Una mentalità nuova per la pace

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Il Concilio, con la Gaudium et spes, trattò in maniera approfondita le tematiche della pace e della guerra nel capitolo V della seconda parte, avente per titolo “La promozione della pace e della comunità dei popoli”. Vale la pena andare a rileggerlo e meditarlo.

Franco Monaco su SettimanaNews ricorda come «Lercaro, consigliato da Dossetti, avrebbero voluto un ulteriore scatto evangelico»; anche il tema dell’obiezione di coscienza al servizio militare, considerato con molto favore nella stesura preparatoria, fu sfumato dichiarando che il suo riconoscimento «sembra conforme ad equità» (GS 79). Non mancò la pressione di una parte dei vescovi USA per rendere meno incisivo l’insieme del testo, per evitare che un eccesso di profezia fosse letto come una condanna della guerra del Vietnam.

Cosa scrive la “Gaudium et spes”

Ciò nonostante, è utile ritornare sull’estrema attualità di passaggi come questo: «Una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, e altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto» (GS 79). Basterebbe già questo come metro di giudizio su quanto sta avvenendo in Ucraina.

Ma l’affermazione più importante io credo sia quella che troviamo al n. 80: poiché «il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l’orrore e l’atrocità della guerra» – basta fare un confronto tra il potenziale distruttivo al tempo del conflitto nella ex Jugoslavia e ciò che adesso è sotto i nostri occhi – il Concilio affermava come il possesso e il potenziale uso degli armamenti disponibili, tenendo conto della drammatica possibilità di «reciproca, pressoché totale distruzione delle parti contendenti… ci obbligano a considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova».

Non è da trascurare che, in una nota, il testo rimandi a quel passaggio della Pacem in terris in cui san Giovanni XXIII dichiarò che nell’era atomica è «alienum a ratione» (cioè folle, fuori di testa) pensare che la guerra sia lo strumento adatto a ristabilire i diritti violati. Anche se nelle traduzioni italiane quella netta e inequivocabile sentenza fu edulcorata, dal combinato disposto delle affermazioni conciliari e papali appariva chiara la condanna della guerra, soprattutto della “guerra totale”. Tanto che ne derivò quello che, argomentava don Enrico Chiavacci, è stato l’unico anatema del Vaticano II: «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazioni deve essere condannato».

Vale la penda ricordare almeno un passaggio del successivo paragrafo: «La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi» (GS 81).

Di fronte a quanto sta avvenendo in Ucraina e accanto all’impegno generoso di accoglienza dei profughi, è necessario un serio esame di coscienza comunitario su un grave peccato di omissione delle comunità cristiane: il mancato impegno a «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova». Una mentalità che non abbiamo cercato, alimentato, promosso, e che anzi deve fare i conti con quanto sempre Franco Monaco definisce «militarizzazione degli animi».

Educare alla pace

A costo di sembrare nostalgico, non posso non richiamare l’intenso impegno di educazione alla pace della Caritas di Nervo e di Pasini, dedicato agli obiettori di coscienza che sceglievano il servizio civile in alternativa a quello militare. Era un modo di fornire molti giovani degli strumenti culturali, spirituali e pratici per impostare il rapporto col prossimo, con la società e col mondo avendo come prospettiva la pace e la giustizia. Se questo avveniva anche in ambienti laici, per quanto riguarda la comunità ecclesiale il tema dell’educazione alla pace, alla giustizia e alla mondialità, passava attraverso le associazioni (Azione Cattolica, AGESCI, ACLI, Focolarini… ) e molte parrocchie.

La riflessione sui fondamenti della nonviolenza voleva dire confrontarsi sui testi di don Milani, Ghandi, Martin Luther King, Capitini e altri maestri della nonviolenza, sugli artt. 11 e 52 della Costituzione e sulla stessa Gaudium et spes.

Fu una stagione feconda, una stagione di semina di sensibilità e di idee, sostenuta anche dal confronto con la teologia morale. Che dedicava molta attenzione ai temi della pace e della giustizia. Non era raro che teologi, biblisti e moralisti del calibro di Chiavacci e Mattai partecipassero ai momenti formativi degli obiettori, i quali trovavano accoglienza paterna da parte di molti vescovi attraverso le Caritas diocesane.

Da un po’ di tempo a questa parte la teologia morale ha privilegiato quasi a senso unico lo studio della bioetica, le Caritas sono assorbite dall’esigenza di tamponare le falle delle crescenti povertà, nella pastorale sono palesi segni di ripiegamento intraecclesiale non riuscendo a diventare «ospedale da campo» e «Chiesa in uscita». Quanto alla politica, guai a parlarne nelle parrocchie!

Mons. Giovanni Nervo, padre fondatore della Caritas italiana, pubblicò un volumetto di riflessioni sulla pace dal titolo: Obiettori di coscienza, imboscati o profeti? Più volte criticò il “nuovo modello di difesa” del Governo italiano, che perseguiva l’obiettivo neanche troppo nascosto di difendere, se necessario anche con l’esercito, gli interessi economici e commerciali dell’Italia all’estero.

Nervo scriveva nel testo citato: «è vero che nella guerra vanno di mezzo tutti, però quelli che soffrono di più sono i poveri. Lo dimostrano i 14 milioni (ndr: allora!) di profughi raminghi per il mondo, quasi sempre a causa di guerre interne o esterne. Questo porta, per coerente concretezza, a dover affrontare i temi del rifiuto della guerra e della promozione di una cultura di pace. Per questi motivi, l’educazione alla pace rientra nelle finalità istituzionali della Caritas italiana».

Quali iniziative per la pace?

Con il passaggio all’esercito professionale, e quindi venuta meno la leva militare obbligatoria e di conseguenza la prospettiva dell’obiezione di coscienza, l’attuale servizio civile ha dato luogo a numerosi e attivi “progettifici”; ma quale consistenza e incisività ha l’educazione alla pace nell’iter formativo dei servizi civilisti?

Nel frattempo, pur continuando ad appartenere alla natura della Caritas italiana, la promozione della testimonianza della carità della comunità ecclesiale «in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace» in base all’art. 1 dello Statuto, l’Ufficio dei problemi sociali e del lavoro della CEI a partire dall’anno 2000 ha esteso le proprie competenze all’ambito “giustizia e pace” (oltre che alla custodia del creato). Quindi, la Chiesa italiana ha ben due soggetti istituzionali deputati a occuparsi di pace, e quindi a far sì che, nella mente e nel cuore dei cattolici italiani, per fedeltà al Concilio, prenda consistenza quella «mentalità completamente nuova» reclamata dal Concilio.

Che cosa si sta facendo in tal senso? Con quali strumenti? C’è bisogno che la Russia invada l’Ucraina perché nelle chiese si preghi per la pace? E i messaggi pontifici del 1° gennaio (intuizione dello stesso san Paolo VI, che andò all’ONU come messaggero di pace) quale risonanza profetica hanno nella comunità civile per iniziativa delle diocesi, delle parrocchie e delle associazioni cattoliche?

C’è davvero spazio per un serio esame di coscienza, tanto più necessario nel cambio degli scenari che seguirà a questa guerra (ci torneremo dopo alcune considerazioni sui drammatici frangenti attuali).

Per adesso, dando per acquisito che la guerra della Russia all’Ucraina è una palese violazione del diritto internazionale, il dibattito verte sull’opportunità e/o liceità della fornitura di armi alla nazione aggredita che resiste all’invasore. Più a monte, c’è la questione dell’esistenza e delle finalità della NATO, della sua trasformazione o involuzione dopo il crollo della “cortina di ferro”. Con la chiara incapacità o quanto meno l’insufficienza dell’Europa a gestire in prima persona, in maniera unitaria e meno USA-dipendente, i rapporti con la Russia e i paesi ad essa collegati. Il tutto deve fare i conti con la subordinazione di vari stati europei, Italia in primis, ai rifornimenti energetici che arrivano da quella parte.

Adesso pare che l’Europa stia trovando più forti motivi di unione, una più forte coesione e unitarietà in tema di politica estera e di strategie militari, fino a ipotizzare come obiettivo un unico esercito europeo. I giornali hanno pubblicato i costi per la difesa da parte di ciascun singolo stato, la somma dei quali è esorbitante rispetto all’effettiva forza armata dispiegabile. Il risparmio che deriverebbe da un solo esercito europeo potrebbe incrementare, nei singoli stati, capitoli importanti come il welfare e la protezione civile. Ma anche (perché no?) impegni comunitari per la cooperazione allo sviluppo del Sud del Mondo e per l’accoglienza dei migranti.

Fuori dalle sacrestie!

Sarebbe una via per rendere più credibile e meno retorica la vantata superiorità dell’Occidente. Perché, se la democrazia liberale e la libertà di pensiero e di opinione sono valori di primaria importanza delle nostre società – a differenza della Russia e degli stati satelliti –, non mancano tuttavia, all’interno dei singoli paesi e nelle rispettive relazioni internazionali, ben precise responsabilità negative in primo luogo da parte degli USA ma anche degli stati europei: il modo di produrre ed esportare armi, la finanziarizzazione dell’economia, la concentrazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di soggetti a cui corrisponde l’aumento della povertà sia assoluta sia relativa, la mancanza di seri progetti di cooperazione allo sviluppo… Per queste e altre scelte, impossibili senza dare una svolta ai modelli di sviluppo correnti, basta prendere sul serio la Fratelli tutti.

Mettere mano con coraggio a progetti lungimiranti non è mestiere dei burocrati di Bruxelles, né di una classe di politici la cui prima preoccupazione è il consenso nel breve periodo. Ci vogliono intelligenza, competenza, abnegazione, idealità pulite e credibili: cose da sognatori con i piedi per terra. È qui che servirebbero dei “cristiani prestati alla politica” per dare all’Europa un supplemento d’anima. Credenti liberi e fedeli, meno gente nelle sacrestie e più uomini e donne nelle città, col sostegno di Chiese (vescovi, preti, teologi, centri di cultura e di pastorale…) mosse dal bisogno di maturare una mentalità completamente nuova: sulla pace, sulla guerra e su tante altre cose.

Calci (Pisa), 19 marzo 2022

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3 Commenti

  1. Andrea Cappelletti 29 marzo 2022
  2. Tobia 23 marzo 2022
  3. M. Modesto 23 marzo 2022

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