L’immagine che uccide

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La vicenda della trentunenne suicida per via di certe immagini, intime e scabrose, sfuggite in rete al controllo di una diffusione limitata, merita pietà e silenzio, comprensione e pudore, quel debito di umanità che non le è stato concesso dall’animalesco accanimento tribale montato fino all’ultimo con persecutoria e insistente molestia. Ma la circostanza come tale, costantemente in scena nel teatro sociale seppure non sempre con epiloghi così drammatici, ha tutti gli ingredienti per imporre densi interrogativi circa l’iperbolica importanza cui è stata elevata nelle pratiche della socialità postmoderna il ruolo dell’immagine.

Già le origini giudeocristiane, fino a tutta l’era tardoantica, avevano le loro buone ragioni nel limitare la loro influenza, non potendole escludere del tutto, facendone qualcosa di simile a un sacramento (il culto dell’icona) e semplicemente una rappresentazione del mondo (l’umanesimo artistico). Davanti a sé, quella cultura aveva gli antichi idoli, nei quali era fin troppo evidente che l’uomo finiva per adorare quello che decideva di mettere, e che il salmo derideva apertamente come uno sciocco specchiarsi dell’uomo nella propria ottusa ingenuità (sia come loro chi li fabbrica). Ma allora si trattava solo di volti dipinti e statue di legno che la cultura cristiana aveva tenuto a bada con costante determinazione.

Nell’immagine non si adora la cosa, si venera quello che le sta oltre. Tra l’immagine e la realtà restava uno scarto simbolico che andava colmato con la parola. L’immagine tecnologicamente assistita che oggi ha generato, nel giro di un paio di generazioni, quella che Régis Debray ha efficacemente battezzato la «videosfera» ha invece improvvisamente eliminato lo spazio di quella decisiva distanza simbolica. L’immagine non rinvia più a una realtà che la trascende. Non è più nemmeno la rappresentazione verosimigliante della realtà immanente. L’immagine oggi è la realtà. Ne decide la sostanza. Ne determina le forme. E non si tratta di interessanti quanto aeree divagazioni interpretative. Sono le condizioni nelle quali viene oggi praticamente (non) mediato il rapporto fra la coscienza e la realtà. Di mezzo c’è sempre l’immagine, moltiplicata nella lussureggiante e ipnotica varietà dell’universo multimediale, che ormai ha persino sostituito l’immaginario spaziale delle nostre antiche cosmologie. Il flusso delle immagini è il vero acquario nel quale le nostre sensazioni si muovono. Alle immagini dunque, e all’immagine, intesa come reale sostanza del sé, ciascuno affida i processi della propria costruzione identitaria, con tutte le tentazioni esibizionistiche del nuovo narcisismo di massa. È tornato l’idolo. E gli idoli, prima o poi, chiedono i loro sacrifici umani.

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