Minori: chi li maltratta e chi… guarda

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Commette il reato di «maltrattamenti contro familiari o conviventi»,[1] nella forma del concorso omissivo, l’educatrice dell’asilo nido che, a conoscenza delle violenze sui minori perpetrate dalle sue colleghe in altra sezione, omette di denunciare i fatti alle competenti autorità, limitandosi esclusivamente a disapprovarle. Il reato di «maltrattamenti contro familiari o conviventi», infatti, può essere realizzato anche mediante concorso di omissione in condotte commissive e il relativo delitto, pure configurabile in assenza di un rapporto diretto tra reo e vittima, può verificarsi anche all’interno di una struttura pubblica di assistenza.

Lo ha affermato la sesta sezione penale della Corte di Cassazione in una recente sentenza[2] che, a motivo dell’argomento trattato, ha attinenza con analoghi episodi di cui i media di tanto in tanto danno notizia.

Il fatto

L´episodio sottoposto all’esame dei supremi giudici di legittimità può essere sinteticamente richiamato nei termini che seguono.

In un asilo del ravennate si verificano maltrattamenti fortemente vessatori ai danni degli alunni da parte di alcune maestre e di un´ausiliaria, che sono sottoposte ad un procedimento penale.

Insieme ad esse è anche chiamata a rispondere del medesimo reato un’educatrice che opera in una contigua sezione del medesimo asilo e che ha una posizione di garanzia in quanto ricopre il ruolo di referente del Comune all’interno della struttura con il compito di rapportarsi con le autorità scolastiche in ordine alle programmazioni educative della stessa.

Secondo quanto emerso in sede di istruttoria, questa educatrice era perfettamente a conoscenza dei comportamenti posti in essere dalle colleghe a danno dei bimbi per essere stata presente in alcune circostanze o perché comunque, anche in caso di assenza, non poteva non sapere sulla base della situazione di fatto e di presunzioni di base, dei comportamenti delittuosi e contra legem delle colleghe.

Il Tribunale di Ravenna, con una sentenza particolarmente severa emessa nel 2014, dichiara l’imputata colpevole del reato di «maltrattamenti contro familiari o conviventi» che, come previsto dalla legge, si riferisce a numerose diverse condotte che non necessariamente conducono all’alveo della famiglia. Il delitto, infatti, sussiste tutte le volte che la relazione tra soggetto che maltratta e soggetto maltrattato presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento, come quello rinvenibile negli ambienti scolastici nell’ambito di esercizio di una professione esercitata nei confronti di minori per ragione di istruzione, cura o vigilanza.

Con sentenza emessa nel dicembre 2016 la Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale, dichiara l’imputata colpevole del – decisamente meno grave – reato di omessa denuncia di cui all’articolo 361 c.p., condannandola alla multa di euro 300, respingendo altresì gli appelli proposti dalle parti civili.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, nel porre termine alla vicenda, ribalta la decisione della Corte d’appello e, condividendo le ragioni del Tribunale, individua nel comportamento dell’educatrice il concorso nel reato di maltrattamenti a danno di bimbi dell’asilo nido in questione.

Secondo i giudici di legittimità, i danni riportati da questi ultimi in ragione del comportamento violento delle maestre si sarebbero evitati completamente ove l’educatrice, referente del Comune all’intero del nido, avesse denunciato il comportamento stesso non appena venutane a conoscenza.

La figura del concorso mediante omissione nel reato commissivo trova la sua fonte nell’articolo 40, comma 2, c.p., secondo il quale «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Chi, trovandosi in una posizione di garanzia, omette di proteggere la vittima, concorrendo a cagionare in essa un perdurante stato di sofferenza e sopraffazione, incorre in una responsabilità penale.

Commette, pertanto, il reato di maltrattamenti in famiglia, nella forma del concorso omissivo, l´insegnante che, a conoscenza delle violenze sui minori perpetrate dalle sue colleghe in altra sezione della struttura scolastica, omette di denunciare i fatti alle competenti autorità, limitandosi esclusivamente a disapprovarle, nulla facendo di risolutivo per prevenire e/o impedire comportamenti violenti a danno di minori.

Maltrattamenti nelle scuole: dati inesistenti

Non è detto che episodi di violenza a danno di minori, a volte in tenerissima età, come quello preso in esame dalla Corte di Cassazione, stiano aumentando.

Più probabilmente è cresciuta una maggiore consapevolezza sociale del fenomeno, al quale segue una più elevata attenzione da parte sia delle autorità che della pubblica opinione.

Fermo restando che la stragrande maggioranza del personale degli asili e delle scuole dell’infanzia, a tutti i livelli, è non solo preparata ma anche moralmente inattaccabile, nella consapevolezza di svolgere funzioni (notoriamente sottopagate) di straordinaria importanza per l’armonico sviluppo dei piccoli loro affidati, fa in ogni caso riflettere il fatto che, a fronte di circa 9.350 asili nido e oltre 45.000 educatrici presenti sul territorio nazionale, sugli abusi commessi nelle scuole italiane la letteratura sia pressoché inesistente.

A parlarne sono più che altro le pagine dei quotidiani, spesso locali, perché forse il tema non è considerato degno di attenzione a livello nazionale.

Un reato che può coinvolgere anche l’ambito scolastico

Può essere utile, in questa sede, richiamare brevemente alcuni elementi di diritto vivente, in ordine alla configurazione del reato di «maltrattamenti contro familiari» (articolo 572 c.p.) in ambito scolastico.

La norma è collocata all’interno dell’undicesimo titolo del secondo libro del codice penale, titolo dedicato ai delitti contro la famiglia e, in particolare, nel capo quarto, intitolato «dei delitti contro l’assistenza familiare» .

Una prima questione riguarda il campo di applicazione della norma che, stando alla relativa rubrica, potrebbe indurre a ritenere che il reato sia limitato ad un contesto di famiglia o di convivenza.

In realtà, la norma fa riferimento a due diverse tipologie di condotte, in quanto punisce:

  • chiunque maltratti una persona della famiglia o, comunque, una persona convivente;
  • chiunque maltratti una persona sottoposta all’autorità o affidata all’autore del fatto di reato per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

Il bene giuridico tutelato è costituito sia dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, che dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone che, per ragioni di istruzione, cura, vigilanza o custodia, sono affidate a chi esercita professioni educative.

Maltrattamenti e abuso di mezzi di correzione

Una seconda questione riguarda il rapporto che intercorre tra il reato di «maltrattamenti contro familiari e conviventi» (art. 572 c.p.) e il reato di «abuso dei mezzi di correzione o di disciplina» (art. 571 c.p.), dal momento che il reato di maltrattamenti è configurabile – come stabilito dalla legge – fuori dei casi di abuso dei mezzi di correzione.

L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può mai rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.

Nel momento in cui ci si trova di fronte alla necessità di valutare quando un comportamento costituisca abuso del mezzo di correzione e quale significato debba essere attribuito alla locuzione «maltrattamento del minore», tale valutazione va fatta alla luce dei valori attuali della nostra civiltà; valori che escludono che la violenza possa costituire strumento educativo e che sono suggellati in pieno dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini.[3]

Con riguardo a questi ultimi il termine «correzione» va, pertanto, assunto come sinonimo di «educazione», con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo.

In ogni caso, non può ritenersi tale l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l’ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice.

In conclusione, il delitto di «abuso dei mezzi di correzione e disciplina» presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi educativi, che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a causa dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura. Ove, invece, la persona offesa sia vittima di continui episodi di prevaricazione e violenza, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita, ricorre il più grave reato di «maltrattamenti contro familiari o conviventi».


[1] Previsto dall’articolo 572 del codice penale: «Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente (“Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”, ndr), maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni». La rubrica, che fino al 2012 tempo recitava «maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli», è stata innovata dalla legge 1° ottobre 2012 n. 172 che, eliminando il riferimento ai fanciulli e aggiungendo quello ai soggetti conviventi, ha voluto conferire alla condotta una portata più generale. L’attuale rubrica, infatti, recita: «maltrattamenti contro familiari o conviventi».
[2] Cass. Pen. Sez, VI, sent. n. 10763 del 9 marzo 2018.
[3] Ratificata dall’Italia con la legge 27 maggio 1991 n. 176.

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