“Non impareranno più l’arte della guerra”. Quando?

di:

pace

Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici (Mt 5,43-44).
Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici (Lc 6,27).

Russi e Ucraini. Ebrei e Palestinesi. Dinka e Nuer. Greco-ciprioti e Turco-ciprioti. Serbi, Croati, Bosgnacchi. Iraniani e Iracheni. Sovietici e Afghani. Americani e VietCong. Egiziani e Israeliani. Nordcoreani e Sudcoreani. Tedeschi e Britannici. Tedeschi e Francesi. Francesi e Italiani. Italiani e Tedeschi. Sovietici e Americani. Cinesi e Giapponesi. Giapponesi e Americani. Austriaci e Italiani. Austriaci e Ungheresi. Francesi e Prussiani. Il filo della Storia si dipana così, di guerra in guerra, di nemico in nemico.

Sfilano i decenni, i secoli, i millenni. Il capo del filo, a 4500 anni da qui, porta i nomi di due città sumere, Umma e Lagash.

La guerra tra queste due città è la prima guerra di cui ci sia stata conservata testimonianza scritta: il più antico monumento della Mesopotamia, la Stele degli Avvoltoi, datato al 2460 a.C., racconta la battaglia vittoriosa del sovrano di Lagash, Eannatum, contro la città rivale di Umma, dopo un secolare conflitto per il controllo del canale e del fertile territorio agricolo di Guedenna, situato fra le due città.

La stele deve il suo nome al rilievo che raffigura degli avvoltoi in volo con la testa dei nemici nel becco; il testo dell’iscrizione celebra la vittoria di Eannatum e la definizione del confine fra le due città: «Eannatum ha sconfitto con le armi la città di Umma e ha accumulato venti colline di cadaveri. A Ningirsu ha restituito il Guedenna».[1]

All’inizio della Storia, la guerra fra Lagash e Umma mette in scena lo stesso copione che ritroviamo, oggi, nella guerra tra Russia e Ucraina. Gli esperti di strategia militare, gli analisti geopolitici, gli storici di professione, possono ben impegnarsi, ogniqualvolta si apra un nuovo scenario bellico, in fitte ricostruzioni delle dinamiche e delle cause, remote e immediate, dell’ostilità latente o scoperta che ha provocato la deflagrazione del conflitto: di fondo, ogni guerra non fa che fotocopiare il già visto. Possono cambiare le aggettivazioni – santa, giusta, d’indipendenza, di liberazione, di conquista, di religione, di successione, di secessione, di mafia, civile, coloniale, lampo, di posizione, tribale, totale, nucleare, convenzionale, non convenzionale: sempre guerra è.

Una recita a soggetto

Copione immutato, dunque. Anzi, più che di copione, sarebbe corretto parlare di canovaccio. Il copione obbliga alla ripresa puntuale del testo, ad una fedele, pedissequa ripetizione. Il canovaccio, invece, apre ad una infinita possibilità di variazioni individuali: una volta indicato il “soggetto” da mettere in scena, gli attori possono giocare liberamente di inventiva e creatività personale, lasciandosi guidare dall’estro del momento e dall’improvvisazione.

La guerra è uno spettacolo che si recita a soggetto. Il soggetto è: “Dove passa il confine?”. Il sistema dei personaggi prevede due ruoli principali, un protagonista e un antagonista – detti “nemici” –, attorno ai quali ruota una rete più o meno fitta di aiutanti-comprimari – detti “alleati”.

L’azione assume la forma-tipo della “lotta”; una volta stabilito chi fra i contendenti sia il vincitore e chi il vinto, il vincitore avrà facoltà di decidere dove piantare i pali di confine. Tempi e varianti dell’azione – in sintesi, quali e quanti morti – sono lasciati alla discrezione, alla fantasia e alle doti di improvvisazione dei protagonisti.

Un lembo di terra e un confine. Dove passa il confine? Dove si piantano i pali? Dove si alza il muro? Dove finisco io e dove cominci tu? La guerra è, anche e soprattutto, una questione di identità.

I Romani l’avevano capito molto bene: la storia di Roma – la nostra storia – inizia con un muro e con un fratricidio. Remo, che oltrepassa il solco tracciato dal fratello per delimitare il perimetro della città, diventa simbolo dell’alterità minacciosa, che non può essere integrata all’interno della comunità. Ed è proprio attraverso l’eliminazione di Remo – l’alter che, in quanto gemello, incarna l’alterità per eccellenza –, che Romolo e quelli che stanno con lui prendono coscienza di essere diventati un popolo, di essere diventati Romani: davanti al nemico la comunità si riconosce come “nazione” e definisce la propria identità nazionale.

L’identità si gioca sul crinale del confine. Per questo Marte, il dio romano della guerra, è, prima di tutto, il dio dei confini. Nel Carmen Arvale, un antichissimo inno che veniva cantato, in un latino arcaico, durante i riti in onore della Dea Dia, luminosa protettrice della terra e delle messi, i dodici sacerdoti che facevano parte del collegio dei Fratres Arvales invocavano la protezione di Marte, dio della guerra, in quanto custode del limen, della soglia e della frontiera:

Satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber.
Sii sazio, crudele Marte, balza sulla soglia, lì rimani.

Il gioco delle parti

L’alterità traccia il confine e mi permette di definire la mia identità. Posso conoscermi e riconoscermi solo grazie alla presenza dell’altro, solo dentro una relazione posso diventare me stesso (me stessa…). L’altro che mi sta al fianco concorre alla mia definizione, perché io, da me, non mi autodefinisco. Solo il con-fine mi de-finisce.

Con l’alterità possiamo incontrarci o possiamo scontrarci: il “conflitto” è il respiro della relazione. Il verbo confligere ha in sé una duplice anima: confligere è uno “spingere ad incontrarsi” – per cercare lo scambio, il riconoscimento reciproco, l’amarsi.[2] Ma è anche, ed è questa l’accezione più diffusa, un incontrarsi per distruggersi.

Il confine è fragile, e può diventare pericoloso e violento. Remo, il fratello, il gemello, si palesa come nemico da uccidere. Quanto è labile il confine tra l’hospes e l’hostis… Quanto è esile e minuta la linea che, dentro di noi, distingue e separa l’ospite dal nemico, chi può essere accolto da chi dev’essere respinto, allontanato, scacciato, sopraffatto, eliminato. Siamo noi che decidiamo quale parte giocare e quale parte affidare all’altro. Siamo noi che possiamo pensare l’altro come hospes o come hostis.

C’è stato un tempo – neanche troppo lontano – in cui anche noi italiani avevamo dei nemici da uccidere. Nella Prima Guerra Mondiale i nostri nemici da uccidere erano gli austriaci; la Seconda iniziò con un nemico, i francesi, e terminò con un altro, i tedeschi. Succede.

Davvero c’è stato un tempo in cui odiavamo e ammazzavamo i tedeschi, gli austriaci, i francesi? Davvero. C’è stato perfino un tempo in cui i nostri nemici abitavano ad una manciata di chilometri soltanto, poco oltre il fiume, là, dietro la collina. Un tempo in cui i Fiorentini erano nemici dei Senesi, e le guerre tra Siena e Firenze lasciavano sul campo di battaglia, in un solo giorno, migliaia e migliaia di cadaveri. Come a Montaperti, nel settembre del 1260, quando si vide lo strazio e ’l grande scempio/ che fece l’Arbia colorata in rosso.[3]

Costruire il nemico

Nemici. La parola si propone con la linearità incontrovertibile delle definizioni puntuali, prive di slabbrature. Nemici: popoli che si odiano, che imbracciano armi per farsi violenza, che si ammazzano reciprocamente, dentro una tragica dimensione di autismo collettivo.

Ah, Gerusalemme, mio cuore, mia città disperata,
perché i tuoi figli non ascoltano
i pensieri dei propri nemici?
[4]

La comunicazione fra le parti è impossibile, e ad ognuno dei contendenti non resta che recitare la propria, fino in fondo, fino allo sfinimento. Nemici fino alla morte, nemici oltre la morte: l’odio scava radici che si diramano di generazione in generazione, e ogni nuova generazione viene educata a cercare vendetta per le ingiustizie commesse sulla precedente.

La guerra giustifica e dà senso all’odio, è il medium che integra e permette all’odio di conservare e amplificare tutta la sua carica distruttiva. La guerra costruisce e giustifica il nemico. Prima della guerra, russi e ucraini non si consideravano nemici; si sono scoperti nemici a febbraio dello scorso anno.

Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro. Pertanto, quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo.[5]

La costruzione del nemico inizia con il dilatare e il dare massima risonanza alle differenze, per poi arrivare alla cancellazione, nell’altro e dall’altro, di ogni traccia di umanità. A questo punto, il nemico è diventato la personificazione del male assoluto.

Alzare muri, distruggere ponti

Il popolo nomade fattosi stanziale diventa guerrafondaio. Stabilisce i confini delle proprietà, alza i muri, divide. Il muro come esercizio di ostilità, come ostilità in atto. Ogni tanto anche da noi, che da quasi ottant’anni non siamo più in guerra con nessuno, e che, al momento, sembreremmo non avere nemici, ogni tanto qualcuno ci prova a rilanciare l’idea: ah, i buoni vecchi muri di una volta… perché non costruirne uno a Trieste, là sul Carso, al confine tra Italia e Slovenia, per difenderci dai nemici che ci invadono a piedi attraverso la rotta balcanica? – proponeva giusto un paio d’anni fa il nostalgico Salvini.

Sul confine, anziché costruire o rinforzare barriere, si possono costruire dei ponti. Il ponte è l’altra possibilità, l’altro volto del muro.

Costruire un ponte è un gesto dalla fortissima valenza simbolica. Per questo nell’antica Roma i “costruttori di ponti”, i Pontifices, erano sacerdoti. L’arco del ponte lega e collega due sponde opposte del fiume, due rive nemiche, due luoghi altri, due alterità – l’umano e il divino, l’immanente e il trascendente.

Se potente è il simbolo del pontem facere, altrettanta, se non maggiore, potenza simbolica è implicata nel gesto distruttivo del tagliare i ponti. Durante le guerre jugoslave, che insanguinarono i Balcani tra il 1991 e il 2001, fra le immagini che, più di ogni altra, sono assurte a simbolo dell’ingiustificata follia della guerra, vi sono le riprese della distruzione del Ponte Vecchio di Mostar.

Mostar ospitava, da secoli, bosniaci cristiani da un lato del fiume Neretva e bosgnacchi, cioè slavi di religione musulmana, dall’altro lato. Lo Stari Most, il Ponte Vecchio, che dal XVI secolo collegava le due parti della città, era lì a raccontare una lunga storia di convivenza pacifica tra le due comunità – una storia ben diversa da quella proposta dai nazionalisti serbi e croati che avevano innescato la folle tragedia della guerra. Bisognava distruggerlo, quel ponte, per distruggere e negare l’identità pluralista delle genti di Mostar. La mattina del 9 novembre 1993, dopo due giorni di cannoneggiamenti da parte delle forze croato-bosniache, lo Stari Most crollò.

Ricostruito con le stesse pietre e inaugurato dieci anni dopo, nel luglio 2004, il ponte di Mostar è tornato ad essere, per la sua città e per l’Europa, simbolo di una possibilità di riconoscimento e di scambio reciproco, di riconciliazione e di unità fra popoli diversi.

Genocidi e stupri di guerra

Agosto 2022. In molti quotidiani compare un titolo che suona pressappoco così: “Morto l’uomo più solo del mondo”. Si parla del ritrovamento, a circa un paio di mesi dal decesso, del cadavere di un Indio, unico sopravvissuto della tribù amazzonica dei Tanaru, massacrata dagli allevatori di bestiame tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento. Con la morte di quest’uomo, vissuto nella foresta in totale solitudine per più di trent’anni, scompare definitivamente un popolo, una lingua, una cultura: si chiama “genocidio”.[6]

La parola sta rimbalzando sui media anche in questi giorni, pronunciata dal presidente brasiliano Lula in visita nella regione del popolo Yanomami. C’è una guerra in Amazzonia. La combattono, contro gli Indios, le grandi compagnie minerarie e le lobby agroalimentari che depredano le terre e distruggono la foresta Amazzonica, per sfruttarne avidamente le risorse. È l’ennesima variazione del tema Dove passa il confine?

Il tema del confine violato lega fra loro, con un altro filo d’orrore, le storie di tutte le guerre del mondo: il sangue del nemico abbattuto si mescola, sempre, al sangue delle donne stuprate. Le guerre combattute dai maschi si giocano e si decidono su un corpo di donna. La striscia di terra per cui si combatte è ogni volta e sempre Gaia, la Terra Madre, la Donna, la Vita. Perciò ammazzare il nemico in battaglia non basta.

A guerra finita, tutto verrà sepolto dalla coltre di un silenzio vergognoso e colpevole; ma lì, nel cuore folle della guerra, la pratica bestiale dello stupro è simbolica inevitabile che sottoscrive, dichiara e rinforza l’anima perversa di ogni guerra: la terra per cui si combatte è un corpo di donna da violentare, ogni donna violentata è la terra su cui il vincitore firma con lo sperma e il sangue il proprio diritto di possesso.

Genocidi e stupri di guerra squarciano la tela della menzogna: la Guerra si autogiustifica attraverso una retorica criminale che spaccia per eroismo ciò che, nella sua radice profonda e nella sua concreta realizzazione, altro non è che violenza bruta e assassinio.

Il poema della forza

Negli anni 1939-1941, a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Simone Weil scriveva un breve, intenso saggio dal titolo L’Iliade, poema della forza.[7] Meditando su alcuni snodi portanti del capolavoro omerico, Weil coglieva nella riflessione sulla “forza” il significato profondo e l’eredità più vera del poema che, da tremila anni, canta la guerra tra Greci e Troiani.

La forza, ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa, è, secondo Simone Weil, l’unico e solo eroe dell’Iliade. Il potere della forza – trasformare gli uomini in cose – è duplice e ambivalente: essa pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano. Nessuno possiede veramente la forza. La forza stritola spietatamente chi le è sottomesso e altrettanto spietatamente inebria chi la possiede o crede di possederla. Il vincitore del momento si sente invincibile, anche se ha conosciuto la disfatta qualche ora prima: dimentica di usare la vittoria come una cosa destinata a passare.

La brutalità della guerra nell’Iliade non è taciuta, nascosta o mascherata; ma nel poema non traspare odio o disprezzo per i vinti, né ammirazione per i vincitori: c’è, piuttosto, consapevolezza della reciprocità dei destini di chi viene toccato dalla forza, sia che se ne serva, sia che la subisca. Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, giacché è la forza, in realtà, ad esercitare il dominio su ogni cosa.

Poiché la forza stritola tutti coloro che tocca, non è posseduta da nessuno ed è esteriore tanto rispetto a chi la esercita, come rispetto a chi la soffre, nell’Iliade si fa strada l’idea di un destino sotto il quale i carnefici e le vittime sono del pari innocenti, i vincitori e i vinti fratelli nella stessa miseria.

È il sentimento della miseria umana che genera il sentimento della prossimità tra vincitori e vinti; ed è solo guardando la vita da questo punto prospettico che si riesce a superare la fallace illusione di poter tracciare una linea di demarcazione netta tra bontà assoluta e malvagità assoluta.

L’esperienza brutale della guerra tra Greci e Troiani dà forma alla consapevolezza di un destino comune per tutti gli uomini, ugualmente sottomessi alla forza. Ma questa consapevolezza, scrive Simone Weil, non è stata fatta propria dai due popoli che, in modo decisivo, hanno segnato la storia dell’Occidente: Tanto i Romani come gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana, i primi quale nazione prescelta dal destino a essere padrona del mondo, i secondi grazie al favore del loro Dio e nella misura esatta in cui gli obbedirono.

Proprio perché hanno creduto di potersi sottrarre al destino di vulnerabilità che accomuna tutti gli uomini, Romani ed Ebrei – sostiene perentoriamente Simone Weil – sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e nelle parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo.

Nel quadro uniforme d’orrore dispiegato dalla guerra, l’unica possibilità di salvezza per l’anima umana viene dai gesti di abnegazione e di amore che riescono a superare lo stordimento e l’accanimento della battaglia. Tra i versi dell’Iliade s’intrecciano vicende sublimi di amore, nelle sue forme più pure e diverse: amore di ospitalità, amore filiale, amore fraterno, amore coniugale. Ma, afferma a chiare lettere Simone Weil, il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sale al cuore dei nemici mortali.

Proprio questo amore che riesce ad unire i nemici fa sparire la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso; cancella, miracolo ancora più grande, la distanza tra benefattore e supplice, tra vincitore e vinto.

Dalla consapevolezza che nulla è al riparo dalla sorte fiorisce il lascito più vero del poema: non ammirare mai la forza, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati.

Admira e Boško

Fuggire da Sarajevo e vivere, altrove, una vita normale. Era questo, nel maggio del 1993, il sogno di Admira Ismić e Boško Brkić, due ragazzi di venticinque anni che la guerra di Bosnia aveva reso nemici. Admira musulmana, Boško serbo-ortodosso: si erano conosciuti al liceo otto anni prima, quando Sarajevo, come Mostar, era una città simbolo di convivenza pacifica e la separatezza etnica e religiosa non era ancora diventata una bandiera da sventolare con odio irragionevole e cieco.

Con l’inizio della guerra, nella primavera del 1992, Sarajevo si era ritrovata sotto il tiro vigliacco dei cecchini, appostati negli ultimi piani dei grattacieli o sulle colline. Venticinque colpi raggiunsero Admira e Boško mentre cercavano di attraversare il ponte Vrbanja, che portava alla parte serba della città; da qui avrebbero poi tentato di organizzare la fuga verso l’estero. Venticinque colpi. Il primo raggiunse Boško, che morì subito; un secondo colpo ferì Admira, che riuscì a trascinarsi fino al cadavere di Boško, mentre i cecchini continuavano a sparare. Questa è la guerra.

Per otto giorni i corpi dei due fidanzati rimasero sul ponte, finché, negoziato un breve cessate il fuoco, i familiari poterono recuperarli e dare loro sepoltura.

Era il 19 maggio 1993, solo ieri, nel cuore d’Europa. Resta qualche breve ripresa e la fotografia di due zaini neri riversi sul selciato, le scarpe da ginnastica, i jeans, le felpe. Corpi giovani di ragazzi uccisi dalla Guerra, insensata, oscena e assassina come tutte le guerre.

Amate i vostri nemici.
La Parola più scandalosa,
esigente, rivoluzionaria, difficile –
impraticata –
della nostra Storia.


[1] Ningirsu è il dio sumero della vegetazione e della guerra. Cf.: https://www.storicang.it/a/prima-guerra-della-storia_15784

[2] Lucrezio, De rerum natura IV, 1215-1216: Semina cum Veneris stimulis excita per artus/obvia conflixit conspirans mutuus ardor. (Quando il reciproco ardore spirando spinge ad incontrarsi i semi eccitati dai pungoli di Venere entro le membra)

[3] Dante Inferno X, 85

[4] Cafè Jerusalem, testo teatrale di Paola Caridi, in https://www.invisiblearabs.com/2018/10/13/cafe-jerusalem-il-testo/.

[5] Umberto Eco, Costruire il nemico, La nave di Teseo, 2020.

[6] https://www.focus.it/ambiente/ecologia/amazzonia-muore-un-uomo-scompare-una-tribu.

[7] Simone Weil, L’Iliade, poema della forza, traduzione di Cristina Campo, in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla 1984.

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