha sancito l’impertinenza di invocare la libertà di autodeterminazione come diritto al suicidio e il suo contrasto con le leggi nazionali.

Il suicidio è contrario al desiderio naturale del vivente e l’espressione di una volontà di morte nasconde spesso altre ragioni: fragilità della persona, pressioni familiari, bisogno di riconoscimento, depressione ecc. Accentuare univocamente l’autodeterminazione porta a sottostimare la reciproca influenza che si realizza attraverso la cultura condivisa e le circostanze concrete: richieste apparentemente libere sono in realtà frutto di un’ingiunzione sociale, di cui la spinta economica è parte rilevante. «Difendimi da quello che voglio», scrive il filosofo coreano Han in esergo a un suo libro.[4]

La stessa Associazione medica mondiale mantiene una posizione contraria alla legittimazione di azioni che diano o aiutino a darsi la morte.

Etica dell’accompagnamento

Tommaso Corsi è il protagonista di una novella di Luigi Pirandello dal titolo Il dovere del medico, scritta nel 1911 e rappresentata due anni dopo. Il giovane borghese benestante è rimasto ferito dopo uno scontro a fuoco con il marito della sua amante, caduto sotto i colpi di Corsi. A prendersi cura di lui il dottor Vocalopulo. Nella fitta trama dei paradossi pirandelliani, Tommaso decide di suicidarsi, ma il medico che lo ha in cura, ancora una volta, lo salva. Al termine della novella il protagonista esclama: «Mi ero ucciso. Viene lui. Mi salva. Con quale diritto gli domando io ora?».

Le rocambolesche vicende della novella pirandelliana ci offrono uno spunto per affrontare un tema così delicato e complesso. Pur restando vero che la decisione sulle cure e sulle terapie spetta prima di tutto al paziente, tanto la consapevolezza (sapere cum) quanto la libertà (dalla radice indoeuropea «leudh»: popolo, die Leute, quindi «appartenenza») fanno riferimento al contesto di relazioni in cui vive il paziente: medici, parenti e amici. Per rimanere «soggetti» e quindi «vigilanti» nel soffrire e nel morire, e non divenire «oggetti» passivi, è necessaria un’etica dell’accompagnamento. La tutela della propria identità non può essere solipsistica, anche perché bisognerebbe essere onnipotenti per non dover ricorrere all’aiuto di nessuno.

In sintesi, si tratta di dar vita a un esercizio di dialogo sociale, che includa la molteplicità di prospettive da cui legittimamente si guarda alla questione, così come tutte le visioni del mondo presenti in una società pluralista. Su altre questioni si può più facilmente accettare la decisione a maggioranza, mentre su questa occorre un maggiore sforzo per la costruzione di un consenso davvero inclusivo.

Un passo avanti per tutti potrebbe essere rappresentato dal mettere meglio a fuoco la sottile, ma profonda, differenza tra la sospensione di trattamenti ormai sproporzionati, per tutti accetta­bile, e l’imposizione di un diritto al suicidio medicalmente assistito, a cui molti sentono di dover resistere, soprattutto in ragione della possibilità che finisca per sdoganare dinamiche di scarto di quanti a una malintesa ideologia dell’efficienza appaiono come un peso per la società.

Solo il rispetto e l’ascolto di tutte le posizioni, all’interno dell’orizzonte definito dalla nostra Costituzione, ci consentiranno di arrivare a una legge che potremo autenticamente definire «nostra» in quanto di tutti. Sarà tanto migliore quanto più saremo capaci di impegnarci nel dialogo che la sua elaborazione esige.

«Siamo ben consapevoli della sensibilità e della delicatezza del tema che è di drammatica attualità e poiché riguarda la sacralità della vita necessita di un percorso accurato da parte del legislatore, in un ampio confronto parlamentare che rappresenti il Paese e le reali necessità dei suoi cittadini, scevro da logiche di parte e possibili strumentalizzazioni», afferma la nota della Conferenza episcopale pugliese guidata dal presidente Donato Negro (arcivescovo di Otranto) e dal vicepresidente Michele Seccia (metropolita di Lecce). Una legge che abbraccia, dunque, questioni fondamentali come i diritti, le libertà, il valore della vita.

«Ogni cittadino – incalza la Chiesa pugliese – ha, al di sopra dei diversi iusgarantiti, quello che si può riassumere nello ius vitae, ovvero la tutela da ogni attentato contro la vita e la garanzia che la Comunità se ne prenda cura, non ricorrendo a formule parziali quando non vi riesca». Per i vescovi, quindi, ogni tentativo di normare il fine vita «senza aver posto in atto le opportune garanzie di assistenza e ausilio non è confacente con il rispetto della persona».


[1] Francesco, Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical Association sulle questione del fine-vita, 17 novembre 2017.

[2] Commissione nazionale Giustizia e Pace della Chiesa cattolica della Svizzera, giugno 2016.

[3] Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. V, sentenza 19 luglio 2012, Koch vs Germania, ric. n. 497/09.

[4] Cf. B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Milano 2016.

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